La transazione nella procedura fallimentare

Con la presente trattazione si intende approfondire la questione relativa all’ammissibilità del negozio di transazione stipulato dal curatore in fase di liquidazione dell’attivo fallimentare.

La procedura fallimentare, come le altre procedure concorsuali, è caratterizzata dalla ricostruzione coattiva del credito, volta al soddisfacimento della massa dei creditori del fallito, in virtù del principio della par condicio creditorum.

Il risultato finale si concretizza con la vendita dei beni e la ripartizione dell’attivo tra i creditori, tenuto conto della titolarità del credito adeguatamente provata e del grado spettante a ciascuno.

A seguito della presentazione della domanda di insinuazione allo stato passivo, ove è indicata la natura e l’entità del credito, il curatore è investito del compito di individuare i creditori ammessi a prendere parte alla liquidazione del patrimonio del fallito e quelli che invece devono essere esclusi.

Lo stato passivo, così formato, viene dichiarato esecutivo dal Giudice delegato ai sensi dell’art.97 L.F.

L’obiettivo della procedura è quello di pervenire alla massima soddisfazione possibile della massa creditoria, attraverso la stesura di un programma di liquidazione che ha inizio con il progetto di stato passivo e termina con il riparto dell’attivo.

La delicatezza di tale momento “propriamente concorsuale” impone più che mai il rispetto della par condicio, sebbene, non di rado, si verificano situazioni particolari e potenzialmente vulneranti, quale appunto quella di seguito descritta.

Indice:

  1. La vendita competitiva tra snellimento e trasparenza
  2. L’istituto della transazione prima e dopo la riforma della Legge Fallimentare

La vendita competitiva tra snellimento e trasparenza

Lo scopo cui tende la liquidazione dell’attivo fallimentare è riassumibile in 3 momenti: apprensione del patrimonio del fallito, programmazione ed esecuzione del programma.

Queste attività hanno un carattere omnicomprensivo poiché non si limitano a coinvolgere i soli beni materiali, ma anche i diritti, le aspettative e quanto sia suscettibile di essere trasformato in liquidità.

A tal fine il curatore può ricorrere a qualsiasi mezzo legale si renda utile alla formazione dell’attivo, quale ad esempio l’esercizio di azioni revocatorie, risarcitorie e recuperatorie, l’esercizio provvisorio dell’impresa, del ramo d’azienda o l’affitto della stessa (art.104 L.F.); tutto ciò secondo un modello di celerità e, ove possibile, di deformalizzazione.

Con il D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169 il legislatore è intervenuto in un’ottica di semplificazione e snellimento, la cui espressione si rinviene, tra l’altro, nel maggior potere discrezionale riconosciuto al curatore e in quello autorizzatorio del comitato dei creditori.

Con la riforma si è inteso stabilire un modello decisionale di selezione dell’aggiudicatario in cui gli organi della procedura devono bilanciare interessi contrapposti: la maggior celerità nelle vendite, la competizione tra gli offerenti e la tutela del principio di trasparenza.

Invero, questo nuovo modello c.d. “aperto”, definito da taluni come strumento di privatizzazione della liquidazione del patrimonio fallimentare, deve conservare un nucleo essenziale, caratterizzato dall’adeguatezza informativa, dai valori di stima e dal sistema incrementale delle offerte. [1]

La normativa non specifica in maniera puntuale quali debbano essere le caratteristiche delle procedure competitive, ma dà rilevanza all’esigenza di fornire gli idonei strumenti di qualificazione, in ispecie il requisito pubblicitario, che è funzionale all’attuazione del già richiamato principio di trasparenza.

Quest’ultimo, in particolare, è stato oggetto di riforma con d.l. 83/2015, che modificando l’art. 107, comma primo, L.F., a prescindere dal tipo di vendita, ha previsto l’obbligo di pubblicazione sul PVP.

In mancanza di una definizione circostanziata, devono ritenersi competitivi solo i meccanismi di selezione non discrezionale del contraente, finalizzati all’ottenimento del miglior risultato nel minor tempo possibile e con la maggior trasparenza.

Accanto ad un adeguato svolgimento delle attività da parte del curatore, assume particolare rilievo la figura del Giudice Delegato, le cui funzioni principali si snodano tra la vigilanza e il controllo della procedura e le funzioni giurisdizionali in senso stretto.

In particolare, egli autorizza l’esecuzione degli atti conformi al programma di liquidazione, ai sensi dell’art. 104-ter, comma 9, L.F.

Il provvedimento di cui all’art 104-ter, comma 9, L.F. consente al giudice delegato di autorizzare il curatore al compimento dell’atto, non prima però di aver effettuato un controllo di legittimità e di conformità rispetto alle previsioni del programma di liquidazione.

Un tale controllo si esplica nella duplice modalità che vede, da un lato, la consonanza dell’atto al programma di liquidazione e, dall’altro, la sua connotazione effettiva e le modalità di esecuzione.

La vendita competitiva costituisce quindi una delle due modalità di liquidazione contemplate dalla normativa fallimentare, accanto alla vendita giudiziale che segue le regole del codice di rito.

