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Di Carla Ottonello
Nella recente sentenza 25008/2001 la Corte di Cassazione ha affermato che la rivelazione di segreti scientifici e industriali sanzionata dall’art. 623 cp. può riguardare anche il know how aziendale, ritenendo applicabile la norma anche alla fattispecie di divulgazione di know how da parte di ex dipendenti di una società a vantaggio di altra società concorrente.
Il know how, definito dalla stessa Corte come “complesso delle informazioni industriali necessarie per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un impianto”, assume rilevanza in due settori-chiave dell’attività economica privata: quello tradizionale, interno all’impresa, nell’ambito della quale i dipendenti vengono a contatto con una serie di conoscenze che non sono brevettate, o addirittura non sono brevettabili, alle quali corrisponde un valore economico in quanto non sono generalmente accessibili al pubblico e ricadono nella sfera di controllo di un soggetto-imprenditore che ne dispone in condizioni di monopolio di fatto.
L’altro settore in cui il know how svolge un ruolo sempre più rilevante attiene alle forme di collaborazione all’esterno dell’unità economica imprenditoriale, e dunque in un contesto di relazioni inter-aziendali, nel quale, dato il suo valore economico, il know how diventa sempre con maggiore frequenza oggetto autonomo di scambio fra le parti.
Entrambi i campi di rilevanza del know how interessano prevalentemente il diritto civile-commerciale e meritano una trattazione separata.
L’intervento della Cassazione ha munito di sanzione penale, e dunque riconosciuto meritevole di tutela non solo civilistica, ma anche repressivo-penale (col ricorso all’art. 623 cp.), la rivelazione da parte di ex dipendenti di una società in favore di altra concorrente, del complesso di conoscenze ed esperienze tecniche acquisite, tali da consentire la progettazione e realizzazione di una apparecchiatura dello stesso tipo e dotata delle stesse funzionalità ed applicazioni pratiche di quella impiegata della prima società presso la quale prestavano la propria collaborazione.
Già in sede civilistica, una norma -peraltro, interpretata da taluno come onnicomprensiva- impone l’obbligo di fedeltà al prestatore di lavoro subordinato (art. 2105 cc.), enunciando in modo espresso tre ipotesi di sua violazione: l’esercizio di attività concorrente, la divulgazione di notizie segrete e l’uso delle medesime. Tali ipotesi sono fonti di responsabilità disciplinare -che può sfociare nel licenziamento per giusta causa- e responsabilità civile -con il conseguente obbligo al risarcimento del danno.
L’obbligo di riservatezza così tracciato, secondo dottrina e giurisprudenza, riguarda tutte le notizie attinenti all’organizzazione e alla produzione dell’impresa, la cui utilizzazione esterna o divulgazione possa essere pregiudizievole alla medesima.
Nell’ambito dei segreti aziendali si fanno rientrare sia le informazioni “esclusive” dell’azienda -perché brevettate e dunque oggetto di un diritto assoluto, cui è riservata dalla legge una tutela erga omnes per il titolare (art. 2584 cc. e ss.), ma anche non brevettate per espressa scelta dell’interessato, o non brevettabili (es. il know how)- sia conoscenze c.d. neutre, la cui diffusione potrebbe ugualmente arrecare nocumento all’attività economica svolta.
L’ambito di applicazione della norma in parola, tuttavia, non sembra coincidere con quello di cui all’art. 623 cp.
Invero, mentre la giurisprudenza ritiene sussistente l’obbligo civilistico di fedeltà solo in costanza del rapporto di lavoro, la norma penale prescinde dal medesimo, permanendo l’obbligo al segreto c.d. industriale imposto in sede penale anche oltre l’estinzione del rapporto di lavoro.
Da qui emerge il dato per cui, sebbene gli artt. 623 cp. e 2105 cc. siano fortemente correlati, la prima disposizione ha un campo di applicazione notevolmente più vasto.
A ciò si aggiunga che, per quanto attiene ai soggetti responsabili, mentre parte della dottrina li identifica esclusivamente nei lavoratori dipendenti, argomentando dal referente esplicito di cui all’art. 2105 cc. e dalla esistenza di leggi speciali che impongono (e sanzionano) analogo dovere ad altre categorie di lavoratori -in assenza delle quali previsioni si esclude l’applicabilità della fattispecie di cui all’art. 623 cp., in ossequio al principio di tassatività della norma penale-, diversamente, altra parte ritiene che ai fini dell’individuazione del soggetto attivo del reato rileva esclusivamente la “professionalità” del rapporto da cui discende l’acquisizione della notizia destinata a rimanere segreta, risultando la formula normativa estremamente ampia.
