Considerazioni preliminari : le teorie monista e pluralista, le fonti e l’opera giurisprudenziale.
I diritti della personalità o diritti umani (*********), variamente definiti o qualificati, mirano a garantire le ragioni fondamentali della vita e dello sviluppo, fisico e morale, dell’esistenza dell’individuo.
La catastrofe umanitaria dell’ultima guerra mondiale ha spinto il legislatore occidentale a prevedere e riconoscere un’ampia tutela di rango costituzionale dei diritti inviolabili della persona umana.
Si discute se esista un unico diritto della personalità (****) che considera l’uomo in ogni sua manifestazione qualificante e lo protegge di conseguenza a prescindere dalla singola norma, coerente con l’impostazione tedesca della tipicità dei fatti illeciti e della relativa responsabilità aquiliana (********), ovvero sussistano tanti diritti della persona quanti la legge ne prevede o il giudice ne individua nel tessuto dell’ordinamento sociale e giuridico, rintracciando nella Carta costituzionale del 1948 i valori sui quali si fonda la trama normativa dei rapporti tra privati o tra privati e Pubblica Amministrazione (*******).
Il ******* definisce la distinzione richiamata, distinguendo tra una teoria monista che configura l’unico diritto della personalità alla stregua del diritto assoluto di proprietà, il quale è unico pur essendo il contenuto costituito da una pluralità di facoltà, e una teoria pluralista che, muovendo dalla insufficienza pratica della prima a garantire gli innumerevoli interessi che esprime la realtà sociale, inquadra la tutela dei diritti in commento nell’ambito dell’atipicità dei fatti illeciti ex art.2043 cc.
Ragioni storiche e la circostanza che il legislatore (contrariamente a quello svizzero) non abbia introdotto un generale “diritto della personalità”, sono argomenti rilevanti che inducono a conservare l’abituale inclinazione giurisprudenziale e dottrinale a ricostruire singoli diritti della personalità (********).
Inoltre, la più recente dottrina, dichiara il definitivo superamento della teoria monista con l’entrata in vigore della Costituzione, il cui art.2 “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, in tal modo chiarendo che non si tratta di proteggere questo o quel singolo diritto inteso come situazione giuridica desumibile dalla norma, ma qualsiasi interesse collegato alla realizzazione della personalità dell’individuo (*******), dunque, considerando l’art.2 Cost. come “catalogo aperto” (********) dei diritti della personalità riportati nel suo ambito da un processo storico giurisprudenziale (giurisprudenza e dottrina, **********).
Nell’elenco delle fonti dei diritti della personalità, dopo la Costituzione repubblicana, vanno posti importanti accordi internazionali.
Significativa menzione merita, senza dubbio, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. In questa sede è opportuno ricordare che le Dichiarazioni di principi non costituiscono un’autonoma fonte di norme internazionali, secondo la dottrina dominante e la prassi a cui si sono conformati la quasi totalità dei Paesi occidentali e, pertanto, appare ardita (anche se il riferimento alla Dichiarazione universale deve ritenersi fatto ad abundantiam) la tesi sostenuta dalla Cassazione (Sez.Un. sent. 31.7.1967 n.2035) secondo cui la Dichiarazione citata sarebbe operante nel nostro ordinamento ex art.10 Cost. poiché fonte di norme generali di diritto internazionale (********).
Ancora, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, elaborata in seno al Consiglio d’Europa e solennemente adottata a Roma nel 1950 ; successivamente, sono stati aggiunti vari Protocolli che aumentano il numero dei diritti riconosciuti.
L’adesione italiana (legge 4.8.1955 n.848) è stata gravemente limitata dal ritardo con il quale il nostro Paese ha accettato (nel giugno del 1973) la possibilità di ricorsi individuali. La giurisprudenza non ha prestato al documento l’attenzione dovuta (********), poiché lo scopo della Convenzione è quello di dare maggiore concretezza alla Dichiarazione universale del 1948, ma resta incompiuto, mantenendosi sul piano dei principi programmatici, consentendone deroghe ed eccezioni e così riducendone la portata garantistica dei diritti e delle libertà ivi riconosciute.
Infine, è necessario sottolineare la ratifica da parte dell’Italia di altri importanti patti internazionali quale quello aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966 sui diritti civili e politici (L. 25.10.1977 n.881) e la Convenzione di Strasburgo del 22 novembre 1984 con legge 9.4.1990 n.98.
Delle fonti diverse dalla Costituzione e dai patti internazionali, è necessario richiamare il Codice civile e le leggi complementari che hanno integrato la succinta disciplina di fonte codicistica (limitantesi alle disposizioni di cui agli artt.5-10 che riguardano gli atti dispositivi del proprio corpo, il nome e l’immagine), quali la legge sul diritto d’autore (L. 633/41), lo Statuto dei lavoratori (L. 300/70), la recente legge sul trattamento dei dati personali (L.675/96).
Senza dubbio, l’opera giurisprudenziale ha contribuito in modo rilevante al riconoscimento di una tutela civile dei diritti in esame, passando dalla concezione essenzialmente patrimonialistica dei rapporti tra privati, ad una revisione, svolta tra la seconda metà degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta, nella duplice direzione di approfondire ed estendere la tutela dei diritti della persona, svincolandola dai rigidi schemi desumibili dal Codice civile e da alcune leggi speciali, per assicurare una protezione direttamente fondata sui principi costituzionali (*********-****). Significativi, in questo senso, sono i revirement giurisprudenziali che, nel breve arco di un decennio, si sono verificati in materia di tutela dell’identità personale, della salute e della riservatezza.
