La trasparenza bancaria.Gli interessi: i caratteri distintivi

 

 

SOMMARIO:  Introduzione; 2. Le origini della trasparenza bancaria:i Lavori parlamentari; 3. Profili Costituzionali; 4. Brevi Cenni Storici; 5.  Inquadramento Dogmatico; 6. Accessorietà-Autonomia; 7. Carattere Monetario e Fungibilità del capitale; 8.  Eguaglianza generica dell’oggetto; 9.  La Tutela processuale dell’Obbligazione di Interessi                                                                      

    1. Introduzione

L’esistenza di una disciplina normativa sulla trasparenza, è già di per sé, prova di una situazione asimmetrica tra i contraenti nonché una diversità funzionale tra chi crea il contratto e chi invece può limitarsi solamente a sottoscriverlo (o consuma).

Prima di procedere all’analisi dei principi che governano la contrattualistica bancaria è utile volgere l’attenzione alla sua origine nel codice civile.

È stato certamente determinante il legislatore del 1942 poiché costituisce la prima esperienza di regolamentazione dei rapporti bancari fino ad allora limitati agli “atti di commercio” disciplinati dall’art. 3 del Codice di Commercio del 1882, regolamentati principalmente dalla prassi sviluppata dagli stessi banchieri.

Tale ultima disciplina peraltro appare agli studiosi incompleta sul piano degli schemi contrattuali nonché inadeguata ed insufficiente riguardo alla stessa regolamentazione non attenta alla continua evoluzione dell’ordinamento del credito.

Prima del codice del 1942 erano tuttavia rinvenibili disposizioni per le imprese bancarie nel r.d.l. 7 settembre 1926 n. 1511 e 6 novembre 1926 n. 1833 convertiti rispettivamente con l. 23 giugno 1927 n. 1107 e 23 giugno 1927 n. 1108 e successivamente un corpo organico di norme dettate con il R.D.L. 17 marzo 1936 n. 375 (disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia).

La legge bancaria del 1936-38 ebbe il pregio di istituire organismi di controllo (Comitato di Ministeri – finanza, agricoltura, economia nazionale, presieduto dal capo del governo controllante altresì l’“Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito” presieduto dal governatore della banca d’Italia.

I detto organismi di vigilanza, erano comunque diversi da quelli istituiti dalla legge del 1926 che attribuiva il potere di controllo al Ministero delle Finanze e alla Banca d’Italia, ma con la legge bancaria del 36-38 viene attribuito ad un organo burocratico alle dipendenze di un organo politico[1].

Dopo il crollo del regime, furono soppressi il Comitato Corporativo Centrale con d.lg.lgt. 14 settembre 1944 n. 226 e soppresso l’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito: le relative facoltà passarono dunque al Ministro del Tesoro; la vigilanza sulle aziende di credito venne delegata a Banca d’Italia fatta comunque salva la facoltà del Ministro di “disporre nei casi in cui lo ritenesse opportuno, dirette ispezioni avvalendosi del personale proprio”[2]  .

La legge bancario 1936-38, era caratterizzata dal principio della separazione tra banca e impresa e di segmentazione del sistema, ovvero veniva tenuta distinta l’azienda di credito a cui era affidato il credito a breve termine e gli istituti di credito cui era affidato il credito a medio-lungo termine, ma non solo.

La caratterizzazione tra aziende di credito e istituti di credito, mantenuto sino ai primi anni novanta, alla diversa raccolta del risparmio: mentre le aziende di credito potevano esercitarla a vista o a breve termine, gli istituti di credito a medio e lungo termine.

Chiaramente la raccolta a vista e a breve termine imponeva una maggiore vigilanza specie in relazione alla “liquidità”, ovvero la capacità di far fronte alle richieste di rimborso ad nutum dei depositari.

Il sistema di vigilanza verrà riformato dal d.lgs. 17 luglio 1947 n. 691 con l’istituzione del tutt’oggi operante Comitato Interministeriale  per il credito ed il risparmio con la funzione di “alta vigilanza in materia di tutela del risparmio, in materia di esercizio della funzione creditizia e in materia valutaria.

 

  1. Le origini della trasparenza bancaria:i Lavori parlamentari.

 

Il Governatore della Banca d’Italia Ciampi, in un’audizione avanti al comitato ristretto della commissione finanze della camera (29 settembre 1988), si era espresso così (v. p. 3): «. . . la conoscenza delle condizioni effettive dei rapporti bancari e la leggibilità del contenuto dei contratti stipulati con le aziende di credito restano insufficienti . . .», con particolare riferimento (p. 4) alla mancanza di specifiche regole di chiarezza per le diverse operazioni bancarie, alla predisposizione unilaterale di contratti per adesione che la controparte può solo accettare o rifiutare in blocco e al rinvio agli usi praticati sulla piazza anche per la determinazione degli aspetti negoziali economicamente più rilevanti.

È dunque il governatore che ha il merito di aver tracciato le linee essenziali della nuova normativa. All’assemblea della Cipa del 5 marzo 1992 (v. al riguardo Il Corriere della Sera del 6 marzo 1992), Il Governatore, tornava sull’argomento invitando il sistema bancario a mutare rotta in quanto «non è infrequente che la clientela lamenti la non sufficiente trasparenza nei prezzi e nelle condizioni praticate».

Di rilievo appare il contenuto attribuito da RESCIGNO, alla «Trasparenza» bancaria, che ritiene essere diritto «comune» dei contratti: «. . . le regole sulla trasparenza bancaria si collocano nell’area delle norme di tutela del contraente debole, quale è per definizione il cliente della banca»[3].

È il d.d.l. presentato dall’on. Minervini (il n. 3617 del 24 marzo 1986) a tener conto dei principi informatori della direttiva del consiglio delle Comunità europee n. 87/102 del 22 novembre 1986, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo.            Successivamente con disegno n. 467 del 2 luglio 1987 d’iniziativa dell’on. Piro, del disegno n. 520 presentato in pari data ed avente come primo firmatario l’on. Visco, del disegno n. 627 presentato in data 7 luglio 1987 (primo firmatario l’on. Fiandrotti), del disegno n. 698 presentato in data 9 luglio 1987 (primo firmatario l’on. Tassi) e del disegno n. 2798 presentato in data 2 giugno 1988 (primo firmatario l’on. Bodrato).

Tutti i citati lavori parlamentari hanno portato al varo della legge n. 154 del 17 febbraio 1992 (Le leggi, 1992, I, 836), volta alla disciplina della trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari.

Da precisarsi che la direttiva era stata recepita dal nostro legislatore con l. 19 luglio 1992 n. 142, agli art. 18 ss.; in precedenza, per l’attuazione della direttiva, era stata presentata il 14 luglio 1988 una proposta di legge (la n. 3015 avente come primo firmatario l’on. Bellocchio).

Per «trasparenza» va intesa la «. . . conoscibilità, da parte del consumatore, dei termini dell’operazione . . .»[4].

Da un lato sta l’esigenza del singolo contraente di poter sapere quali oneri o quali benefici si connettono all’effettuazione dell’operazione bancaria che lo concerne, dall’altro v’è quella di accertarsi che tali oneri o benefici si collochino in sintonia con il trattamento praticato ad altri contraenti in situazioni analoghe.

In questa seconda direzione si affermerebbe l’esistenza di un obbligo di parità di trattamento a carico del sistema bancario: al riguardo un supporto normativo potrebbe rinvenirsi nell’art. 8 l. n. 64 del 1° marzo 1986 sull’intervento straordinario del Mezzogiorno (c.d. emendamento Minervini) che fa obbligo alle aziende e agli istituti di credito di «praticare in tutte le proprie sedi principali e secondarie, filiali, agenzie e dipendenze, per ciascun tipo di operazione bancaria principale o accessoria, tassi e condizioni uniformi, assicurando integrale parità di trattamento nei confronti dei clienti della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni soggettive dei clienti, ma esclusa, in ogni caso, la rilevanza della loro località di insediamento e della sfera di operatività territoriale»[5].

La ratio di questa norma è quella di evitare ingiustificate disparità soggettive di trattamento nei confronti della clientela bancaria, segnatamente quella del meridione del nostro paese, che può vedersi gravata di condizioni più onerose (sul versante del costo del denaro) o meno vantaggiose (dal lato della remunerazione dei depositi) di quelle fissate per gli utenti di tali servizi collocati in altre aree geografiche[6].

Non facile però si è rivelato il compito di interpretare e di dare attuazione a questa norma: dubbi sono sorti con riferimento all’individuazione dei rapporti sui quali è destinato ad incidere l’obbligo sancito dalla legge, al contenuto dell’obbligo stesso e, soprattutto, in ordine alla concreta operatività del meccanismo dell’obbligo di praticare tassi e condizioni uniformi in certi tipi di operazioni bancarie, quali i contratti di concessione di credito, la cui onerosità è connessa, non solo alle situazioni di mercato, ma anche al grado di rischiosità delle singole fattispecie. Una lacuna è stata altresì rilevata nella omessa sanzione della violazione, da parte dell’ente creditizio, dell’obbligo imposto dall’art. 8[7].

Relativamente alla disciplina interna del credito al consumo, va segnalato, inoltre, che con il d.leg. 63/00 (Le leggi, 2000, I, 1062, emanato in virtù della delega conferita dalla l. 25/99 [legge comunitaria 1998]), è stata data attuazione alla direttiva 98/7/Ce, che modifica la direttiva 87/102/Cee, demandando al comitato interministeriale per il credito e il risparmio il compito di provvedere ai necessari adeguamenti della normativa italiana, con particolare riguardo alla previsione di indicare il tasso annuo effettivo globale (Taeg) mediante un esempio tipico[8].

