La trasparenza gestionale del conto corrente condominiale: profili di diritto tributario

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Introduzione

L’articolo 9 della L. 11/12/2012, n. 220, ha sostituito l’articolo 1229 c.c., introducendo al comma 7 una delle novità più importanti, anche sotto il profilo fiscale, della riforma legislativa del condominio: l’obbligo dell’amministratore di far transitare tutte le somme riguardanti la gestione del condominio in uno specifico “conto corrente condominiale”[1].

Per espressa disposizione legislativa, tuttavia, la nuova norma non opera retroattivamente, perciò, resta aperta e dibattuta la questione se per le controversie ancora nascenti (relative a fatti avvenuti prima della riforma), esistesse un obbligo di conto corrente condominiale. Se la risposta fosse positiva, gli amministratori, che abbiano gestito le somme condominiali sul proprio conto corrente, dovrebbero immediatamente correre ai ripari e tutelarsi, ricostruendo la propria gestione condominiale (ante riforma) e rendendola il più possibile “trasparente”, sia nei confronti dei condomini, sia nei confronti del Fisco, onde evitare di incorrere nelle sanzioni.

La sentenza in rassegna, a tal proposito, consente alcuni spunti di riflessione sull’esistenza (ante riforma) di un obbligo non scritto di tenuta del conto corrente condominiale.

 

1. Il caso e la decisione della Commissione Tributaria Regionale di Brescia[2] 

La controversia scaturisce da un atto di accertamento compiuto dall’Agenzia delle Entrate sul conto corrente personale di un amministratore di condominio, che all’epoca dei fatti veniva utilizzato anche per la gestione delle somme condominiali. Soccombente in primo grado[3], l’amministratore si rivolge alla Commissione Tributaria Regionale di Brescia, che tuttavia conferma la sentenza impugnata. I Giudici di secondo grado ritengono che in presenza di movimentazioni bancarie non sufficientemente giustificate (in questo caso le somme “condominiali”, che erano state versate dall’amministratore nel proprio conto corrente), queste si presumono compiute “in nero” (c.d. presunzione fiscale), salvo che l’amministratore riesca a ricostruire dettagliatamente le singole movimentazioni bancarie (anche a distanza di anni dall’epoca dei fatti)[4].

 

2.  Le questioni (e alcuni spunti di riflessione)

Come si è detto in premessa, il nuovo articolo 1229, comma 7, c.c. (con decorrenza dal 08.06.2013), statuisce che «l’amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio».

La ratio della norma è chiara e i vantaggi evidenti, perchè, da un lato, si impedisce il rischio che gli amministratori si possano appropriare indebitamente delle somme versate dai condomini (ciò costituirebbe un’ipotesi di “gravi irregolarità”, tale da legittimare la revoca del mandato, ex. art. 1129, c. 12, nn. 3 e 4 c.c., nella nuova formulazione); dall’altro, si garantisce una trasparenza fiscale alla gestione delle somme depositate dai condomini.

Posto che la questione, ad oggi, può dirsi in gran parte risolta, ci si chiede se l’obbligo di conto corrente condominiale, in realtà, esistesse anche prima della riforma legislativa. In caso di risposta positiva, si tratterà di capire come sia possibile prevenire (o rimediare) eventuali controlli fiscali, senza incorrere nelle sanzioni in cui è incorso il nostro amministratore.

Innanzitutto è necessario rilevare che, in passato, gli amministratori “meno attenti” si limitavano a far confluire nel proprio conto corrente, non solo le entrate personali, ma anche tutte le somme pagate da parte dei condomini, con il rischio di creare una  lampante “confusione” tra i vari patrimoni coinvolti a scapito di una gestione trasparente.

La giurisprudenza, dal canto suo, riteneva piuttosto che per garantire una corretta amministrazione condominiale fosse necessario che l’amministratore aprisse  «un conto di cassa intestato al condominio […]»[5]; solo così era possibile garantire la “trasparenza” nella gestione economica del  somme versate dai singoli condomini (ai quali, tra l’altro, spetta un «diritto soggettivo a vedere versate le [sue] quote […] su un conto corrente intestato al condominio e non personalmente all’amministratore […]»[6].