Le forme della tutela civile dei diritti in genere
La tutela risarcitoria
Con questa espressione si indica quella tutela diretta a far conseguire al titolare del diritto leso, non la stessa utilità garantitagli dalla legge (o dal contratto), ma solo utilità equivalenti (funzione compensativa o riparatoria).
Nell’ambito di questa forma di tutela si suole distinguere a seconda della natura del fatto lesivo, se esso procuri un danno patrimoniale o non patrimoniale.
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Il risarcimento del danno patrimoniale ha funzione essenzialmente economica : mediante esso si attua la traslazione di un costo, che si sia verificato a carico di un soggetto, da questi ad un altro soggetto, individuato come responsabile in base ad uno dei criteri di imputazione normativamente previsti (*****).
La funzione compensativa della tutela in esame individua il contenuto quantitativo dell’obbligazione risarcitoria, nell’equivalente dell’entità del danno patito : in effetti, alla base della disciplina, vi è il principio della riparazione integrale, secondo cui la vittima ha diritto a una somma di danaro corrispondente alle perdite economiche subite, comprensive, in base all’art.1223 cc, sia della diminuzione del patrimonio (danno emergente) che dell’eventuale mancato guadagno conseguente al fatto lesivo (lucro cessante).
Corollario della funzione essenzialmente compensativa che svolge il principio dell’equivalenza nel risarcimento del danno patrimoniale, è che lo stesso non può comportare l’arricchimento della vittima. Su tale criterio si fonda la regola fondamentale della compensatio lucri cum damno, per la quale nella determinazione quantitativa del danno da risarcire vanno detratti gli eventuali vantaggi economici che la vittima abbia conseguito dal fatto lesivo, ovvero, come ha precisato il Supremo Collegio (Cass. 4.2.1993 n.1384), la compensatio opera solo con riferimento ai vantaggi riconducibili al fatto dannoso secondo le regole della causalità giuridica che governano la concreta determinazione dell’equivalente da risarcire ex art.1223 cc (“conseguenza immediata e diretta”).
La tutela risarcitoria dei diritti della personalità incontra un importante limite nella storica preclusione della risarcibilità ex art.2059 dei danni non patrimoniali.
Non può qui parlarsi di funzione compensativa del risarcimento de quo, e ciò non perché il danno non patrimoniale sia astrattamente incommensurabile in danaro (*****), ma perché non può essere misurato secondo il criterio dell’equivalenza con la perdita economica subita dalla vittima.
Questo non vuol dire che al danno non patrimoniale sia estraneo un più ampio profilo riparatorio : in effetti, secondo la dottrina, differente è la funzione di una tale forma di tutela risarcitoria, la quale risponde ad una finalità che può essere definita “satisfattiva” della vittima, che, a sua volta, si differenzia con riguardo alle ragioni per le quali l’ordinamento dà luogo, in casi determinati, a tale forma di tutela, che si concretizza nell’arricchimento della vittima (esito, invece, escluso, in via di principio, nel risarcimento del danno patrimoniale).
La più restrittiva lettura del sistema della responsabilità da fatti illeciti, fondata sull’art.2059, ritiene i danni non patrimoniali risarcibili solo quando l’illecito costituisca un reato, così integrando la normativa civilistica con un diretto rinvio all’art.185 cp : per cui si parla di tipicità del danno non patrimoniale (*****).
Altra parte della dottrina (********, **********), che di recente ha trovato l’autorevole adesione della Corte costituzionale, tende ad allargare l’ambito riparatorio dei danni non patrimoniali, svicolandoli dall’angustia norma dell’art.2059 (a cui si riferisce esclusivamente il danno morale soggettivo), per porli nell’ambito applicativo dell’art.2043 in combinato disposto con le norme costituzionali che riconoscono e garantiscono diritti fondamentali della persona [si ricordi la vicenda del danno biologico come lesione della salute (Corte cost. sentt. 87-88/1979, 184/1986, 372/94)].
La tutela specifica e l’inibitoria
La richiesta della vittima del danno ha per oggetto, normalmente, il risarcimento per equivalente, secondo l’espressione usata dall’art.2058, comma 2. In tal caso, i danni vengono valutati dal giudice secondo i criteri indicati dall’art.2056.
Il danneggiato può, però, chiedere al giudice la “reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile” (art.2058, comma 1) e purchè non risulti “eccessivamente onerosa per il debitore”.
La tutela specifica è diretta a far conseguire alla vittima – titolare del diritto leso, quelle stesse utilità garantitele dalla legge (o dal contratto) e non utilità equivalenti.
La tutela in parola, dal punto di vista procedurale, è caratterizzata, oltre dal fatto di realizzarsi tramite l’esecuzione forzata in forma specifica (artt.605 ss cpc), dalla circostanza che spesso si realizza anche tramite la previsione di ipotesi espresse di tutela inibitoria, destinata ad impedire il fatto prima che sia compiuto o far cessare i comportamenti lesivi che continuino nel tempo (artt.949 e 1079 cc).
In questa sede, è opportuno accennare al dibattito intorno alla figura della tutela inibitoria atipica dei diritti come un generale rimedio reintegrativo nel quadro normativo di cui all’art.2058 cc.
Questa norma prevede che la riparazione del danno possa avvenire, oltre che con il pagamento di una somma di danaro, ed in alternativa (totale o parziale) rispetto a tale modalità, attraverso una prestazione avente contenuto diverso. Il rimedio in questione ha funzione essenzialmente riparatoria e pertanto, si differenzia in maniera rilevante rispetto all’inibitoria, la cui funzione è diretta, come detto, a dare attuazione alle situazioni soggettive, o a prevenirne la violazione.