Immediatamente dopo l’entrata in vigore della l. n. 64 del 1986, è stata presentata la proposta di legge Minervini, contenente norme sulla «trasparenza» nelle operazioni bancarie, che, come si è detto precedentemente, ha aperto la via alla promulgazione della nuova legge, sia pure attraverso un iter durato quasi sei anni.

Il progetto Minervini riguardava sia le operazioni bancarie principali, attive e passive, sia quelle accessorie, e conteneva, nella parte conclusiva, disposizioni finali e comuni con le quali si imponevano alle banche obblighi di pubblicità e di informazione per determinati servizi resi.

Al d.d.l. Minervini, che si segnalava per la sua forte incisività, in quanto abbinava all’obiettivo dell’informazione quello dell’intervento autoritativo del legislatore in materia di tassi ed altre condizioni bancarie, faceva seguito un d.d.l. di fonte governativa dai contenuti normativi più attenuati rispetto al precedente progetto per la tutela del «contraente debole» nel rapporto bancario.

Nessuno dei due disegni di legge aveva un seguito ma, nello stesso tempo, interveniva la direttiva Cee sopracitata, il cui fine era quello di favorire la creazione di una disciplina uniforme del credito al consumo, alla quale gli Stati membri avrebbero dovuto adeguarsi entro il 1° gennaio 1990.

Tale direttiva prevedeva, in particolare, per quanto attiene al profilo dell’informazione del consumatore sulle effettive condizioni dell’operazione, l’adozione della forma scritta per i contratti di credito, l’indicazione in essi del tasso annuo effettivo globale e delle modalità secondo cui detto tasso potesse essere variato[9].

Successivamente, all’inizio della legislatura che si è appena conclusa, venivano presentati i nuovi progetti di legge sopra menzionati e, mentre questi erano in discussione, gli istituti di credito aderenti all’Abi davano vita (il 30 novembre 1988) all’accordo interbancario per «la pubblicità e la trasparenza delle condizioni praticate alla clientela»[10].

L’intesa si sostanziava in una forma di autodisciplina delle aziende sottoscrittrici, riferita a obblighi di informazione – assolti tramite esposizione di avvisi nelle relative dipendenze recanti le condizioni praticate per le principali operazioni bancarie –, di adozione di un unico metodo di calcolo degli interessi, di impostazione uniforme degli estratti conto nonché di comunicazione alla clientela di ogni variazione dei tassi praticati, sia per operazioni attive che passive.

I limiti derivanti dalla natura volontaristica dell’accordo e dall’insufficienza dei contenuti dello stesso hanno indotto il legislatore ad intervenire ugualmente per disciplinare la materia.

Occorreva individuare una soluzione che componesse «. . . la cogenza del quadro normativo con l’esercizio dell’autodisciplina da parte del sistema bancario . . .» (10).

 

  1. Profili Costituzionali

Nella Carta Costituzionale è rinvenibili una norma , l’art. 47, che recita: “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.”.

I primi commentatori attribuirono all’art. 47 la cristallizzazione nella Costituzione della Legge Bancaria del 1936-38, sopravvissuta al crollo del regime: leggendo il commento di Massimo Severo Giannini l’art. 47 è “un’enunciativa generica dei principi della legge bancaria”.

La citata interpretazione, che ha mantenuto ancora molti sostenitori ha avuto una evoluzione al livello di Costituzione materiale rinvenibile nella giurisprudenza costituzionale. In particolare, quanto all’incoraggiamento e tutela del risparmio in tutte le sue forme è da annotare la seguente giurisprudenza della Corte Costituzionale: sent. 29/1975 che circoscrive l’ambito operativo del precetto a “principio politico cui dovrà ispirarsi la futura normativa”; sent.  143/1982 in cui si legge “principio programmatico al quale deve ispirarsi il legislatore ordinario” (ex plurimis: Corte Cost. 143/1995; 126/79; 143/1982; 60/1980; 29/2002).

Quanto al precetto Tutela del credito la Corte Costituzionale ha ritenuto l’art. 47 fondamento dell’interesse pubblico al normale e regolare esercizio del credito tanto da quanto da ritenere il reato di aggiotaggio bancario più grave del reato di aggiotaggio comune (Corte Cost.  73/1983).

Sulla tutela del risparmio popolare   la Corte Cost. con sentenza 66/1965 rileva che: “… Secondo l’ordinanza, la legge istitutiva dell’E.N.E.L. ed i successivi decreti presidenziali non hanno tutelato l’investimento che i risparmiatori hanno fatto nelle azioni elettriche, perché hanno scoraggiato il risparmio nella formazione dei capitali azionari e perché hanno trasformato gli azionisti in obbligazionisti, cioè in semplici creditori estranei alla gestione sociale. Se con questa censura si volesse sostenere che il Parlamento non potrebbe mai applicare l’art. 43 della Costituzione tutte le volte in cui si tratti di imprese con capitale azionario, la tesi sarebbe manifestamente arbitraria. Un divieto di tal genere non è desumibile dall’art. 47 sotto nessun aspetto, né esegetico, né storico, né sistematico. …”

            Anche la giurisprudenza ordinaria si è in più occasioni pronunciata sul ruolo della banca d’Italia e delle banche in generale. Fondamentali sono i passaggi storici che hanno attribuito al sistema bancario funzione pubblicistica. Prima tra tutte la Cass. SS.UU. 21.10.1952 n. 3042 che per prima definisce la Banca Centrale  ente di diritto pubblico ed afferma la sua funzione nel“l’interesse generale per l’economia dello stato”.

Anche la cass. SS.UU. 5.03.1979 n. 1353, da un lato riconosce alla banca d’Italia funzioni pubbliche nel settore valutario e dall’altro una funzione pubblicistica di “attività di direzione e vigilanza nel settore creditizio e di regolamentazione del mercato monetario e della circolazione monetaria , fra cui preminente quello di difesa del valore internazionale e interno della moneta e la polizia della valuta”.

Negli anni ’80 la Cassazione definirà pubblico servizio “ogni attività “Ogni attività bancaria, essendo volta alla raccolta del risparmio e all’esercizio del credito, è contrassegnata da un interesse pubblico immanente in virtù del quale essa è inserita in un’organizzazione unitaria del relativo settore economico, costituita, regolata, diretta e controllata da pubblici poteri anche per la realizzazione di pubbliche finalità e pertanto essa acquista la qualità di servizio pubblico in senso oggettivo, valevole, ai sensi dell’art. 358 n. 2 c.p., per la qualificazione dei soggetti privati legittimati a compierla come incaricati di servizio pubblico; con la conseguenza che essi, quando si appropriano di denaro, di cose mobili appartenenti a un’azienda o un istituto di credito privati, rispondono di malversazione, mentre rispondono di peculato se l’attività bancaria sia svolta da un ente pubblico. “ (Cass. SS.UU. 10.10.1981).

Gli anni 1987 e 1989 rappresentano una svolta epocale nella identificazione del ruolo del sistema bancario: Banca d’Italia, cessa di essere ente di diritto pubblico (Cass. Pen. SS.UU. 23.05.1987, coordinamento tra art. 47 e 41 Cost.); crolla la teoria del pubblico servizio e l’attività bancaria si definisce attività imprenditoriale di natura privata, in regime concorrenziale (Cass. SS.UU. 28.02.1989).

 

  1. Gli Interessi: brevi cenni storici

 

Tommaso d’Aquino, citando Aristotele[11], affermò, “il denaro non partorisce denari”, al contrario l’usura consente, a chi la pratica, di rendere il denaro fertile strumento per produrne altro attraverso quel frutto chiamato interesse.

Nella storia e nella filosofia, interessi e usura hanno per molto tempo condiviso lo spazio

Platone e Aristotele condividono il giudizio negativo sulla pratica dell’usura.

Platone, in particolare,  nella sua opera La Repubblica (427-347 a.C.), nella parte dedicata a le teorie economiche, condanna ogni pratica usuraria[12], giudizio che si trova confermato nell’opera  Dialoghi (V e XI delle Leggi [13]).[14]

Per Aristotele (384-322 a.C.), definito “il primo economista analitico”, la vera funzione della moneta era quella che si ha nello scambio e non quella per cui la moneta si accresce mediante l’interesse. Per il filosofo, la moneta è, per sua natura, “sterile”; con l’ usura, invece, essa prolifica e per ciò, l’usura, è il modo più innaturale di guadagnare. Non a caso la dottrina cristiana medioevale prese a modello la filosofia Aristotelica per condannare gli aspetti ritenuti più riprovevoli del commercio – la ricerca del guadagno come fine a se stesso e particolarmente l’ usura .

Anche nelle Dodici Tavole i legislatori della Roma Repubblicana si occuparono del tasso di interesse. Tacito tramanda una citazione di un frammento non pervenuto di tale legge, secondo cui il tasso d’interesse massimo era fissato con l’espressione unciarium fenus[15].

Il creditore che avesse ricavato un tasso maggiore era condannato a restituire il quadruplo degli interessi percepiti al di sopra del tasso legale, cioè del 12%.

Secondo Tacito, già a partire dal V secolo vari plebisciti fissarono come tetto nei prestiti di denaro il suddetto fenus unciarium; ma poi provvedimenti successivi apportarono riduzioni al tasso di interesse consentito[16].

Nel 342 a.C., secondo Tito Livio, la Lex Genuncia tassativamente vietava il prestito a interesse a tutti i cittadini romani[17].

Sembra che Silla, nell’88 a.C., abbia emanato una lex unciaria nuova, e che poi Lucullo abbia imposto il divieto dei tassi superiori al 12%[18].

Nell’ età di Cicerone i tassi d’interesse erano notevolmente ribassati: infatti, egli cita il 6% come interesse normale ed onesto[19].