Giovano due ulteriori considerazioni.

La prima considerazione trae spunto dalle norme del codice civile e dal concetto di “diligenza” (nell’amministrazione condominiale). Ci si riferisce, in particolare, all’art. 1710 c.c., a norma del quale: «il mandatario è tenuto ad eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia[…]» e, di riflesso, all’art. 1176, c. 2, «[…] la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata». Dall’esame delle due norme emerge che, nell’esecuzione dell’incarico, il mandatario – nel nostro caso l’amministratore di condominio – deve operare con la diligenza del buon padre di famiglia, ossia con quella diligenza tale da evitare danni al mandante – nel nostro caso i condomini-.

L’art. 1129, c. 3, ultima parte (ante-riforma), inoltre, stabiliva la pena (forte) della revoca dall’incarico dell’amministratore, nelle ipotesi in cui vi fossero «gravi sospetti di irregolarità» nella gestione condominiale; tra queste gravi irregolarità venivano fatti rientrare, per interpretazione costante, sia l’ipotesi di “confusione tra patrimoni”, sia quella di “appropriazioni indebite” da parte dell’amministratore (disonesto), entrambe inevitabili in presenza di un unico conto corrente utilizzato, sia per le proprie entrate, sia per le somme condominiali.

La seconda considerazione, invece, trova il suo fondamento nel diritto tributario[7].

La disciplina tributaria[8] prevede che i dati acquisiti dall’Agenzia delle Entrate attraverso indagini bancarie possono essere utilizzati per compiere accertamenti fiscali.

Invero, le norme tributarie non prevedono alcuna forma di diretta partecipazione dell’interessato nella fase acquisitiva dei dati relativi alle sue operazioni bancarie; mentre, aperture a questa forma di partecipazione esistono nella fase dell’utilizzazione dei dati in tal modo acquisiti, ai fini dell’accertamento tributario. I dati acquisiti possono essere posti a base degli accertamenti ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione degli imponibili e delle imposte, o che non hanno rilevanza ai fini impositivi.

Inoltre (ma solo per il campo delle imposte sui redditi), è stabilito che, alle stesse condizioni, anche i prelevamenti possono essere posti a base degli accertamenti tributari, come ricavi e compensi, se il contribuente non ne indica il beneficiario, e sempreché non risultino dalle scritture contabili. Sull’interpretazione e applicazione di queste – per molti versi – lacunose disposizioni, tuttavia, sussistono ancora incertezze e dibattiti sia in dottrina che in giurisprudenza[9].

La soluzione a cui si giunge oggi è nel senso che, in presenza di alcune anomalie nella movimentazione bancaria, il contribuente è tenuto a ricostruire (e perciò giustificare) analiticamente queste movimentazioni, altrimenti, l’Agenzia delle Entrate potrà “presumere” che tali anomalie siano state compiute al fine di eludere il Fisco e potrà, così, sanzionare il contribuente[10].

Nel nostro caso, quindi, l’amministratore sfuggirà a tali presunzioni “fiscali” solo se riuscirà a  ricostruire (anche a distanzi di anni dall’epoca dei fatti) analiticamente le movimentazioni bancarie e  a darne prova al Fisco.

 

Conclusioni e alcuni spunti di riflessione

A distanza di pochi mesi dalla sentenza in commento, in un caso per molti aspetti simile a quello in esame, la Commissione Tributaria Regionale di Palermo[11]  ha risolto in modo sostanzialmente identico la questione, a dimostrazione dell’esistenza di una linea giurisprudenziale (a danno dell’amministratore) ormai consolidata e su cui si fonderanno verosimilmente le future decisioni in materia[12].

L’insieme delle considerazioni svolte porta, allora, a ritenere che un obbligo non scritto di tenuta del conto corrente condominiale esistesse anche prima della riforma del 2012, e dunque che, relativamente alle controversie ancora nascenti, l’amministratore che non abbia originariamente costituito un conto corrente condominiale dovrà ricostruire la gestione delle somme condominiali, rendendola il più possibile “trasparente”, sia per i condomini, sia per il Fisco.