Ergo, inquadrandosi necessariamente la tutela specifica nell’ambito normativo della responsabilità per danni, essa presuppone l’esistenza di uno dei criteri normativi di imputabilità del fatto lesivo che, invece, non rileva nella tutela inibitoria, e, inoltre, si può agire ex art.2058 nei confronti del responsabile per fatto altrui, ciò che è inconcepibile nell’altro rimedio ; infine, solo nel caso della tutela specifica si applica la disciplina peculiare della prescrizione, dettata per l’azione di risarcimento.
Queste sostanziali e positive differenze sottolineano la non riconducibilità della tutela di cessazione in una prospettiva di applicazione generalizzata ed atipica, come rimedio reintegrativo e riparatorio (*****), avendo come base normativa l’art.2058, anche perché la tutela inibitoria non costituisce un rimedio contro il danno (*********).
La giurisprudenza talvolta ricorre all’analogia e si avvale spesso dei provvedimenti d’urgenza ex art.700 cpc per intervenire con misure inibitorie a carattere provvisorio ogni qualvolta vi sia fondato motivo (fumus boni iuris) di temere che durante il tempo occorrente per far valere in giudizio un diritto “questo sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile” (periculum in mora).
Ancora, una indiretta tutela inibitoria della salute viene poi raggiunta mediante un’interpretazione evolutiva della norma di cui all’art.844 : l’accertamento di immissioni che superino la normale tollerabilità è stato ritenuto sufficiente presupposto per l’emanazione da parte del giudice di un provvedimento inibitorio, atto a far cessare la nociva immissione per la salute del ricorrente.
Come ha indicato ************, l’ammissibilità della tutela inibitoria atipica va ammessa argomentando ex artt.1171 e 1172 cc (azioni di nunciazione), purchè però vi sia un diritto preesistente che sia stato violato ; il bisogno di tutela preventiva urgente che il legislatore ha inteso soddisfare in relazione al diritto di proprietà, giustifica, nella nostra epoca storica, una tutela generalizzata inibitoria o di cessazione dei diritti della personalità, con l’estensione in via analogica (analogia iuris) delle azioni di nunciazione in ossequio ai noti principi costituzionali.
Il problema generale consiste nel verificare se la tutela inibitoria possa ritenersi proponibile per tutti i diritti della personalità : la questio iuris, lasciata senza soluzione dalla sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite (SU 6.10.79 n.5172), è stata risolta in senso negativo dallo stesso Giudice, a sezione semplice, nella sentenza 25 luglio 1986 n.4755.
La dottrina (*********, *********, DI ****, *********-****), sul presupposto che la sola tutela risarcitoria non è in grado di garantire l’inviolabilità dei diritti della persona, ritiene potersi desumere direttamente dal coordinamento delle disposizioni costituzionali di cui agli artt.2 e 24 Cost., il fondamento normativo per la tutela inibitoria atipica dei diritti della personalità.
Ritengo che, sulla base costituzionale di cui agli artt.2 e 24 Cost., possa e debba giustificarsi l’interpretazione estensiva delle disposizioni codicistiche ex artt.1171 e 1172, così come prospettato da ************.
Il Codice Civile e i singoli diritti della personalità
Il diritto all’integrità fisica e alla vita
Il diritto all’integrità fisica è generalmente il primo dei diritti della personalità, essendo la ragione nella collocazione dell’art.5 cc ad apertura del breve elenco tipico che viene considerato sede normativa della categoria in esame, secondo la riduttiva scelta operata dal legislatore del ’42 (********).
Gli atti di disposizione del proprio corpo consentiti dall’ordinamento hanno carattere obbligatorio, ma, in caso di inadempimento, non possono essere eseguiti in forma specifica, bensì è possibile ottenere un risarcimento “per equivalente” della mancata prestazione, rilevando dunque la responsabilità non della lesione del diritto all’integrità fisica, ma dell’inadempimento di una prestazione contrattuale (tipici contratti di disposizione leciti sono quello di baliatico o quello di digiunatore di circo equestre).
Pertanto l’articolo citato si occupa degli atti di disposizione vietandoli “quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”, e quindi il diritto in questione viene configurato nell’ambito dell’art.2043, coordinato con il sistema delle sanzioni penali per i delitti contro l’integrità della persona.
La legge 26 giugno 1967 n.458 ha peraltro derogato alla norma generale posta dal Codice civile, in taluni casi di particolare valore morale e sociale (*******), come nel caso di cd donazione del rene. Ancora la L. 107/90, la quale dispone che il sangue umano non può formare oggetto di alienazione per trarne profitto.
Apparentemente stesse considerazioni bisognerebbe fare in merito al diritto alla vita, collocabile anch’esso nell’alveo normativo della clausola generale della responsabilità aquiliana, in ossequio all’ovvia antigiuridicità del fatto lesivo, suffragata dall’art.2 Cost. e dalle norme penali che puniscono il delitto di omicidio.
In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, e, dunque, di tutela riparatoria, si è posto l’annoso e rilevante problema dei rapporti fra il diritto alla salute e il diritto in parola, del quale il primo è una specie del secondo, entrambi facenti parte dell’ampio genus dei diritti della personalità, in caso di morte della vittima.