Lungo sarebbe seguire l’evoluzione dei tassi d’interesse nella Roma imperiale: basti dire che nei primi tre secoli dell’impero i tassi pagati dai debitori nelle province segnarono grosse oscillazioni da provincia a provincia; invece a Roma, nel periodo che va dagli imperatori Antonini ai Severi, il tasso richiesto per i prestiti a basso rischio non si discostò mai molto da un 5-6%.

La materia della liceità dell’usura e della regolamentazione dei tassi d’interesse nel diritto romano riveste grande rilievo “perchè a questo si rifaranno, in parte, dopo il Mille, sia gli ordinamenti comunali delle città mercantili italiane sia i giuristi che non accettarono, o ignorarono, i divieti che il diritto della Chiesa mirò a rendere sempre più generali ed assoluti[20][21].

Insomma, se sia l’usura a generare l’interesse, e come tale, figlio di un demone, destinato a non essere mai riabilitato, oppure se l’interesse  sia un  fertile strumento del bene, ahimè, corruttibile dall’avidità dell’uomo o dal male che lo trascende, sarà  la storia a giudicarlo.

Non è un caso che relativamente al fenomeno dell’usura si faccia riferimento al bene ed al male, dal momento che proprio le religioni, nel praticarla, l’hanno da sempre bandita e rinnegata. Tale affermazione, seppur forte, pare trovare conferma nella storiografia, tant’è che al Concilio di Reims del 1049, papa Leone IX stabilì che i religiosi non avrebbero dovuto praticare l’usura. Se è vero che dal diritto si comprendono le esigenze della società in un dato momento storico, allora non si offenda nessuno, se si afferma che la Chiesa l’usura l’ha praticata per molto tempo.

Ma che l’usura non era un fenomeno solo ecclesiastico, ma praticata (anche) da una borghesia nascente lo si comprende dal III Concilio Lateranense del 1179, con il quale viene proclamato che nelle città cristiane, gli usurai devono essere equiparati ad estranei, e quindi negata la sepoltura religiosa, posizione confermata dal Concilio di Lione del 1274 che sancì (o forse ribadì), che i corpi degli usurai vanno gettati nei fossi o nei fiumi [22].

È innegabile che i limiti posti (o imposti) dalla chiesa, abbiano, di fatto, consentito l’evolversi del mondo della  finanza, operosa nell’ideare strumenti che consentissero di rendere il denaro fertile senza incorrere nell’ira divina.

Ciò che tuttavia rende più insidioso l’interesse è l’uso che se ne fa, ovvero con quale metodo di calcolo lo utilizziamo.

In realtà quello che oggi si fatica a riconoscere, capitalizzazione semplice da quella composta è risalente all’epoca dei mesopotamici e degli egizi (Papiro di Rhind -1600 a.c. tratto da uno precedente datato tra il 2000 e il 1800 a.c.).

Anche Euclide nella propria opera Gli Elementi descrive la progressione aritmetica e quella geometrica ed i relativi effetti (libri VIII e IX). Esistono testi cuneiformi – assiro babilonesi – che si interrogano sulla potenza dell’interesse composto  – cercando di comprendere quanto tempo impiega un capitale a raddoppiare con un interesse del 20%.

A chiusura di questa breve panoramica storica della progressione geometrica e dei pericoli che essa nasconde in quanto in grado di generare molto rapidamente la crescita del debito si richiama il sommo poeta che per definire la dimensione e l’immagine di un numero straordinariamente grande cita la progressiva duplicazione di ciascuna delle 64 caselle della scacchiera (Divina commedia – Paradiso – Canto XXVII v. 91-93).

Non è una perdita di tempo tentare di comprendere se il fenomeno della capitalizzazione composta tanto nota alle antiche civiltà, attente a disciplinarne gli effetti in quanto fenomeno ricondotto ad altro noto l’usura.

Fenomeno, quello della capitalizzazione, che al contrario, nella nostra era è entrato nella vita quotidiana dominato dalla  inconsapevolezza del contraente debole dei relativi effetti, ma nella piena consapevolezza di chi la pratica di poter presentare un costo (interessi capitalizzati) con un indice che risulta solo apparentemente di dimensione contenuta ma che nella sostanza assume dimensioni ben più elevate nella sua immagine più naturale e visibile quella dell’interesse semplice.

 

  1. Inquadramento dogmatico

In relazione ai rapporti obbligatori, il legislatore, pur disciplinandolo in molte norme, non ha dato una definizione di interessi,  confidando sulla univocità della nozione tradizionale accettata  nel linguaggio sia comune che giuridico.

Naturalmente, laddove il legislatore omette di definire un istituto, il giurista deve, per poter procedere alla sua analisi, estrapolare, attraverso le norme che lo disciplinano, una nozione.

Non starò ad elencare le numerose definizioni date al termine interessi, forse impossibile da definire in modo puntuale, data l’eterogeneità delle norme che lo richiamano e disciplinano, seppur si renderà necessario cavalcare alcune di esse, le più condivise ed illuminate, senza nulla togliere agli altri commentatori.

Sotto il profilo storico, gli interessi hanno indubbiamente rappresentato uno degli indici più fedeli e significativi del mutamento dei mercati dei capitali.

Gli interessi, come richiamati nel paragrafo precedente,  hanno avuto un largo uso in epoca romanistica, subendo poi una forte resistenza (seppur sotto certi aspetti solo apparente) nel medioevo  per il divieto canonistico delle usure[23], tuttavia hanno contribuito in modo significativo alla formazione dei capitali commerciali.

Lo sviluppo dell’economia mercantile, ha trasformato il denaro (ovvero la sua funzione) in strumento di speculazione, ed in concomitanza il divieto canonistico fu eliminato in tutta Europa

In Germania, con il par. 174 del Reichsabschied del 1654,  venne posto fine al divieto sugli interessi, e stabilendo, tuttavia, la possibilità di applicare interessi solo nel settore commerciale e non civile e ponendo un limite oltre il quale gli interessi divenivano illeciti (tra il 4 e il 6%). Tale passaggio storico è particolarmente significativo poiché porterà allo sviluppo dell’interesse oggi noto come moratorio.

Infatti già nel codice napoleonico (art. 1153) la misura dell’interesse veniva rimandato ad un tasso fissato dalla legge.

In tutta Europa, imperava il limite di applicare gli interessi entro il limite del 4 – 5 % e la quantificazione degli interessi moratori avveniva con il rinvio alla detta misura legale stabilita come limite massimo per gli interessi convenzionalmente disposti.

La ratio era riconducibile all’esigenza di compensare il creditore per il ritardo nel rientro del proprio capitale che poteva quindi ottenere il vantaggio economico corrispondente  a quello della più favorevole contrattazione. In seguito con la “liberalizzazione” del saggio di interesse,  il collegamento tra i tassi venne meno.

È proprio con la codificazione francese ed italiana che si trovano le prime disposizioni relative agli interessi (art. 1153 code Napoleon; art. 1224 codice Albertino; art. 1231 c.c. del 1865).

L’influenza canonistica, nonostante il supermanto del divieto di usura, perderà ogni rilievo solamente nel XIX secolo quando fu finalmente affermato il principio della decorrenza di pieno diritto degli interessi indifferentemente dagli accodi (sia avvia dunque la concezione moderna degli interessi che oggi troviamo nell’art. 1282 c.c.).

Il primo cambiamento in tal senso lo troveremo ancora una volta nella legislazione tedesca: il par. 289 del primo codice di commercio tedesco (ADHGB del 1861) stabilirà che: i commercianti possono tra loro,  negli atti che sono di commercio da ambo le parti, chiedere, anche senza patto o interpellanze, interessi per ogni credito dal giorno della sua scadenza[24]. Un principio molto simile troverà ingresso nel codice di commercio italiano del 1882 che all’art. 41 prevederà che i debiti commerciali liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto[25].

È qui che troviamo l’origine della distinzione degli interessi (art. 1231 cod. 1861) intesi come compenso corrispettivo dell’uso di quella fecondità che, negli affari commerciali, si ritiene effettiva, con presunzione assoluta e gli interessi moratori.

Solo nei rapporti commerciali, però, gli interessi accompagnavano il debito liquido ed esigibile come si può rilevare dal par. 289 ADHGB del 1861, dall’art. 41 cod. di comercio del 1882 e dal par. 353 HGB del 1897. Nei rapporti civili l’interesse era ammesso esclusivamente come risarcimento danni subito da un creditore per il ritardo nel pagamento.

Questo il retaggio storico alla base delle discussioni parlamentari relativi alla redazione del codice del 1942.

Nella Relazione Ministeriale n. 570, le diverse tipologie di interessi vengono definite in funzione della loro causa ovvero a seconda che abbiano una funzione remunerativa, data la naturale fecondità del denaro, o risarcitoria intesa come liquidazione forfettaria minima del danno per ritardato pagamento[26].

Sono dunque chiamati compensativi gli interessi che prescindono dalla mora del debitore e dunque dalla scadenza.

Sono invece corrispettivi gli interessi che dipendono dalla naturale scadenza del debito.

Tale tripartizione fu voluta nel ’42 dal ministro guardasigilli  al fine di differenziare i concetti di interesse, in passato inteso unitariamente tra moratori e corrispettivi, ribadendo la peculiarità e specificità di quelli compensativi[27]. Infatti in precedenza la dottrina italiana non distingueva  gli tra corrispettivi e compensativi ma solo i prima dai moratori[28].

Rappresentano una impronta storica fondamentale per comprendere la natura degli interessi le considerazioni svolte dalla Commissione Senatoriale in relazione al progetto Pisanelli del codice civile del 1865 che sosteneva la necessità di non porre un limite alla liceità degli interessi al fine del rispetto della Legge economica invariabile, che fa uscire il prezzo delle cose permutabili dal rapporto tra l’offerta e la domanda … (evitando di lasciare) … i capitali inerti e stagnanti nelle mani dei prestatori con grave iattura dell’agricoltura e dell’industria.