Non si esclude che si tratterà di una prova alquanto ardua da fornire e per la quale sarà necessario “agire per tempo”, ma resta inteso che non dovranno temere conseguenze tutti quegli amministratori che abbiano operato con la diligenza assoluta, in quanto saranno in grado di fornire prove sufficienti anche per il Fisco.

 


[1] Per una prima trattazione sull’argomento, si veda G. Terzago, Il Condominio, trattato teorico – pratico, ed. 8^, 2015

[2] Commissione Tributaria Regionale, Brescia, Sez. LXVII n. 3420 del 20 luglio 2015

[3] In primo grado, l’amministratore soccombe parzialmente, in quanto la Corte Provinciale di Brescia ha ridotto la quantificazione del presunto maggior reddito, in forza dell’interpretazione restrittiva dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, fornita della Corte Costituzionale (sentenza n. 228/2014), secondo cui la presunzione introdotta dalla norma valesse solo per le movimentazioni in entrata e non in uscita

 

[4] In questo modo, i giudici di Brescia risolvono la questione aderendo all’orientamento – consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ed espresso nel principio di diritto – secondo il quale in tema di verifiche di conti correnti bancari, la presunzione, di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1972, determina un’inversione e un aggravamento dell’onere della prova del contribuente, il quale non potrà limitarsi a fornire prove  generiche, bensì analitiche ricostruzioni delle singole movimentazioni bancarie in entrata, che dimostrino l’estraneità di ciascuna operazione alla materia imponibile.

[5] Trib. Milano, ord. 29/09/1993

[6] Si legge, a tal proposito, in Trib. Milano, 09/09/1991 che «il singolo condomino ha un diritto soggettivo a vedere versate le sue quote […] su un conto corrente intestato al condominio e non personalmente all’amministratore […]. La confusione, infatti, sul conto personale dell’amministratore tra quanto versato dai condomini e le somme di denaro di proprietà del primo, non avrebbe consentito ai condomini stessi nessun controllo sulla gestione del condominio […]». Si veda, altresì, Trib. Genova 16/09/1993; Trib. Torino, 03/05/2000; Trib. Roma, 24/08/2009; Trib. Salerno, 03/05/2011; da ultimo, nella giurisprudenza di legittimità ante riforma, si veda Cass. civ., 10/05/2012, n. 7162/2012, secondo la quale «pur in assenza di specifiche disposizioni di legge che ne facciano obbligo, l’amministratore di condominio è tenuto a far affluire i versamenti delle quote condominiali su un apposito e separato conto corrente intestato al condominio, per evitare confusioni e sovrapposizioni tra il patrimonio del condominio e il suo personale od eventualmente quello di altri differenti condomini, da lui amministrati»

[7] La seconda considerazione, che alla base della decisione della sentenza che qui si commenta, trova il suo fondamento nel diritto tributario e nella L. n. 214 del 2011 (decreto Salva Italia) che, eliminando il limite del c.d. «segreto bancario», ha introdotto un generalizzato obbligo, a carico degli operatori finanziari (la banche), di effettuare comunicazioni periodiche all’anagrafe tributaria delle complessive movimentazioni da esse intrattenute con i propri clienti; dettando le regole che debbono seguirsi nel momento in cui si intende scendere ad analitici riscontri fiscali, ai fini del controllo della sussistenza o meno di violazioni delle leggi tributarie.

[8] Artt. 32, D.P.R. 600/1973 e 51, D.P.R. n. 633/1972

[9] Gli orientamenti dominanti in giurisprudenza sono nel senso che il legislatore avrebbe con esse introdotto “presunzioni legali relative”, operanti sul piano del diritto sostanziale, e delle quali gli Uffici potrebbero avvalersi (nel silenzio della legge) anche senza avere preliminarmente chiesto al contribuente di giustificare in fase amministrativa i dati e le notizie acquisiti, posto che la prova contraria alla presunzione legale può essere fornita anche nella successiva fase contenziosa. Ma, accanto al rigorismo formale di queste posizioni (che, di per sé, imporrebbero al contribuente il gravoso onere di giustificare analiticamente – anche a distanza di non pochi anni – le singole operazioni attive e passive risultanti dalle documentazioni bancarie), esistono anche aperture verso più equilibrate e ragionevoli soluzioni.