Dal punto di vista biologico, la morte si può considerare come l’estinzione dell’individualità corporea, non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazioni tra organi e funzioni : pertanto, la morte è la massima perdita di valore della salute. Queste considerazioni, alla stregua dell’ormai garantito risarcimento del cd danno biologico, porterebbero a ritenere senza dubbio risarcibile la lesione della vita come, ripeto, massima perdita di valore della salute.
Però, nell’ambito delle problematiche relative al cd danno biologico da morte, la dottrina e la giurisprudenza hanno evidenziato che affinchè sorga l’obbligazione risarcitoria è necessario provare, oltre la lesione, il danno e la sua consistenza, ovvero la perdita di valore non patrimoniale subita dalla vittima (CASTRONOVO). A questo proposito, si è distinto tra immediatezza o meno della morte stessa : nel primo caso, proprio l’immediatezza della morte esclude per la vittima il tradursi dell’evento lesivo in perdita di valore (che non significa valore patrimoniale) della vita e, mancando una perdita come conseguenza immediata e diretta ex art.1223, la lesione del diritto non fa sorgere il credito risarcitorio. Nel secondo caso, ovvero qualora la morte non sopraggiunga immediatamente, cioè sia preceduta da una fase intermedia che si configuri come malattia, rileverà, secondo la dottrina e la giurisprudenza, la lesione del diritto alla salute, come tale in grado di significare una perdita per la vittima, traducibile in risarcimento del danno.
Dunque, la lesione del diritto alla vita non consente una tutela riparatoria non patrimoniale, non sorgendo credito risarcitorio.
Infine, è necessario un accenno al diritto di disporre del proprio cadavere.
Innanzitutto, il diritto de quo rileva con riferimento al luogo di sepoltura (ius eligendi sepulchrum) e di destinazione (sepolcro o cremazione).
In secondo luogo, rileva la disciplina del prelievo di organi a scopo di trapianto, novellata dalla recentissima legge 1 aprile 1999 n.91, che ha integralmente sostituito ed abrogato la precedente normativa in materia (L.644/75).
Questa legge dispone che i cittadini hanno l’obbligo di dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti del proprio corpo successivamente alla morte, tenendo presente che la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione, purchè l’Autorità amministrativa competente abbia notificato la richiesta di manifestazione di volontà.
È vietato il prelievo delle gonadi e dell’encefalo e anche la manipolazione genetica degli embrioni ai fini del trapianto di organo.
Il diritto al nome
Gli elementi costitutivi del nome ex art.6, comma 2, sono il cognome e il prenome ; il primo, secondo antica tradizione, è quello del padre ed è assunto dai figli legittimi senza particolari attribuzioni ; il secondo è dativo : il padre, o un suo procuratore speciale o chiunque faccia la dichiarazione di nascita indicano all’ufficiale dello stato civile uno o più prenomi. Se per la scelta sorge contrasto tra i genitori, secondo il Supremo Collegio (sent. 3060/81), l’ipotesi rientra tra i contrasti da risolvere con ricorso al giudice, come materia di rilevante importanza ex art.361, comma 3.
La legge (art.72 OSC) fissa alcuni limiti alla scelta del prenome, poiché è fatto divieto di assegnare al neonato lo stesso nome del padre vivente, di fratelli viventi, un cognome come prenome, né è possibile attribuire prenomi o cognomi (in caso di figlio di genitori ignoti), ridicoli, vergognosi o che rivelino l’origine illegittima.
Gli elementi costitutivi del nome possono essere modificati solo nei casi stabiliti dalla legge, mediante decreto, su domanda e per giustificati motivi, o in seguito a particolari ipotesi previste e disciplinate dalla legge (artt.262, 143bis, 299, 27, comma 3, L. 184/83).
La tutela del diritto al nome viene attuata mediante un’azione inibitoria ex art.7, ovvero un divieto giudiziale contro l’abuso, quando la controversia ha ad oggetto la contestazione del legittimo uso (detta anche azione di reclamo, *******), o quando vi sia usurpazione del nome da parte di un terzo accompagnata da pregiudizio per il vero titolare (detta anche azione di usurpazione, *******).
Al riguardo esiste una nutrita giurisprudenza formatasi in seguito a giudizi instaurati da chi vede il proprio nome attribuito a personaggi di fantasia di films o rappresentazioni teatrali.
La tutela risarcitoria, a mio parere, seguendo l’indirizzo tracciato dalla Corte costituzionale nella questione sul diritto alla salute, è garantita dall’art.2043 in combinato disposto con gli artt. 6, comma 1, 7 cc e 22 Cost., rilevando l’art.2059, rubricato “danno non patrimoniale”, esclusivamente per il danno morale soggettivo.
La sentenza che condanna al risarcimento del danno sofferto dalla vittima, può essere pubblicata su uno o più giornali, “sanzione” alternativa disciplinata dall’art.120 cpc.
Le azioni a tutela del nome possono essere promosse anche da chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente utilizzato, abbia “un interesse fondato su ragioni familiari degne di essere protette”, con ciò si è sottolineato che la norma che accorda la tutela al nome non solo per fini di circoscritta individuazione anagrafica dell’individuo, ma anche per il più ampio interesse familiare alla tutela delle proprie tradizioni, della propria fama e della propria reputazione sociale.
L’art.9 estende la tutela vista allo pseudonimo, ovvero il nome diverso da quello reale adottato da uno scrittore, giornalista et similia, ma solo nel caso in cui abbia acquisito la medesima importanza del nome.