Ebbene, dall’analisi storica l’interesse esprime la sua natura in relazione alla disciplina dei rapporti monetari e al capitale (QUADRI).

Ecco allora, che la stretta relazione  tra interesse e capitale, sembra consacrarsi nell’art. 820 u.c. c.c. Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni.

Tale inquadramento, riconducibile alla teoria dell’uso o del godimento[29] (Nutzungstheorie), che ha influenzato il nostro ordinamento, ha aiutato a superare una impostazione culturale che vedeva il denaro come un mero bene accantonato per un futuro scambio a scopi di consumo[30],   per arrivare a ridefinirlo, nella sua funzione, come strumento per la produzione di nuova ricchezza[31]. La concezione dei frutti civili in effetti non ha convinto a fondo alcuni autori (MAZZONI, SCOZZAFAVA) che osservano che nel nostro sistema possono essere considerati  interessi in sensi tecnico  solo quelli che il soggetto ritrae da un capitale come corrispettivo del godimento che altri ne abbia, conseguentemente, i frutti come interessi avranno ragion d’essere solamente per quelli che trovano la propria fonte in un contratto mediante cui i privati attribuiscono a terzi il godimento del proprio denaro[32].

Come si ricava dalla richiamata Relazione al codice civile n. 593, l’interesse è dunque,  il prezzo del capitale che assume la natura di merce.

Tale affermazione, alla luce della richiamata dottrina[33], necessita tuttavia di una precisazione: l’interesse come corrispettivo (inteso come compenso), non è solo quello di fonte pattizia che potremo classificare come legittima, ma anche frutto di una ritenzione illegittima del un capitale[34] (QUADRI, MARINETTI): in effetti v’è chi definisce gli interessi come prestazioni pecuniarie percentuali e periodiche dovute da chi utilizza un capitale altrui o ne ritarda il pagamento[35], e chi, senza richiamarsi al concetto di capitale, si riferisce direttamente al denaro come bene produttivo di frutti civili denominati interessi[36] .

Indubbiamente l’inclusione degli interessi di capitale tra i frutti civili rappresenta il risultato di un processo storico che ha voluto categorizzare tutti i redditi di sostituzione, equiparando la funzione del denaro , bene fungibile (che a differenza egli atri beni fungibili non si consuma con l’uso – MAZZONI), a tutti gli altri beni produttivi concessi in godimento.

È proprio il reddito di sostituzione, ovvero, il provento derivato al posto del beneficio che il godimento diretto della cosa avrebbe apportato al proprietario, nozione che aveva consentito alla romanistica prima e la pandettistica poi di consolidare la derivazione della categoria dei frutti civili da quella più unitaria e generale dei frutti naturali[37].

La ricostruzione appena fatta dell’interesse, manca tuttavia di attualizzare il concetto stesso di denaro.

Esso svolge tre funzioni, quella di unità di conto, di riserva di valore e di mezzo di pagamento.

È proprio sulla terza funzione, che il denaro assume la natura di bene fruttifero, ma che oggi, assume una caratterizzazione nuova.

Nella dottrina più recente prevale la tesi, che la regola, secondo la quale il denaro contante è l’unico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, deve essere scardinata riconoscendo efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento che eliminano il trasferimento materiale di moneta, come l’assegno circolare, dovendosi intendere per somma di denaro la funzione ideale del mezzo monetario[38].

Esaminando dunque l’istituto degli interessi sotto il profilo funzionale, la giurisprudenza ha distinto tra obbligazioni pecuniarie e contratti di scambio. Funzione primaria degli interessi è, nelle obbligazioni pecuniarie, quella corrispettiva, quale frutti civili della somma dovuta, e nei contratti di scambio, caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, quella compensativa del mancato godimento dei frutti della cosa, consegnata all’altra parte prima di riceverne la controprestazione; funzione secondaria degli interessi è quella risarcitoria, propria degli interessi di mora, i quali presupponendo l’accertamento del colpevole ritardo o la costituzione in mora “ex lege” del debitore, debbono essere espressamente demandati, indipendentemente dalla domanda di pagamento del capitale. Conseguentemente la richiesta di corresponsione degli interessi, non seguita da alcuna particolare qualificazione, deve essere intesa come rivolta all’ottenimento soltanto degli interessi corrispettivi, i quali, come quelli compensativi, decorrono, in base al principio della naturale fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l’ipotesi della mora del creditore [39].

Per le obbligazioni pecuniarie, la cui funzione primaria degli interessi, è quella corrispettiva, ovvero frutti civili della somma dovuta.

Relativamente ai contratti di scambio, invece, essendo caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, la funzione degli interessi è compensativa del mancato godimento dei frutti della cosa consegnata all’altra parte prima di ricevere la controprestazione.

Ai sensi dell’art. 1499 c.c., gli interessi compensativi sono quelli dovuti nei contratti di scambio quando le reciproche prestazioni dei due contraenti debbono avvenire contemporaneamente e sono così chiamati perché servono a compensare il creditore dei mancati frutti e del mancato godimento della cosa da lui consegnata all’altra parte prima di riceverne la controprestazione. Essi possono essere attribuiti dal giudice anche quando l’avente diritto, omettendo di specificarne la natura, abbia genericamente domandato la corresponsione degli interessi [40].

Esiste poi una funzione risarcitoria attribuita agli interessi, detti di mora, che presuppone un colpevole ritardo nell’adempimento.

Come nella maggior parte dei testi non si può prescindere dalla definizione di interessi data da Ferrara F. Jr che li definì: prestazioni accessorie, omogenee rispetto alla prestazione principale, che si aggiungono ad essa per effetto del decorso del tempo e che sono commisurate ad una aliquota della stessa[41].

Sotto il profilo strutturale e statico la dottrina dunque, ha inteso l’obbligazione di interessi caratterizzata da: accessorietà rispetto ad una obbligazione principale; eguaglianza generica dell’oggetto[42] (obbligazione principale e accessoria); periodicità, intesa, in coerenza con l’art. 821 c.c. come acquisto e non inteso come scadenza, quest’ultima oggetto di convenzione tra le parti; proporzionalità[43], ovvero rapporto percentuale con l’obbligazione principale rapportato al fattore tempo. Autorevole dottrina (QUADRI) aggiunge un ulteriore caratterizzazione quella monetaria o fungibilità  dei beni oggetto della prestazione principale, ovvero del capitale.

Nell’ordinamento vigente sono normativamente riscontrabili l’interesse corrispettivo nell’art. 1282 c.c., compensativo in specifici casi previsti dagli artt. 1499, 1815, 1825, e moratori nell’art. 1224 c.c.. Tale distinzione e solo apparentemente così decisa: in realtà i confini delle varie fattispecie e norme non è così facile da individuare, tanto che alcuni studiosi hanno ritenuto il diritto delle obbligazioni uscito dalla riforma del 1942, uno dei capitoli più complessi e intricati[44].

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  1. L’accesorietà-autonomia

 

Gli interessi sono una particolare obbligazione pecuniaria, avente carattere accessorio rispetto ad una obbligazione principale pur essa a contenuto pecuniario[45].

La caratteristica dell’accessorietà viene utilizzata per distinguere gli interessi dalla rendita dove manca un debito di capitale, e dalle rate relative a forme di finanziamento il cui pagamento frazionato di capitale e interesse sono una modalità di adempimento dell’obbligazione[46].

Non si deve pensare che l’attribuzione agli interessi del connotato accessorio, renda gli stessi meno importanti dell’obbligazione che li ha generati, poiché gli interessi, rappresentano, in alcuni contratti elemento che connota il rapporto sinallagmatico: accessorio significa semplicemente che la sua esistenza dipende dal’esistenza di un debito di capitale.

Giacché il presente lavoro, vuol proporre spunti per una lettura attuale dell’istituto interessi, si ricorda che autorevole dottrina (BIANCA) non riconduce gli interessi alla macrocategoria del capitale, ma ritiene, quest’ultima fonte degli interessi quali frutti civili, individuando poi, gli interessi: su somme liquide ed esigibili; sul prezzo di cosa fruttifera già in possesso del compratore; sulle somme dovute a titolo risarcitorio e indennitario[47].

La caratteristica della accessorietà, trova una resistenza naturale negli articoli  983 comma 2, 1005 comma 3, 1009 comma 1, 1010 comma 3 c.c che disciplinano gli obblighi dell’usufruttuario,  trattano l’obbligazione di interessi calcolata rispetto ad una somma capitale, che non è un’obbligazione dell’usufruttuario: in questi casi la legge prescinde dall’esistenza di una obbligazione restitutoria principale.

La giurisprudenza ritiene, proprio in virtù del carattere accessorio dell’interesse, la prova della debenza degli interessi, una volta accertata l’esigibilità e le liquidità del credito (pecuniario) che li ha prodotti[48]: una volta che la sentenza o il provvedimento abbiano acquistato efficacia esecutiva, il credito, nella somma globale liquidata dal giudice con riferimento alla data in cui il provvedimento è pronunciato, divenuto esigibile, produce interessi da sè. E siccome li produce, sino al momento in cui il credito non è estinto, in misura predeterminata, come effetto che la legge ricollega direttamente al fatto della condanna dal momento in cui diviene esecutiva, non c’è bisogno che il giudice pronunci condanna. Al pagamento di tali interessi perché essi siano da considerare non solo dovuti, ma coperti dalla, efficacia esecutiva del titolo[49].

La disciplina dell’usufrutto porta dunque a ritenere che l’enunciato della accessorietà non è necessario dal momento che la legge far sorgere un’obbligazione di interessi senza una corrispondente obbligazione principale.