Il punto focale della presente disamina è comprendere come, nell’ambito della vendita competitiva, debba essere inquadrato il fenomeno della transazione.


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L’istituto della transazione prima e dopo la riforma della Legge Fallimentare

Come è noto l’istituto della transazione (1965 ss.) rappresenta una fattispecie di negozio costitutivo volto a dirimere controversie in corso o potenziali.

Il suo perno risiede nello scambio di reciproche concessioni, onde porre fine alla res litigiosa, ove vengono in gioco diritti soggettivi contrastanti.

Da ciò consegue che non può dirsi integrata la fattispecie in mancanza di un reciproco vantaggio tra le parti.[2]

Essa in sostanza richiede la presenza di almeno quattro elementi: un rapporto giuridico avente carattere di incertezza, la pretesa, la contestazione e le reciproche concessioni.

Molto spesso la fase della vendita vede l’affiorare di condizioni che consentono di ricorrere a strumenti flessibili, che ben si prestano ad una più rapida conclusione della procedura.

Tra questi certamente si colloca la transazione, a cui il curatore potrebbe ricorrere quando reputa che sia la soluzione più adeguata ai fini della formazione dell’attivo fallimentare.

Nel quadro giuridico anteriore alla riforma del 2007, si poneva il quesito circa la legittimità non tanto del negozio transattivo in sé, quanto del provvedimento del giudice che autorizzava la vendita con modalità diverse da quelle previste dall’art.107 L.F.

Detta norma, del resto, era lo specchio di un modello pre-riforma, caratterizzato da poteri più circoscritti in capo al curatore, a fronte di una più intensa giurisdizionalizzazione della procedura.

Siffatto contesto, ove imperava la lacuna normativa, non forniva una risposta adeguata circa le corrette modalità di utilizzo dello schema transattivo e la loro conformità al parametro dell’art.107 L.F.

Si contrapponevano così due orientamenti.

All’orientamento minoritario, che sosteneva aprioristicamente la nullità della transazione vista come uno strumento volto a dissimulare la trattativa privata, si contrapponeva l’orientamento maggioritario, che la ammetteva, purché la stessa non celasse una fittizia contestazione del diritto di proprietà in capo al fallito.

La posizione favorevole ha trovato conforto in un’importante pronuncia del 2008 (Cass. 14.10.2008 n.25136) con cui la Cassazione ha dato voce alla ratio della recente riforma del 2007, ispirata al principio di libertà delle forme e aperta all’uso di strumenti privatistici[3].

Fermo il principio secondo cui la “vendita a trattativa privata” doveva sempre ritenersi nulla perché lesiva della par condicio, veniva ammessa la “composizione transattiva della contestazione”, la quale non incontrava limitazione alcuna nell’ambito della procedura fallimentare (già Cass.26 novembre 1971 n.3444 in Giust. Civ. 1972).

L’unico limite risiedeva nel divieto di dissimulare una vendita in pregiudizio della massa creditoria, che, come tale, sarebbe stata nulla per contrarietà a norma imperativa.

Ciò in ragione del fatto che la transazione, “possiede un oggetto più ampio rispetto alla compravendita” rinvenibile nella specifica situazione di contrasto tra le parti che “hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni, ed è destinata quale strumento negoziale di prevenzione o definizione di una lite, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducibile” (Cass. 14.10.2008 n.25136)[4].

La transazione trova così il giusto collocamento interpretativo, ammettendosi in tutti quei casi ove gli organi fallimentari ritengano la via del negoziato più spedita e maggiormente vantaggiosa per soddisfare la massa dei creditori, poiché essa si pone come uno strumento negoziale versatile, che ben si adatta alle diverse esigenze del caso concreto.

Si è recentemente sostenuto[5] che la transazione possa ammettersi anche con riferimento agli atti traslativi immobiliari, quante volte questi presentino la natura di traslazione forzata soggetta alla disciplina degli artt.2919 e ss. c.c.

L’essenza tipica della vendita coatta, che sembrerebbe permeare anche il negozio transattivo, ha come precipitato l’istituto della “purgazione”, ossia la cancellazione automatica delle iscrizioni ipotecarie sul bene con provvedimento del G.D. ex art.108 L.F.

Su tale aspetto si sono dibattute, ancora una volta, opinioni dissenzienti.

I negazionisti hanno posto l’accento sull’inscindibile legame tra la procedura forzata e il potere di purgazione in capo al giudice dell’esecuzione, il quale impedirebbe al G.D. di emanare questo tipo di provvedimento al di fuori dei casi previsti dalla legge.

Tenuto conto che le ipotesi di estinzione dell’ipoteca sono tassative, ai sensi dell’art.586 c.p.c., l’orientamento in questione ha escluso la possibilità per il giudice delegato di disporre la cancellazione al di fuori della vendita forzata.

Invero, vi sono perplessità nel ritenere che, nonostante la semplificazione della procedura, vi sia una natura coattiva del trasferimento immobiliare mediante transazione, pena la violazione dei diritti dei creditori ipotecari.