Il diritto all’immagine
L’ultimo diritto previsto nel breve “catalogo” del Codice civile è quello all’immagine, disciplinato dall’art.10, integrato con le disposizioni speciali della legge sul diritto d’autore (L. 633/41) agli artt.96 ss, rendendo più articolata e completa la tutela del diritto in parola.
L’art.10 dispone che qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta fuori dei casi in cui la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro e alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato può disporre l’inibitoria dell’abuso e condannare l’agente al risarcimento del danno.
Come accennato, la normativa codicistica va integrata con le disposizioni della legge sul diritto d’autore, in particolare con l’art.96, il quale dispone che il ritratto o immagine di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio, senza il consenso dell’interessato. Il successivo art.97 pone delle eccezioni, secondo cui il consenso ex art. precedente non occorre quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico occupato, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico : tutte circostanze tassativamente previste e dunque non suscettibili di applicazione analogica.
Assai discussi sono i limiti derivanti dalla notorietà.
Qui rileva sottolineare che il diritto all’immagine delle persone note è giustificato, in assenza del consenso, qualora sia necessario a completare il profilo della personalità complessiva della stessa, in ossequio alla libertà di informazione che ricorre in presenza di un interesse pubblico alla divulgazione (*******).
Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che, nel caso di persone note, l’immagine costituisce peraltro anche un bene in senso giuridico-economico, che è leso dall’uso indebito che un terzo ne faccia a scopo commerciale, con conseguente obbligo di risarcire il maggior pregiudizio che ne deriva.
I diritti della personalità di “fonte” giurisprudenziale
Il diritto all’identità personale
Con la sentenza n.3769 del 22 giugno 1985, la Corte di cassazione ha riconosciuto, sulla base normativa di cui all’art.2 Cost., il diritto all’identità personale, precisando che “l’identità personale integra un bene essenziale e fondamentale della persona, quello di vedersi rispettato da terzi il suo modo di essere nella realtà sociale” ; lo scopo della tutela del diritto in parola è quello di salvaguardare intatto il profilo ideale della persona attraverso le rappresentazioni proposte dai mezzi di informazione e dai soggetti che divulgano notizie, in piena libertà di azione e di espressione (****).
Secondo l’attenta analisi di **** che, in queste pagine, può riassumersi, l’interesse leso coincide con l’immagine ideale che l’individuo esterna nella sua dimensione sociale, in relazione alla connaturata mutevolezza della sua identità. A differenza del nome e dell’immagine, dei fatti privati (che interessano altro diritto, quello alla riservatezza), appartenendo alla cronistoria personale o familiare, sono eventi (relativamente) immodificabili, l’identità in parola cambia con l’evoluzione culturale ed interiore della persona, soggetta a continui revirements intellettuali. Su questa premessa ci si chiede se esista un diritto all’oblio, alla dimenticanza, poiché la maturazione personale ha modificato radicalmente la propria identità (****) : per rispondere al quesito si deve fare riferimento al criterio, sancito dall’art.41 Cost., dell’interesse sociale, così come indicato per la divulgazione dell’immagine di persone note.
Come detto, il fondamento normativo del diritto all’identità personale viene individuato dalla Cassazione nell’art.2 Cost., dandone un’interpretazione innovativa nel quadro della nostra tradizione, considerandolo immediatamente precettivo, osservando che la finalità della norma costituzionale in esame è quella di tutelare la persona integralmente e in tutti i suoi modi di essere essenziali ; essa si pone al centro dell’ordinamento costituzionale costituendo una clausola aperta e generale di tutela del libero ed integrale svolgimento dell’individuo.
In merito alla natura giuridica del danno risentito è da segnalare la sentenza del Pretore di Roma del 3 ottobre 1986 (caso Mussolini), nella quale il giudice romano ha avuto modo di osservare che il danno all’identità personale è in re ipsa, e discende dal semplice fatto dell’alterazione dell’immagine esterna, alla stregua della costruzione giurisprudenziale del danno biologico come lesione del diritto alla salute. Ergo, il risarcimento ha funzione essenzialmente satisfattiva dell’interesse leso dal fatto del responsabile e la liquidazione è necessariamente equitativa (così come nella liquidazione del danno biologico v. oltre).
Il diritto alla salute
Il danno alla persona, nella sua configurazione tradizionale, che lo riduceva all’aspetto patrimoniale del guadagno mancato in seguito alla lesione e al danno morale, pecunia doloris, è risultato ad un certo punto manchevole e contraddittorio (CASTRONOVO). Non ne emergeva la lesione all’integrità fisica e psichica alla salute quale autonomo aspetto del danno alla persona, che andava messo autonomamente in conto nella liquidazione del danno in parola.
Rilevava in tal senso, una precisa norma costituzionale, l’art.32, il quale nell’attribuire alla salute la fondamentale rilevanza costituzionale, imponeva il coerente riconoscimento della lesione inferta a tale situazione soggettiva e ne rendeva il risarcimento ut sic necessitato.
Questo esito trovava un ostacolo nella difficoltà rappresentata dalla traduzione in termini patrimoniali, di una lesione per natura non patrimoniale, interessando direttamente la persona, insuscettibile di valutazione economica. La disciplina codicistica, come è noto, non ignora il risarcimento del danno non patrimoniale, ma i limiti in cui l’art.2059 lo racchiude, impediscono la risarcibilità del danno in parola. Rimarrebbe l’art.2043 che, nella clausola generale “danno ingiusto”, certamente potrebbe dare una disciplina al danno de quo. La norma, però, secondo l’interpretazione tradizionale, è stata dettata con chiaro riferimento al solo danno patrimoniale. Dunque, le due norme codicistiche in tema di responsabilità aquiliana, vengono alternativamente impugnate per illegittimità costituzionale ex art.32 Cost.