Resta comunque valido l’assunto secondo cui la decorrenza degli interessi inizia con il sorgere dell’obbligazione principale e termina con la sua estinzione rilegando ad eccezione l’ipotesi dell’usufrutto.

L’accessorietà, è riferibile al solo momento genetico[50] dell’obbligazione mentre gli interessi già maturati costituiscono un’obbligazione pecuniaria che nel suo successivo sviluppo è autonoma rispetto a quella principale.

Facendo una disamina sulle vicende possibili legate all’obbligazione principale e per interessi, si ricava che a fronte di una dichiarazione di nullità, annullabilità o rescissione dell’obbligazione principale deriverà la caducazione anche degli interessi, tuttavia, al di là del caso citato, la sorte dell’obbligazione principale non segue sempre e necessariamente quella dell’obbligazione interessi potendo, quest’ultima, formare oggetto di separati atti giuridici.

Ecco allora che la rimessione del debito in linea capitale  non estinguerà l’obbligazione degli interessi, così come la prescrizione dell’obbligazione principale  non avrà riflesso alcuno sulla prescrizione quinquennale degli interessi, anzi, l’atto interruttivo del decorso del termine di prescrizione relativamente al capitale non interromperà la prescrizione del credito per gli interessi.

È da escludere che costituisca riconoscimento del debito accessorio, idoneo ex art. 2944 c.c. ad interrompere la prescrizione, l’intervenuto pagamento del debito capitale in quanto interessi legali e rivalutazione monetaria, pur costituendo parte integrante e componenti essenziali del credito base pagato con ritardo, conservano tuttavia la loro autonomia causale; il che porta a escludere che dall’avvenuto pagamento della sorte capitale possa desumersi la sicura intenzione del solvens di riconoscere il proprio debito anche per la parte accessoria[51].

L’autonomia degli interessi è particolarmente evidente in relazione alla prescrizione.

Premesso il noto dato normativo per cui il credito per interessi si prescrive nel termine quinquennale (art. 2948 n. 4 c.c., sia la dottrina che la giurisprudenza, ha rilevato tre corollari: a) la prescrizione del debito principale non determina al prescrizione del debito per interessi[52]; b) gli atti interruttivi la prescrizione relativi al capitale non interrompe il decorso del termine di prescrizione sul credito per interessi la Corte di cassazione si è espressa in più occasione sostenendo che è  escluso l’estensione degli effetti dell’interruzione della prescrizione, scaturenti dal riconoscimento del debito nella somma sopra indicata, anche al credito per gli interessi, dato il loro legame solo genetico di accessorietà col capitale, che rende i relativi diritti suscettibili di negoziazione autonoma, e rilevando che la norma dell’art. 2948 c.c. diversamente opinando, sarebbe vanificata[53].

Sul punto, tuttavia la giurisprudenza[54] non ha raggiunto un orientamento unitario, infatti pur ribadendo e che l’obbligazione relativa agli interessi è legata da un vincolo di accessorietà all’obbligazione principale solo nel momento genetico e le sue vicende sono indipendenti da quelle del capitale e dagli atti interruttivi riguardanti esclusivamente quest’ultima e che, costituendo una prestazione dovuta in base ad una causa debendi continuativa, la relativa prescrizione è quella quinquennale regolata dall’art. 2948, n. 4, c.c.[55]: precisa inoltre che: A diversa conclusione può pervenirsi soltanto ove l’obbligazione per interessi attenga ad un debito unico, rateizzato in prestazioni periodiche di eguale o di diverso importo, che costituiscano adempimento parziale di un’unica obbligazione principale, giacché unicamente in tale caso, che nella specie non ricorre, dovendo le varie prestazioni essere considerate nel loro insieme ai fini dell’adempimento, l’identità della causa debendi della prestazione principale e di quella accessoria comporta che il termine di prescrizione inizia a decorrere per entrambe dal momento utile per il pagamento dell’ultima rata del debito principale e viene ad identificarsi anche per gli interessi con quello ordinario decennale.

c) la rinunzia alla prescrizione del debito principale non si estende automaticamente al debito in linea di interessi, non potendosi dubitare, dell’autonomia del diritto di credito relativo agli interessi rispetto a quello avente ad oggetto la sorte capitale, per cui ben può il debitore rinunciare all’operatività della prescrizione solo con riferimento ad una delle due componenti del credito[56].

La giurisprudenza insegna inoltre che gli interessi può essere oggetto di atti di disposizione separati rispetto a quelli relativi al credito pecuniario principale, per cui il credito per gli interessi, dato il loro legame solo genetico di accessorietà col capitale, che rende i relativi diritti suscettibili di negoziazione autonoma, e rilevando che la norma dell’art. 2948 c.c. diversamente opinando, sarebbe vanificata[57].

Tale autonomia dovrà, tuttavia essere oggetto di una attenta indagine dal punto di vista funzionale e in relazione al tipo di interesse in gioco.

Il rapporto di autonomia e accessorietà si ha inoltre in relazione agli interessi anatocistici (art. 1283 c.c.) che possiamo distinguere rispetto agli interessi primari (corrispettivi o compensativi, mai moratori).

Tra interessi primari e anatocistici, si può sin d’ora individuare la differenza sotto il profilo della loro natura (a), naturalmente diversa visto che sotto il profilo causale. L’anatocismo disciplinato dall’art. 1283 c.c. si pone come limite all’art. 1282 c. 1 c.c. che diversamente sarebbe applicabile anche al debito di interessi semplicemente maturati[58].

Tale rilievo assume notevole importanza in relazione ad un altro concetto, spesso confuso con quello dell’anatocismo e che prende il nome capitalizzazione.

Ebbene, l’art. 1282 c. 1 c.c. potrebbe non porre alcun divieto a tale fenomeno (salvo la disciplina speciale – art. 120 TUB).

Le differenze tra interessi primari ed anatocistici, corrono inoltre in relazione al saggio (b), che può essere diverso, la legge non pone alcun limite salvo la legge antiusura (108/1996), ed  alla relativa decorrenza (c), l’art. 1282, e 1283 indicano condizioni e dies a quo ben determinati: la decorrenza degli interessi inizia solo con il sorgere dell’obbligazione principale e cessa con l’estinzione della stessa salvo diverso accordo (vedi artt. 1193 e 1194 c.c.)

Il profili dell’autonomia e accessorietà, ha inoltre rilievo sotto il profilo processuale per il quale si rimanda la trattazione alle pagine seguenti.

 

  1. CARATTERE MONETARIO E FUNGIBILITA’ DEL CAPITALE.

Che gli interessi ed il capitale che li ha prodotti, abbiano un destino strettamente legato alla moneta è già stato dato cenno nelle pagine che precedono, tuttavia in materia di obbligazioni non mancano certamente ipotesi di prestazione di cose infungibili, dunque diversi dalla moneta: in qual caso non è da escludersi l’ammissibilità di interessi computati al loro valore di stima[59].

Quello tuttavia che interessa è comprendere quale sia l’attuale concetto di moneta e come si concilia con la tradizione giuridica dell’obbligazione.

È largamente accolta la distinzione tra moneta scritturale – scritturazioni bancarie – basata sulla garanzia che offrono le banche, e gli altri sistemi tradizionali di pagamento, come la cambiale, con la particolarità che l’effetto satisfattorio si realizza con la disponibilità monetaria a favore del creditore.

Alla base del concetto di disponibilità riposa l’idea della smaterializzazione del denaro ovvero nella trasformazione del diritto reale sui pezzi monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro.

La smaterializzazione del denaro resta comunque ancorata al principio nominalistico in virtù del quale, salvo patto contrario, laddove lecito, il pagamento di una obbligazione pecuniaria deve effettuarsi con moneta corrente nello stato in cui deve effettuarsi il pagamento, a prescindere dalle variazioni del suo potere di acquisto[60]

Nella concezione moderna, la custodia, la circolazione e lo scambio attraverso moneta contante è ritenuta inefficienti oltre che  insicura pertanto si è sviluppata la tendenza alla eliminazione degli spostamenti materiali.

L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, diviene dunque un giusto contemperamento tra il principio della correttezza per il creditore e la regola della diligenza per il debitore,  diretta all’estinzione del debito, per la quale le parti devono collaborare.

L’adempimento di una obbligazione pecuniaria, si può ritenere efficace e liberatorio solo qualora produca i medesimi effetti del pagamento per contanti ovvero,  quando pone il creditore nelle condizioni di disporre liberamente della somma di denaro, rendendo l’eventuale rapporto di credito verso una banca irrilevante.

Il codice civile non contiene una norma che  parifica la moneta avente corso legale (art. 1277 e 1278 c.c.) a quella scritturale, tuttavia non si può ignorare la legislazione speciale (in specie quella tributaria). 

Infatti dagli anni ’90 i sono registrati diversi interventi formativi finalizzati a tracciare il movimenti di denaro limitando l’so del contente.