In particolare, la Corte Costituzionale ha riconosciuto la costituzionalità dell’equiparazione legale a proventi reddituali non dichiarati di tutti i prelevamenti (i quali sono di per sé uscite) dei quali il contribuente non indichi il beneficiario, osservando che nella valutazione di tali elementi in sede di accertamento deve però tenersi conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – anche dei costi relativi ai presunti maggiori ricavi, i quali vanno quindi detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati (Cort. Cost. 8 giugno 2005, n. 225; l’esigenza di combattere un’evasione fiscale ritenuta rilevante nel settore trova una risposta anche in altre sentenze, si veda sent. n. 355 del 2010 e n. 280 del 2011). La Corte di Cassazione ha successivamente puntualizzato, per un verso, che le norme in questione non riguardano soltanto la determinazione quantitativa della materia imponibile accertabile (e non anche la riconducibilità delle movimentazioni bancarie all’attività propria del contribuente) (Cass. 11 novembre 2009, n. 23853) e, per altro, che il contribuente può fornire le giustificazioni richieste anche sulla base di presunzioni semplici, e non necessariamente di prove documentali (Cass. 30 novembre 2011, n. 25502). Si sono così compiuti passi nella direzione della negazione che quelle delineate dalla legge siano vere «presunzioni legali», e del riconoscimento della necessità della valutazione delle risultanze bancarie nel quadro delle peculiarità dei singoli casi concreti.

Da ultimo, la Corte Costituzionale, con sentenza del 06/10/014, n. 214/2014, ha tuttavia introdotto dei limiti all’efficacia probatoria (anche in materia penal-tributaria) dell’operazione di prelevamento di somme di denaro dal conto corrente bancario del professionista, ritenendo costituzionalmente illegittimo l’art. 32, comma 1 n. 2), secondo periodo, d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, come modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a) n. 1), l. 30 dicembre 2004 n. 311, poiché considerata norma arbitraria e lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva nella parte in cui prevedeva che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari sarebbero destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e questo a sua volta sarebbe produttivo di un reddito. La presunzione, invece, resta per i versamenti, salvo che il contribuente non fornisca la prova delle singole movimentazioni bancarie.

In dottrina si veda S. Salvatore, Valenza probatoria delle movimentazioni bancarie, Pratica fiscale e professionale, n. 
19 del 2009, pag. 30 ; A. Piccardo, Profili interpretativi sull’utilizzo presuntivo dei dati bancari ai fini fiscali, Diritto e 
Pratica Tributaria, n. 3 del 2002, pag. 20557; La Rosa S., Principi di Diritto Tributario, Torino, 2011; 
Falsitta G., Manuale di diritto tributario, I, 2010 .

[10] La necessità della costituzione del conto corrente condominiale, diverso da quell’amministratore, allora, trova indirettamente conferma anche nel diritto tributario. Il rischio insito nella confusione tra i due patrimoni, personale e condominiale, invece, è sempre stato indice per il Fisco della presenza di operazioni “in nero”, dirette ad eludere le norme fiscali. La presunzione dell’intento evasivo, d’altra parte, può essere superata dalla prova delle analitiche movimentazioni, che, però, l’amministratore non ha fornito nel caso de quo.

[11] CTR Palermo, sentenza n. 4489 del 28 ottobre 2015, sez. XXIV

[12] La Commissione Tributaria Regionale di Palermo, sentenza n. 4489 del 28 ottobre 2015 (ud 23 settembre 2015), sez. XXIV, ha risolto in modo sostanzialmente identico la questione, giungendo alla conclusione che « […] costituisce onere del contribuente (ancora una volta, l’amministratore di condominio) fornire precisa e dettagliata documentazione diretta ad escludere che i versamenti ed i prelievi non siano riferibili a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività di impresa»; a dimostrazione dell’esistenza di una linea giurisprudenziale ormai consolidata

Sentenza collegata

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Avv. Nicotra Antonio

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