La Corte delle leggi decide contemporaneamente sulle questioni prospettatele dai giudici a quo, con due sentenze che considerate sistematicamente, danno un risultato contraddittorio e comunque insoddisfacente (Corte cost. 26.7.79 nn.87 e 88).
Una inevitabile nuova questione di legittimità viene avanzata innanzi alla Consulta, che la decide con la fondamentale sentenza 14 luglio 1986 n.184.
Con questa decisione, la Corte, collocandosi nel solco tracciato dalla Cassazione (Cass. 6.6.81 n.3675, Cass. 6.4.83 n.2396), afferma la natura non patrimoniale del danno alla salute, rifuggendo tuttavia dall’art.2059 sulla base dell’assunto che tale norma riguardasse esclusivamente il danno morale soggettivo, e ritiene applicabile direttamente la norma risultante dal combinato disposto degli artt.2043 cc e 32 Cost.
1) Il risarcimento del danno biologico in conseguenza della morte del congiunto
La Corte torna ad occuparsi del diritto alla salute e della risarcibilità del relativo danno, con riferimento al cd danno biologico da morte, del quale ho analizzato gli aspetti riguardanti il diritto alla vita, verificando l’irrisarcibilità del danno non patrimoniale mortis causa alla vittima.
Il problema che qui rileva è la risarcibilità del danno alla salute per la morte del congiunto. La questione venne posta dal Tribunale di Firenze (giudice a quo) con l’ordinanza 10 novembre 1993 n.2879, il quale, dopo aver escluso la risarcibilità del danno biologico (come danno alla vita) iure successesionis, verifica, in alternativa, la risarcibilità del danno biologico che i familiari possano domandare iure proprio, a causa della morte del congiunto.
Come mette in luce **********, sotto una denominazione come “risarcimento del danno alla salute in conseguenza della morte del congiunto” si celano due eventi distinti, l’uno riguardante la lesione della salute (rectius, vita) della vittima, l’altro la lesione della salute psichica dei “superstiti”, pertanto, non si tratta di ipotesi alternative, ma possono coesistere, salvo poi la irrisarcibilità del danno da morte immediata.
Ora, l’analisi di questa situazione, sulla base normativa dell’art.2043 (conformemente all’interpretazione giurisprudenziale) e una volta provato il danno alla salute psichica del congiunto, mette in evidenza l’irrisarcibilità della lesione sofferta che sul piano della pura causalità appare certamente connessa con la condotta lesiva del diritto alla vita della vittima, ma è il requisito della colpevolezza ad impedire un risarcimento iure proprio della lesione in parola, ponendosi i familiari (vittime del fatto lesivo della salute psichica) oltre il confine posto dallo stesso criterio di imputazione ex art.2043. Per questi motivi, il giudice a quo fiorentino impugna l’articolo citato per contrasto con l’art.32 Cost e, in via subordinata, l’art.2059.
La Corte costituzionale (Corte cost. 27.10.94 n.372), non intendendo mutare il referente normativo del danno biologico nell’art.2043, ascrive l’ipotesi particolare della lesione della salute psichica dei familiari in seguito alla morte del congiunto, all’art.2059, poiché il danno alla salute di cui si discute è il momento finale di un processo patogeno originato dal turbamento psichico che sostanzia il danno morale soggettivo. Pertanto la Corte afferma che, in questa particolare ipotesi, il danno psichico e il danno morale soggettivo hanno radici comuni, sicchè, come il secondo trova risarcimento, anche il primo, a fortiori, deve averlo. Ovvero, il danno morale si situa tra due danni alla salute, uno che lo precede, l’altro che può seguirlo, mentre il primo diventa rilevante in quanto cagionato da un fatto di responsabilità ex art.2043, il secondo rileva alla stessa stregua del danno morale se, come quest’ultimo, sia conseguenza di un fatto che la legge contempli come uno dei casi previsti normativamente (art.2059).
2) La determinazione quantitativa della lesione al diritto alla salute e la cd clausola generale “danno biologico”
La non patrimonialità della lesione alla salute, così come per ogni diritto della personalità, implica che il relativo risarcimento debba legarsi all’equità, secondo la regola di cui all’art.1226, che non è arbitrio, in quanto necessita di motivazione.
I criteri di valutazione del quantum del danno biologico, seppure l’unico utilizzabile è quello equitativo (Cass. 85), si differenziano sulla diversa base argomentativa di deduzione risarcitoria, ovvero :
bullet il criterio del triplo della pensione sociale di cui all’art.4 della L. 39/77, la quale offe una base di calcolo per la determinazione del cd valore economico convenzionale dell’uomo, nella parte in cui stabilisce che il limite invalicabile è costituito da un reddito comunque non inferiore a tre volte l’ammontare della pensione sociale ;
bullet il criterio della pura valutazione equitativa da parte del Giudice di una somma per ogni punto percentuale di lesione permanente residuata alla vittima (che oscilla dalle £ 500.000 a £ 5.000.000, Trib. ********** 1992)
bullet il criterio della valutazione secondo tabelle predisposte dai singoli Tribunali e che variano a seconda del sesso e dell’età della vittima del fatto lesivo. A questo proposito, è da segnalare il PDL n.3303 che predispone una tabella nazionale di riferimento per la quantificazione del danno biologico, senza sacrificare il giudizio equitativo dell’organo giudicante.