Assumono particolare rilievo:

a) l’art. 1 d.l. 3 maggio 1991 n. 143 pubb. G.U. 8 maggio 1991 n. 106 conv. in l. 5 luglio 1991 n. 197 che ha sancito a decorrere dal 9 maggio 1991 (al 31 dicembre 2001) il divieto di trasferimento di denaro contante e libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in lire o in valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, del valore complessivo superiore a lire venti milioni; dal 1° gennaio 2002 al 25 dicembre 2002 con la conversione degli importi dalle lire in euro la soglia è divenuta di euro 10.329,14.

b) Il D.M. 17 ottobre 2002, pubb. sulla G.U. dell’11 dicembre 2002, rimasto in vigore sino al 26 dicembre 2002 ovvero all’entrata in vigore dell’art. art. 49 del d.lgs. 21 novembre 2007 n.231, la soglia oltre la quale non è consentito l’utilizzo di denaro contante è di euro 12.500.

c) Il l’art. unico della L. 27 dicembre 2006 n. 296 cvomma 49 (legge finanziaria 2007) toglie l’obbligo di tracciamento, dei i pagamenti nelle cessioni immobiliari, anteriori al 4 luglio 2006.

d) l’art. 49 (prima versione) del d.lgs. 21 novembre 2007 n. 231 in vigore dal 30 aprile 2008 al 24 giugno 2008 che sancisce in euro 5.000 la soglia oltre la quale non è consentito l’utilizzo di denaro contante

e) Il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in L. 6 agosto 2008, n. 133 – pubb. Sul S.O. 196 della G. U. n. 195 del 21 agosto 2008 vigente dal 25 giugno 2008 al 3 novembre 2009 pone il divieto di utilizzo di denaro contante e di titoli al portatore di importi pari o superiori ad euro 500[61]

f) Il d.lgs. 25 settembre 2009 n. 151 che modifica l’art. 49 di cui sopra, a decorrere dal 4 novembre 2009 al 30 maggio 2010, che consente l’utilizzo di denaro contante per i pagamenti frazionati inferiori alla soglia consentita salvo che i pagamenti non appaiano artificiosamente frazionati.

g) L’art. 20 del d.l. 31 maggio 2010 n. 78 vigente dal 31 maggio 2010 pone il divieto di utilizzo di denaro contante e di titoli al portatore per gli importi pari o superiori ad euro 000.

h)L’art. 36 del d.l. 31 maggio 2010 n. 78 pone una presunzione legale al ricorso frequente o ingiustificato a operazioni in contante, ancorché non in violazione dei limiti di cui all’articolo 49, sono un esempio: il prelievo o il versamento in contante con intermediari finanziari di importo pari o superiore ad euro 15.000.

i) il L. n. 38/2011 decorrente dal 13 agosto, riduce il limite di uso contante da € 5.000,00 a € 2.500,.

l) il D.L. n. 201/2011 decorrente dal 6.12.2011 stabilisce che, se l’importo da pagare è superiore a 999,99 euro, deve avvenire conassegno,bonifico o carta di credito, cioè passare attraverso le banche o le poste.

m) Legge stabilità 2016 innalza a decorrere 1° gennaio 2017 l’uso del contante ad € 3.000,00

Da notare che nell’Unione Europea 11 paesi non hanno alcun liomite all’utilizzo del contante, mentre altri paesi hanno limiti per utilizzo contante  più alti: Francia € 3.000,00, Spahna € 2.500,00, Grecia € 1.500,00; solo il Portogallo ha il limite di € 1.000,00.

A seguito della citata normativa, l’applicazione di quella codicistica è diventato marginale.

Non ci sono dubbi che, sistema codicistico di pagamento delle obbligazioni pecuniarie contenuto negli artt. 1277, 1182, 1197 c.c., costituisca una norma datata, che non tiene conto dell’evoluzione socioe-conomica tuttavia non vale l’osservazione che seppur il D.L. n. 143 del 1991 conserva valenza all’art. 1277 c.c. il creditore ha il diritto di pretendere il pagamento in moneta avente corso legale, anche attraverso l’intermediario abilitato che subentra nella posizione del debitore[62], poiché la convertibilità in denaro è tipica di qualsiasi sistema e alternativo di pagamento.

Ne consegue che oggi, il rischio di convertibilità ovvero, l’eventualità che la banca non sia in grado di garantire la conversione in moneta legale dipende dal grado di affidabilità della banca.

L’interpretazione giurisprudenziale prevalente dell’art. 1277 c.c. è granitica nel ritenere i che debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato, pertanto il creditore può rifiutare qualsiasi altro mezzo di pagamento, compreso l’assegno circolare che pure è assistito da una particolare affidabilità e sicurezza in relazione alle modalità di emissione.

Anche la  dottrina ha osservato che l’art. 1277 c.c. non riguarda le modalità di pagamento, ma il sistema valutario nazionale, ed è ad esso che i mezzi monetari impiegati si riferiscano; secondo la concezione moderna il denaro è unità ideale di valore a cui l’ordinamento riconosce la funzione di unità di misura dei valori monetari anche detta ideal unit, astratta unità ideale monetaria creata dallo Stato.

In definitiva, l’oggetto del pagamento è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro e non più dalla moneta, dovendo ritenere che, moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento si riferisca esclusivamente al sistema valutario nazionale.

Solamente procedendo con il criterio interpretativo anzidetto l’ interpretazione dell’art. 1277 c.c. consente altri sistemi di pagamento, pur nella necessità di garantire al creditore lo stesso effetto del pagamento per contanti ovvero, forniscano la disponibilità della somma di denaro dovuta.

Diviene un naturale corollario che il rischio di convertibilità (l’eventualità che per qualsiasi ragione la banca non sia in grado di assicurare la conversione dell’assegno in moneta legale) rimane a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell’operazione.

 

  1. EGUAGLIANZA GENERICA DELL’OGGETTO

 

Il carattere dell’omogeneità degli interessi, consiste nella relativa identità di genere l’obbligazione principale,  tuttavia, è largamente condivisa l’opinione che l’autonomia contrattuale può derogarvi[63].

Il carattere dell’omogeneità ha assunto negli ultimi anno un significato particolarmente importante se si pensa alla c.d. indicizzazione dei tassi di interesse.

L’approfondimento del tema servirà a comprendere se e quando la disciplina degli interessi potrà estendersi alle ipotesi di indicizzazione[64].

Sono ormai ampiamente diffusi i contratti che prevedono remunerazioni il cui importo dipende dalla struttura dei tassi di interesse: si tratta dei contratti indicizzati il cui parametro di indicizzazione è un tasso di interesse.

Nei contratti indicizzati gli interessi non sono noti al momento genetico poiché diverranno noti a date future.

Sussiste pertanto un carattere aleatorio che pone l’interesse al di fuori dalla sua dimensione tradizionale.

Il meccanismo di indicizzazione, con cui verrà determinata l’entità del pagamento, è frutto dell’autonomia contrattuale.

I principali esempi di contratti indicizzati a tassi di interesse sono i titoli a tasso variabile, di cui i Certificati di Credito del Tesoro (CCT), i mutui a tasso variabile di varie tipologie e gli interest rate swap. È divenuta non sole esigenza, ma un vero e proprio prodotto da vendere, la gestione del rischio fluttuazione dei tassi di interesse, questo probabilmente il profilo che mette in discussione la concezione tradizionale dell’istituto in commento.

Nel 1952 Redington elabora quella conosciuta come  Redington’s theory of immunization[65].

La teoria sull’immunizzazione finanziaria consiste in un metodo di matematica volta a neutralizzare gli effetti della variazione del tasso di valutazione su di un portafoglio attivo (crediti) o passivo (debiti).

Con l’immunizzazione finanziaria si cerca di strutturare le attività e le passività in modo da eliminare, o alla peggio, limitare,  le perdite causate da cambiamenti nel livello dei tassi d’interesse.

Si tratta quindi di un metodo di copertura dal rischio di tasso, anche detto rischio di mercato.

Così pure il Teorema di Fisher – Weil (1971) fornisce un metodo di copertura dal rischio di tasso solo se tutte le somme  che pagherà il portafoglio sono collocate nel futuro[66].

Lungi, in questa sede ripercorrere tutti i passi evolutivi della matematica finanziaria e attuariale, sicuramente, rispetto all’impostazione di  Redington, oggi il concetto di immunizzazione finanziaria viene ridefinito come controllo del rischio di tasso di interesse nel senso della teoria delle decisioni in condizioni di incertezza.

La stabilità o la turbolenza  dei mercati finanziari determina la scelta di strategie volte a controbilanciare la variazione dei tassi, basti pensare, all’esigenza dei proteggersi dalla variabilità del tasso di interesse nel mutuo.

Quando il mercato mostra stabilità,  lo strumento più adatto è (o era) l’investimento in titoli obbligazionari, investimenti non rischiosi per la bassa volatilità nella performance del rendimento.

Diversamente l’intervenuta turbolenza dei mercati generato, una alta variabilità nel tempo dei prezzi e dei rendimenti dei titoli obbligazionari rendendo quelli che un tempo erano investimenti a basso rischio in vere e proprie operazioni speculative; in una situazione di questi tipo diviene, in definitiva, rilevante, la componente di rischio di tasso di interesse, sia che investa in portafogli di puro investimento, sia i portafogli complessi di intermediazione.

Il rischio di tasso è generato dalla aleatorietà della struttura per scadenza dei tassi di interesse e dunque connesso alla trasformazione dei tempi delle scadenze.

Il risultato economico dell’intermediazione è quindi influenzato dalla variabilità della struttura dei tassi; la gestione dell’impresa bancaria e della componente finanziaria non potrà che essere impostata con modelli di asset-liability management.

Il tasso di interesse, diviene quindi l’oggetto di contratti finanziari che finiscono inevitabilmente per  interagire con l’oggetto e la causa del contratto principale dalla quale si origina l’obbligazione principale.

 

  1. LA TUTELA PROCESSUALE DELL’OBBLIGAZIONE DI INTERESSI

L’ accessorietà dell’obbligazione di interessi, si riflette inevitabilmente sul piano processuale in primo luogo in merito alla necessità o meno di una domanda espressa relativa agli interessi e secondo luogo l’ammissibilità di un’azione separata relativa ai soli interessi.