In senso opposto si muove quella parte della dottrina e della giurisprudenza che invece accoglie la possibilità di un trasferimento transattivo in ambito fallimentare, a cui si accompagna l’applicazione dell’art.108 ultimo comma L.F.

Ad esempio, v’è chi sostiene[6] che il ricorso alla transazione non scalfisce la natura esecutiva della vendita che conserva il carattere di “vendita giudiziaria”, con la differenza che questa non viene realizzata mediante un provvedimento ad hoc del giudice dell’esecuzione (il decreto di trasferimento) ma in forza di un negozio che necessita del correlativo provvedimento, con cui si ordina al conservatore la cancellazione dei diritti reali.

Alla base della bontà di questa posizione c’è sempre l’idea che la composizione transattiva della crisi è auspicabile solo se si pone come la soluzione migliore e più vantaggiosa per la massa dei creditori, tanto più alla luce della riforma dell’art.108 L.F. che, abbandonando i rigori della previgente formulazione consente l’uso degli strumenti privatistici.

Appurata la positiva apertura del diritto vivente sulla legittimità della transazione nel contesto delle vendite competitive, si deve altresì aggiungere che con le riforme del 2006-2007 il legislatore ha inteso fornire più specifiche delucidazioni[7].

La novella ha riguardato, in particolare, il ruolo assegnato al comitato dei creditori, quale presidio dell’opportunità e della convenienza delle scelte compiute in fase di liquidazione dell’attivo fallimentare. Se non altro, per il particolare interesse che questi possiedono al corretto espletamento della procedura, ai fini della tutela del proprio credito.

L’art.35 comma 1 L.F. include la transazione tra quegli atti di straordinaria amministrazione per i quali il curatore deve chiedere espressa autorizzazione al Comitato dei creditori.

Al comma 2 la norma aggiunge “Se gli atti suddetti sono di valore superiore a cinquantamila euro e in ogni caso per le transazioni, il curatore ne informa previamente il giudice delegato, salvo che gli stessi siano già stati autorizzati dal medesimo ai sensi dell’art. 104-ter, comma ottavo“.

Sulla valutazione di convenienza un ruolo essenziale è dunque attribuito, non solo all’attività propulsiva del curatore ma anche a quella autorizzatoria del comitato dei creditori, soli deputati a valutare la convenienza della scelta.

La norma, discostandosi dalla formulazione precedente che invece attribuiva al G.D. il potere autorizzativo, lascia aperto il dubbio se questo ruolo preventivo del tribunale resti circoscritto al piano della legittimità oppure possa estendersi fino a quello più prettamente di merito della correttezza e opportunità.

Sulla nuova funzione attribuita al comitato dei creditori sembra esprimersi anche l’art.132 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ove stabilisce che “[…] le transazioni sono effettuate dal curatore previa autorizzazione del comitato dei creditori”.

È possibile trarre la conclusione per cui il ricorso alla transazione traslativa, fermo il rispetto del principio di pubblicità e competitività imposto dalla legge, è uno strumento legittimo, conforme alla ratio della norma ed esperibile dal curatore, previa valutazione di convenienza, quando ciò si ritenga necessario e propedeutico al soddisfacimento della massa creditoria (cfr. Cass. 17.09.2016 n.14432).

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[1] Sebbene il curatore, alla luce della riforma, gode di una maggiore discrezionalità nella scelta della procedura, la giurisprudenza di legittimità è granitica nell’affermare il rispetto del sistema pubblicitario “sia che si tratti di vendita con incanto, ovvero per offerte private od in altre forme, ed esclude quindi, in ogni caso, che essa avvenga a trattativa privata diretta tra il curatore e il terzo, senza che altri soggetti abbiano avuto la possibilità di partecipare alla liquidazione con le proprie offerte” (Cass. sez. civ. 16.01.2017 n.16526).

[2] Sul punto Cass. 24169/2013 esclude che possa parlarsi di transazione qualora si abbia pieno riconoscimento della pretesa di una parte a fronte di una totale rinuncia da parte dell’altra.

[3] Sul punto anche Tribunale di Roma del 13 novembre 2012.

[4] Cass. 14.10.2008 n.25136: “Questa Corte ha più volte affermato che la L. Fall., art. 107, non consente la vendita di un bene immobile a trattativa privata, ma solo l’alienazione nelle forme della vendita forzata, con o senza incanto, che si concludono col decreto di trasferimento del bene, onde è nulla, per contrasto con una norma imperativa, la vendita a trattativa privata ed è illegittimo il provvedimento del giudice delegato che autorizzi una vendita non pienamente corrispondente ad uno dei due tipi, con o senza incanto, espressamente previsti e disciplinati dalla succitata norma (Cass. 3624/04; n. 5751/93, ma v. anche Cass. 4584/99)”; v. anche Cass. civ. 23.12.2016 n.26954.

[5] Trib. di Messina 11 aprile 2018

[6] APICE, Le vendite nelle procedure concorsuali e gli effetti sostanziali e processuali sulle garanzie reali concesse ai creditori, in Il Fall. 3/1987,300

[7] Cass. civ. 23.12.2016 n.26954

Dott.ssa Angela Marinangeli

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