Il diritto alla salute è fonte, secondo la prassi giurisprudenziale, di molti diritti, considerando lo ius de quo come una clausola generale alla stregua dell’art.2043, sussumendo, pertanto, nell’alveo del danno biologico, situazioni soggettive diverse non identificabili sic et simpliciter con la lesione in esame.
Così, una assimilazione di tal genere è stata operata dalla Cassazione (1986) nel caso della lesione all’integrità fisica di un coniuge, dalla quale i giudici hanno ricavato un diritto dell’altro coniuge al risarcimento del danno ex art.2043 per la mancata attuabilità del debitum coniugale ; ancora, il Tribunale di Verona (1990) ha riconosciuto un “diritto a nascere sani”, dal quale si crede debba essere escluso il cd danno da procreazione nel caso di malattia ereditata dal genitore, perché per aversi lesione è necessario che al momento del fatto già esista il bene che viene danneggiato, mentre la vita in salute, che è il bene protetto, non preesisteste all’atto procreativo, ma necessariamente segue e, dunque, la procreazione non può mai essere un fatto lesivo ed illecito (*******). Sono invece risarcibili le lesioni alla salute del nascituro subite durante la vita prenatale.
La L. 194/78 giustifica l’interruzione della gravidanza in chiave di tutela della salute fisica e psichica della donna, pertanto, la giurisprudenza ritiene lesiva del suddetto diritto, la “vita indesiderata”, ovvero il difettoso intervento abortivo seguito dalla nascita del figlio. Il relativo risarcimento non va commisurato alle spese del mantenimento, ma in via primaria secondo equità o, se la salute psichica è lesa in conseguenza delle difficoltà economiche conseguenti alla nascita del figlio, in quella somma di danaro necessaria a rimuoverle.
c) Il diritto alla riservatezza
Note introduttive e la sentenza del 27 maggio 1975 n.2199 della Corte di cassazione
L’esigenza di una tutela della riservatezza, o tutela dell’intimità privata ********O), si è fatta sempre più viva nella coscienza sociale, la cui difesa è considerata come uno dei fini primari ed essenziali dell’ordinamento civile.
La sfera intima della vita personale e familiare era un tempo salvaguardata con la persecuzione del reato di diffamazione, con esclusivo riguardo alle offese contro l’onore, andando oltre la particolare tutela del nome, dell’immagine reale, del segreto delle comunicazioni private. Ad un certo punto, l’esigenza civile in parola si spinse oltre il confine dell’onore, riconoscendosi al singolo, il diritto al decoro individuale collegato alla sua reputazione, che può subire pregiudizio solo dalla divulgazione dei fatti privati : tutela garantita penalmente dalla legge 8 aprile 1974 n.98, la quale ha sancito la illiceità di atti con i quali si procurano informazioni e notizie attinenti alla sfera privata della vita personale e familiare del singolo (*********).
Nel 1975, la Corte di cassazione adottò la sentenza n.2199, espressione definitiva della ormai matura esigenza civile di tutela della privacy : un vero e proprio revirement giurisprudenziale quanto all’an e al quomodo della tutela della riservatezza.
Infatti, il Supremo Collegio, che in passato aveva categoricamente escluso l’ammissibilità di un diritto alla riservatezza nel nostro ordinamento (SU 22.12.56 n.4487) – argomentando dalla constatazione che “nessuna disposizione di legge autorizza a ritenere che sia stato sancito” – , è poi passata ad affermare che un tale diritto rientra a pieno titolo tra i “beni fondamentali riconosciuti e garantiti” dalla Carta costituzionale e dalla coscienza sociale.
Il diritto alla riservatezza, sulla base normativa di rango costituzionale, così come individuata dalla Suprema Corte, ha certamente una sfera più ampia che spinge i suoi limiti ben al di là del semplice riserbo dell’intimità domestica, per ricomprendere tutte quelle situazioni e vicende legate alla vita privata (personale e familiare), le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, “non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile”.
Pertanto, il diritto alla privacy si svincola dal decoro e dalla reputazione, per ancorarsi all’irrilevanza sociale delle vicende strettamente familiari.
Per questi motivi, si ritenne limitativa ed insufficiente la tutela penale garantita dalla legge del 1974 al diritto alla riservatezza, poiché la Cassazione definì l’ambito del diritto de quo, distinguendolo, in primis, dal diritto all’onore, alla reputazione, all’integrità morale, al quale è sempre stata riconosciuta la tutela sia dal punto di vista penale (con la previsione dei delitti di ingiuria e diffamazione) che civile ex art.2043 ; in secundis, dal diritto al riserbo della vita domestica, così come tutelato dalla legge del 1974 modificativa di disposizioni del Codice penale.
La legge sul trattamento dei dati personali (L. 675/96). Il risarcimento del danno non patrimoniale.
La Gazzetta Ufficiale ha pubblicato l’8 gennaio 1997 con il n. 675, il testo della legge sulla “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”.
L’approvazione del controverso provvedimento di legge è il frutto di oltre dieci anni di appassionato dibattito e segna un decisivo passo in avanti a favore della tutela della privacy delle persone. Alla legge citata si accompagna la delega al Governo per la disciplina dei servizi telematici e della connettività ad Internet. Si tratta, in sostanza, di due provvedimenti “dovuti”, poiché era necessario colmare il vuoto legislativo esistente tra l’Italia e gli altri Paesi Europei sulla base della Convenzione di Strasburgo del 1981 e dell’Accordo di Schengen del 1985 sulla libera circolazione delle persone.