Dalla giurisprudenza è possibile rilevare due corollari dell’autonomia delle obbligazioni: l’uno è il principio processuale per cui il pagamento degli interessi  deve formare oggetto di apposita domanda che deve necessariamente indicare sia il titolo che la misura del credito, quindi che gli interessi siano corrispettivi  o compensativi, hanno fondamento autonomo rispetto al debito al quale accedono sicché possono essere attribuiti solo su espressa domanda della parte interessata, contrariamente a quanto avviene nell’ipotesi di somma di danaro dovuta a titolo di risarcimento del danno di cui essi integrano una componente necessaria, L’autonomia della domanda comporta che la decisione in merito al debito degli interessi è altrettanto autonoma soprattutto quando il giudice ne abbia determinato il tasso e la decorrenza iniziale e finale, fissandone, in tal modo, anche l’entità quantitativa, la cui determinazione ha solo bisogno di una operazione di calcolo[67].

Il principio esposto, non si applica tuttavia, all’ipotesi di interessi dovuti su una somma a titolo risarcitorio in quanto, gli interessi, oltre ad essere una componente del danno stesso, poiché trovano la loro fonte nel medesimo fatto generatore dell’obbligazione risarcitoria,  nell’ipotesi di somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, gli interessi costituiscono una componente del danno stesso e nascono dal medesimo fatto generatore dell’obbligazione risarcitoria; possono essere perciò attribuiti al danneggiato anche senza una sua espressa domanda. Nel caso in cui sia dedotta in obligatione una somma di danaro, gli interessi hanno fondamento autonomo; possono perciò essere attribuiti solo su espressa domanda di parte, che ne indichi la fonte e la misura [68].

Inoltre gli interessi, qualora la fonte dell’obbligazione sia il risarcimento, hanno la funzione  di scongiurare il pregiudizio che deriva al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente monetario del danno, Infatti quando il credito è di valore, gli interessi, mirando a scongiurare il pregiudizio che deriva al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente monetario del danno, costituiscono una componente del danno stesso e nascono dal medesimo fatto generatore dell’obbligazione risarcitoria, contemporaneamente e inscindibilmente; in tutti gli altri casi, invece, gli interessi, siano essi moratori, corrispettivi o compensativi, avendo un fondamento autonomo rispetto a quello dell’obbligazione pecuniaria, possono essere attribuiti solo su espressa domanda dell’avente diritto[69] .

Trattandosi di debito di valore, l’adeguamento dell’effettivo valore monetario al momento delle decisione non esige alcuna richiesta specifica della parte essendo dunque rilevabile e concessa d’ufficio; sulla somma liquidata potranno poi essere riconosciuti gli interessi compensativi, che come detto sono componenti del danno anche in assenza di domanda.

L’obbligazione del risarcimento del danno da fatto illecito integra un debito di valore, in quanto tenuto alla reintegrazione del patrimonio della parte lesa nella situazione in cui si sarebbe trovata se non si fosse verificato l’evento dannoso con la conseguenza che l’adeguamento dell’effettivo valore monetario al momento della decisione non esige alcuna richiesta specifica della parte potendo essere accordato anche di ufficio. Sulla somma come liquidata vanno, poi, accordati gli interessi compensativi che costituiscono una componente della obbligazione risarcitoria accordabili, anche in assenza di espressa domanda, sulla somma via via rivalutata[70].

L’altro corollario attiene al principio processuale della improponibilità della domanda di pagamento degli interessi, per la prima volta in appello. Principio che non si estende alla richiesta di pagamento degli interessi per il periodo successivo alla sentenza di primo grado – art. 345 cpc.

Sul se è possibile  domandare  gli interessi,  frutti e accessori maturati dopo la sentenza impugnata, oltre  il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza , la giurisprudenza di legittimità non ha assunto da subito una posizione univoca per quanto concerne i presupposti e le condizioni che debbono ricorrere per l’applicazione della disposizione derogatoria della seconda parte del co. 1 dell’art. 345 c.p.c.

Secondo l’indirizzo maggioritario, la domanda proposta in appello dal creditore intesa ad ottenere gli interessi, i frutti e gli accessori in generale, maturati dopo l’impugnata sentenza di primo grado, oltre il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza, è ammissibile esclusivamente se nel giudizio di primo grado sia stata dal creditore spiegata una domanda analoga per interessi, frutti ed accessori, maturati in precedenza, ovvero per i danni sofferti anteriormente alla sentenza di primo grado[71] .

Un secondo indirizzo, emerso in particolare intorno agli anni novanta, basandosi sul carattere derogatorio della disposizione, sosteneva  che la domanda di interessi, frutti ed accessori maturati dopo l’impugnata sentenza di prime cure, ovvero di risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa, è ammissibile anche nel caso in cui nel giudizio di primo grado non sia stata dal creditore spiegata un analoga domanda per gli interessi o i danni sofferti in precedenza[72] .

La Corte di Cassazione a Sezini Unite con sentenza del 11 marzo 1996 n. 1955 ha chiarito che la deroga a proporre domande nuove in appello si basa sulla natura accessoria  delle domande che possono essere proposte dopo la sentenza impugnata, in quanto costituiscono lo sviluppo logico e cronologico, la continuazione anche implicita delle domande originariamente proposte.

Più di recente la Corte di Cassazione ha ribadito che si ritiene inammissibile la domanda con cui si chieda per la prima volta in appello l’attribuzione di interessi non richiesti in primo grado; ciò in quanto può ritenersi ammissibile la deroga al divieto del novum in secondo grado, coerentemente con la ratio giustificativa della stessa (fondata su profili equitativi e di economia dei giudizi,per consentire al creditore di evitare ulteriori spese per la proposizione di una nuova causa per gli interessi sorti dopo la sentenza di primo grado), solo in quanto non si tratti di una domanda totalmente nuova. La deroga è pertanto consentita unicamente con riferimento ad interessi che non avrebbero potuto essere precedentemente richiesti. Inammissibili sono, poi, il primo motivo del ricorso principale e l’unico motivo del ricorso incidentale[73].

La  giurisprudenza chiarisce inoltre che la rivalutazione monetaria e gli interessi possono essere riconosciuti dal giudice anche d’ufficio ed in grado d’appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi nello originario “petitum” della domanda risarcitoria ove non ne siano stati espressamente esclusi[74].

Gli interessi (compensativi) applicati sulla somma liquidata a titolo di risarcimento danni che, in quanto debito di valore, operano dunque di diritto concorrendo con la rivalutazione monetaria in modo da compensare la svalutazione verificatasi fino alla decisione, poiché solo in questo modo può essere conseguita la reintegrazione del danneggiato nella situazione, in cui si sarebbe trovato, se l’evento dannoso non si fosse verificato[75].

Deve essere segnalato altro orientamento che afferma che gli interessi moratori e corrispettivi, da un lato, e gli interessi compensativi, dall’altro, hanno un diverso regime processuale.

Infatti mentre gli interessi moratori e corrispettivi possono essere attribuiti soltanto se la parte li domanda, gli altri debbono essere riconosciuti anche di ufficio, essendo la loro richiesta implicita nella domanda di integrale risarcimento del danno.

Tale orientamento puntualizza inoltre, che incorre nel vizio di ultrapetita il giudice dell’appello il quale liquidi gli interessi compensativi, nell’ipotesi in cui non sia stato proposto motivo di gravame contro la sentenza di primo grado che abbia omesso tale liquidazione [76].

Con sentenza del 18 marzo 2010 n. 6538 la Corte di cassazione a  Sezioni Unite, ha ribadito[77] che:

a) che gli interessi sulla somma da restituirsi da parte del soccombente decorrono dalla data della domanda giudiziale e che il risarcimento del maggior danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma di denaro oggetto della revocatoria spetta solo ove l’attore alleghi specificamente tale danno e dimostri di averlo subito[78];

b) che fuori dell’ipotesi di interessi su una somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, i quali ne integrano una componente nascente dal medesimo fatto generatore, gli interessi stessi, siano moratori, corrispettivi o compensativi, hanno un fondamento autonomorispetto all’obbligazione pecuniaria cui accedono; e, pertanto, possono essere attribuiti solo su espressa domanda della parte, che ne indichi la fonte e la misura, in applicazione dei principi previsti negli artt.99 e 112 c.p.c.[79];

c) che la relativa domanda non può essere avanzata per la prima volta nella comparsa conclusionale; e che non può neppure ipotizzarsi un’accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, consentito soltanto fino al momento della rimessione della causa al collegio per la discussione.

 

 

Note

[1] F. Giorgianni, C.M. Tardivo, Manuale di Diritto bancario e degli Operatori Finanziari, Terze Edizione, Giuffré Editore Milano 2012

[2] F. Giorgianni, C.M. Tardivo op. cit. pag. 72

[3] Banca, borsa, ecc., 1990, I, 298, spec. 301,

[4] MARTORANO, Trasparenza e parità di trattamento nelle operazioni bancarie, in Banca, borsa, ecc., 1991, I, 697, spec. 698. Per un esame anche dell’esperienza maturata in altri paesi, v. RAGUSA MAGGIORE, La trasparenza e il mercato del credito, in Dir. fallim., 1989, I, 145.

[5] MARTORANO, op. cit., 702, SALANITRO, Tassi e condizioni nei contratti bancari: vincoli di trasparenza e di uniformità, in Banca, borsa, ecc., 1989, I, 489; NIVARRA, La banca fra obblighi di contrarre e regole di trasparenza, in Contratto e impresa, 1988, 145, spec. 150 ss.

[6] BUSSOLETTI, Norme e progetti in tema di parità di trattamento e trasparenza nelle operazioni bancarie, in Dir. banc., 1989, I, 229, spec. 231 ss.

[7] A, NIGRO, Operazioni bancarie e parità di trattamento, in Dir. banc., 1987, I, 3, spec. 11 e 17; CASTALDI, Trasparenza delle condizioni di finanziamento nei rapporti di credito al consumo, in La disciplina comunitaria del credito al consumo a cura di CAPRIGLIONE, in Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, 1987, n. 15, 90, spec. 92.