Difatti, come si può leggere negli Atti parlamentari relativi alla legge in commento (Camera dei deputati, PDL 1580), nel 1989, il Parlamento italiano con legge 21 febbraio 1989 n.98, ha autorizzato la ratifica della Convenzione n.108 sulla “Protezione delle persone rispetto al trattamento dei dati di carattere personale”, adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981, entrata in vigore il 1° ottobre 1985.
Fino all’emanazione della legge n.675, l’Italia non ha potuto depositare lo strumento di ratifica poiché, ai sensi dell’art.4 della Convenzione, le Parti sono tenute ad adottare previamente, nel diritto interno, le misure necessarie per dare effetto ai principi fondamentali per la protezione dei dati denunciati nella Convenzione.
L’assenza, fino alla promulgazione della legge citata, di una legislazione generale in materia ha condizionato la ratifica dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 sulla “Soppressione graduale dei controlli alle frontiere dei Paesi aderenti”, ratifica autorizzata dalla legge 30 settembre 1993 n.388.
La normativa di cui alla legge n.675 ha recepito la Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.
L’evoluzione tecnologica del settore telematico in genere verso sistemi di elaborazione sempre più potenti e sempre più a basso costo ha segnato, in particolare negli ultimi dieci anni, il passaggio dall’informatica tradizionale, intesa come automazione dei processi, in cui alle macchine veniva affidato il compito di eseguire attività meramente ripetitive, lasciando all’uomo funzioni di controllo, alla informatica intesa come trattamento dei dati, al fine di estrarne un valore aggiunto (*******).
Si comprende allora il motivo per il quale il diritto fondamentale alla riservatezza veniva a trovarsi ulteriormente minacciato dall’eventuale malagestione delle informazioni legate alla propria vita personale.
La legge n.675 disciplina il trattamento dei dati relativi a persone od enti.
In particolare, la nuova disciplina garantisce il singolo da qualunque operazione o complesso di operazioni, finanche, la diffusione di qualunque informazione relativa alla persona, distinguendo tra il trattamento dei semplici dati personali e quello dei cd dati sensibili.
Per la gestione dei primi, è necessario che l’interessato venga informato, oralmente o per iscritto, circa le finalità del trattamento, al momento della raccolta dei dati, che non devono eccede le stesse finalità ; inoltre, i dati devono essere esatti ed aggiornati e possono essere diffusi solo con il consenso dell’interessato, espresso liberamente in forma scritta ad probationem, salvo eccezioni previste dalla legge (ad es., trattamento dei dati da parte dei giornalisti o a fini di giustizia).
Per il trattamento dei cd dati sensibili (stato di salute, vita sessuale, origini razziali o etniche, …) è necessario il previo consenso necessariamente scritto ad substamtiam dell’interessato e l’autorizzazione del Garante, salvo, ad eccezione dei dati sulla salute e la vita sessuale, il diritto di cronaca per i giornalisti, se l’informazione è essenziale riguardo a fatti di interesse pubblico, con il rispetto comunque delle regole imposte dal codice deontologico di autodisciplina. L’interessato ha diritto di accedere e gestire ai propri dati personali, semplici e sensibili.
La tutela civile del diritto alla riservatezza, dal lato del trattamento dei dati personali, è garantita dal richiamo fatto dall’art.18 dell’art.2050, in tema di responsabilità da attività pericolose. Com’è noto, la norma codicistica in parola prevede che l’esercente un’attività pericolosa (nel caso di specie, il trattamento dei dati), sia tenuto al risarcimento del danno “se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” stesso. Ergo, siamo di fronte ad un’inversione dell’onere probatorio, in base alla quale il titolare del trattamento, per andare esente da responsabilità deve fornire una prova liberatoria dal contenuto “diabolico”. Secondo l’opinione ormai consolidata di dottrina e giurisprudenza, la prova è raggiunta allorchè si sia dimostrato di aver adottato tutte le cautele che la migliore scienza tecnologica ponga a disposizione.
In questa sede è opportuno richiamare un altro aspetto che ha destato accesi dibattiti e interessanti discussioni : l’art.29, comma 9, prevede testualmente che “il danno non patrimoniale è risarcibile anche nei casi di violazione dell’art.9” (modalità di raccolta dei dati).
E’ noto che la disposizione generale in tema di danno non patrimoniale è l’art.2059, al quale, ormai per consolidata giurisprudenza (si veda la vicenda del danno biologico), si riferisce esclusivamente il danno morale soggettivo e la sua particolare estensione, secondo l’interpretazione che ne ha data la Corte delle leggi, alla vicenda del danno alla salute dei congiunti in conseguenza della morte del familiare.
Pertanto, la previsione generalizzata della risarcibilità del danno non patrimoniale per le violazioni della legge in commento, si pone, a mio parere, nel solco tracciato dalla ormai tradizione giurisprudenziale che riconosce e garantisce la tutela riparatoria dei diritti della personalità, necessariamente non patrimoniali, sulla base giuridico-costituzionale e nell’ambito normativo dell’art.2043, non più considerato riferibile ai soli danni patrimoniali, ma oramai, per consolidata giurisprudenza, estensibile anche alle lesioni non patrimoniali. Proprio per questi motivi, ritengo che la previsione generalizzata dell’espressione contenuta nel nono comma dell’articolo 29 della legge in commento debba interpretarsi come conferma implicita del revirement giurisprudenziale relativo alla tutela risarcitoria dei diritti non patrimoniali ex art.2043 come clausola generale di responsabilità.
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