[8] CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE; sezione V; sentenza, 23-03-2000, n. causa C-208/98

[9] TIDU, La direttiva comunitaria sul credito al consumo e inadempimento dell’obbligazione contrattuale, in Quadrimestre, 1987, 289.

[10] Il testo è pubblicato in Dir. banc., 1989, II, 229. Per un commento v. PORZIO, L’accordo interbancario sulla trasparenza, id., 1990,374.

[11] Jacques Le Goff, Lo sterco del diavolo. Il denaro nel medioevo, Laterza, Roma, Bari 2010, p. 79

[12] La Repubblica, VIII, 555.

[14] Leggi, V, 742

[15] O. Nuccio, Il pensiero economico italiano, Sassari 1984-1992, V vol., I, p.385. Il prof. O. Nuccio (1996), nell’articolo: “Misinterpretazioni ed equivoci nella storia dell’interesse”, in Rassegna economica, n.2, Apr.- Giu., afferma che si è spesso equivocato nell’interpretare il termine usura nei testi antichi. Il termine, che usato al singolare indica prestito senza interesse e al plurale prestito con interesse, non è mai stato inteso dai Romani in senso negativo,individuandosi con esso sempre e solo l’utilizzazione di qualcosa. Successivamente il vocabolo usura venne usato come sostituto di foenus – interesse – esprimendo la fecondità del capitale.

[16] Tacito, Annali, 7, 16, 2 ove il fenus unciarum viene fatto risalire alle XII Tavole.

[17] Per Tito Livio esso ha origine da un plebiscito del 357 a.C. promosso dai tribuni M. Duilio e L. Menenio, al quale avrebbe fatto seguito una riduzione dei tassi del  347 a.C. e la loro abolizione con la lex Genuncia.

[18] Alla fine dell’età repubblicana il tasso di interesse massimo è pari al 12% annuo, cosiddetta usurae centesimae, e questo limite non viene più rimosso anche in età imperiale ove addirittura si afferma il divieto di anatocismo, usurae -usurarum.

[19] Cicerone, De legibus

[21] E.Roll, Storia del pensiero economico, Torino, 1966, p.388.

[22] Tim Parks, La fortuna dei Medici. Finanza, teologia e arte nella fnanza del Quattrocento, Monadori, Milano 2006, pag. 12

[23] Ascarelli, Delle obbligazioni pecuniarie, 1959, 577.

[24] Bolaffio, Delle obbligazioni commerciali, 1919, 225 nt. 1.

[25] Bolaffo, op. cit., 247.

[26] Bianca, Diritto Civile, vol. 4, Milano 1990 pagg. 177 – 178; Libertini, voce Interessi, Enc. del Dir. Vol. XXII, Milano, 1972, 101.

[27] B. Inzitari, voce Interessi, in Digesto – Discipline Privatistiche, Vol. IX, 2002,  pag. 568

[28] Messa, L’obbligazione degli interessi  e le sue fonti, Milano, 1911, 228 e 223.

[29]Simonetto, I contratti di credito, Padova, 1953, 257 ss.

[30] Ascarelli, Obbligazioni pecuniarie, 576

[31] Ascarelli, op. cit.

[32] Scozzafava, Gli interessi dei capitali, Giuffrè, Milano, 2001, 51, 67, 160

[33] Mazzoni, Scozzafava.

[34] Marinetti, Interessi, voce in Noviss. Digesto It. VIII Torino.

[35] Bianca, Diritto Civile, vol IV, Milano, 1993, 174.

[36] F. Galgano, Trattato di Diritto Civile, Vol. 2, Padova, 2010, 49.

[37] C. Sganga, Dei beni in generale – artt. 810 – 821, Il codice Civile – Commentario diretto da F. D. Busnelli, Milano, 2015, 339.

[38] Cass. SS.UU. 18 dicembre 2007 n. 26617.

[39] Cass. 12 marzo 1981 n. 1411. Ex multis Cass. 18 agosto 1982 n. 4642.

[40] Cass. 25 febbraio 1980 n. 1322.

[41] Ferrara F. Jr, Il fallimento, Milano, 1966, 291.

[42] Gli interessi sono anche ritenuti una quantità di cose fingibili al fine di poterli tenere distinti dai canoni delle locazioni e dell’enfiteusi, che seppur anch’essi intesi come frutti civili, si distinguono tuttavia dagli interessi poiché costituiscono il corrispettivo per il godimento di una cosa infungibile.

[43] La dottrina ha inteso distinguere, attraverso la combinazione della periodicità e della proporzionalità, gli interessi dai dividendi distribuiti dalle società di capitali giacché, questi ultimi, oltre ad essere  solitamente qualificati frutti civili sono collegati con un’obbligazione principale, ovvero il conferimento, riconducibile alla restituzione di una certa quantità di cose fungibili.

[44] B. Inzitari, voce Interessi, op. cit. pag. 569; Natoli e Bigliazzi Geri, Mora accipiendi e mora debendi, Milano, 1975, 223 ss.

[45] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di dirito privato, ed. 22, Milano, 2015, 402.

[46] Quadri, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, vol. 9, Torino, 2005, 644. Anche, Breccia, Le Obbligazioni, 351.

[47] Bianca, Diritto Civile, vol. 4, Milano, 1990, 180 – 188.

[48] Cass. Civ. 24 febbraio 2001 n. 5913; ex multis: Cass. Civ. 29 gennaio 2003 n. 1265. Cass. Civ. 12 aprile 2011 n. 8298.

[49] Cass. Civ. 12 aprile 2011 n. 8298. Ex multis: Cass. 14 maggio 2003 n. 7371, cfr. nello stesso senso già Cass. 21 aprile 1999 n. 3944.

[50] Scozzafava, Gli interessi dei capitali,  Milano, 2001.

[51] TAR Puglia, Sez. I, 21 marzo 2003 n. 1352

[52] Libertini, voce Interessi, Enc. Del Diritto, vol. XXII, Milano, 1972.

[53] Cass. Civ. 14 marzo 2007 n. 5954; Cass. Civ. 2 ottobre 1980 n. 5343.

[54] Cass. Civ. 27 novembre 2009 n. 25047.

[55] Ex multis: Cass. civ., sez. 5, sent. 14 marzo 2007, n. 5954; Cass. civ., sez. 2, sent. 30 marzo 2001, n. 4704.

[56] Cass. Civ. 30 dicembre 1997 n. 13097.

[57] Vedi nota 40.

[58] Libertini, op. cit., 136.

[59] Weber, Staudingers Kommentar zum BGB, 1294.

[60] Cass. Civ. 16 settembre 1980, n. 5275.

[61] L prima versione del  testo del 1° comma dell’art. 49 (fino al 3 novembre 2009) non consente l’utilizzo di denaro contante per i pagamenti anche frazionati quando l’operazione complessiva è pari o superiore ad euro 12.500. è successivamente intervenuta  una interpretazioni  di maggiore apertura del MEF, nota 65633 del 12 giugno 2008 al CNDCEDC e nota 28107 dell’8 aprile 2009 al CNN.

[62] Cass. 10.6.2005, n. 12324

[63] FRAGALI, Del mutuo, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca, 1966

[64] Trib. Roma, 29.05.1981.

[65] M. DE FELICE, F. MORICONI, La teoria dell’immunizzazione ¯nanziaria: Modelli e strategie, Il Mulino, Bologna, 1991, cap. 3 e 4; F. CACCIAFESTA, Lezioni di matematica ¯nanziaria classica e moderna, Giappichelli, Torino, terza ed., 1997,  cap. 10.

[66] Il Teorema di Fisher-Weil non garantisce l’immunizzazione di portafogli formati anche da componenti liquidi (denaro)

 

[67] Cass. Civ. Sez. II, 25 novembre 2005, n. 24858; ex multis: Cass. Civ. 12 ottobre 1979 n. 5333; Cass. Civ. sez. II  30 luglio 1983 n. 5242 ; Cass. Civ. 9 febbraio 1993 n. 1561. Principio ribadito da Cass. Civ. 18 gennaio 2007 n. 1087. 

[68] Cass. Civ. 13 febbraio 1982 n. 894; ex multis Cass. Civ. sez. III  16 luglio 2003 n. 11151  

[69] Cass. Civ. 4 febbraio 1999 n. 977; ex multis: Cass. Civ. sez. II, 12 ottobre 1979 n. 5333; sez. II, 30 luglio 1983 n. 5242; sez. II, 28 giugno 1989 n. 3154.

[70] Cass. Civ. 6 novembre 1998 n. 11190. Ex multis: Cass. Civ. 8717-96, 3072-95.

[71] Cass. 16.9.1992 n. 10597; 26.6.1990 n. 6466; 5.4.1990 n. 2801; 13.7.1988 n. 6775, relativamente agli interessi tra deliberazione e deposito della sentenza di primo grado; 27.6.1985 n. 3853; 28.7.1983 n. 5205; 18.1.1982 n. 329; 26.3.1981 n. 1772; 3.10.1979 n. 5070)

[72] Cass. 18.11.1994 n. 9763; 12.5.1992 n. 5641; 26.4.1990 n. 3483; 29.6.1989 n. 3154.

[73] Cass. Civ. Sez. I, 2 febbraio 2006 n. 2331

[74] Cass. Civ. 2 dicembre 1998 n. 12234

[75] Cass. Civ. 27 marzo 1997 n. 2745; cfr. Cass. 16.3.1995, 3072; Cass. 1.2.1995, 3072; Cass. 1.2.1995, 1136

[76] Cass. Civ. 10 ottobre 1979 n. 5260

[77] Sentenza confermata da Cass. Civ. 24 novembre 2010 n. 23843

[78] Ex Multis: Cass. 14896/2009; 6991/2007; 887/2006; Sez. Un. 437/2000

[79] Cass. 4423/2004

Avv. Morini Giampaolo

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