Dunque, la norma penale interviene a rafforzare la tutela della correttezza dei rapporti fra imprenditori e collaboratori, anche oltre i limiti tracciati in sede civilistica dall’art. 2105 cc, e anche oltre il patto di non concorrenza previsto dall’art. 2596 cc, generalmente ritenuto applicabile solo ai rapporti fra imprenditori concorrenti.
Proseguendo l’analisi dell’art. 623 cp. e della portata innovativa della recente sentenza della Cassazione, non si può prescindere dalla trattazione delle principali ricostruzioni dell’interesse tutelato dalla norma penale, dalla ratio della medesima, aspetto strettamente correlato alla sfera applicativa della stessa.
La interpretazione più estensiva intravede il bene giuridico tutelato nella libertà individuale di ricerca scientifica, e dunque ritiene tutelata qualsiasi scoperta o invenzione scientifica, suscettibile o no di applicazione industriale, rilevante o meno dal punto di vista economico.
La tesi più restrittiva, invece, ritiene che la norma sia applicabile solo alle conoscenze idonee all’applicazione industriale, onde il segreto sarebbe tutelato solo laddove funzionale alla successiva realizzazione di una vera e propria invenzione industriale.
La sentenza in commento della Cassazione non prende posizione a favore dell’una o dell’altra opzione ermeneutica, concentrandosi piuttosto su un aspetto comune ad entrambe: per la Cassazione, oggetto di tutela ex art. 623 cp. non è soltanto la singola applicazione industriale, la composizione del prodotto immesso sul mercato, ma il “saper fare” del medesimo, e dunque tutto il processo che conduce alla sua realizzazione, che consta del singolo processo produttivo non disgiunto dalla complessiva organizzazione imprenditoriale, in cui rientrano le apparecchiature, i mezzi, gli uomini e le competenze tecniche impiegate.
Per la Cassazione, bene tutelato dalla norma è il diritto personale dell’imprenditore alla organizzazione dell’attività economica, a tutela della capacità produttiva dell’impresa di cui è titolare sul mercato.
In tale prospettiva, la Corte ha ribadito che la individuazione delle notizie destinate a rimanere segrete non può che competere all’avente diritto al segreto, e dunque all’imprenditore, scaturendo dal suo apprezzabile interesse giuridico alla conservazione del segreto su determinate conoscenze e dalla funzionalità del segreto sulle medesime ai fini della tutela dell’interesse protetto, e dunque non frutto di mero arbitrio dell’imprenditore.
Infine, la Corte ha ribadito che i caratteri di novità ed originalità delle conoscenze divulgate non sono essenziali ai fini dell’irrogazione della sanzione, né è rilevante la reperibilità del prodotto cui si riferisce il segreto sul mercato.
Dunque, la segretezza delle informazioni non va intesa in senso stretto, per essere le medesime sconosciute o non ottenibili al di fuori della azienda, ma, argomentando a contrario dal testo della sentenza, sono segrete le conoscenze che non sono generalmente note o facilmente accessibili, e dunque che arrechino all’imprenditore nel processo produttivo un vantaggio temporale non irrilevante rispetto alla lunga e costosa sperimentazione o messa a punto del prodotto o del procedimento di fabbricazione che occorre ad un concorrente.
Tale accezione del requisito della segretezza delle informazioni che formano oggetto del know how si rinviene nel Regolamento 556/89, all’art. 1 §7, n.2, confermato sostanzialmente dal nuovo Regolamento 240/96, e dunque nella normativa di fonte Comunitaria avente ad oggetto, il primo esclusivamente gli accordi di licenza di know how, il secondo la disciplina unitaria degli accordi di trasferimento della tecnologia (termine, in cui vengono pacificamente comprese sia le licenze di brevetti, sia quelle di know how, sia gli accordi misti di licenza di brevetto e di know how).
La portata del know how fuoriesce dall’ambito dei rapporti interni fra imprenditore e suoi collaboratori appena esaminato, in quanto l’“insieme di informazioni tecniche segrete, sostanziali e identificate in una qualsiasi forma appropriata” (così il know how viene definito nei Regolamenti citati) si è rivelato nella pratica del commercio internazionale un bene economico di pertinenza dell’impresa, dotato di tale valore economico, da rappresentare un prezioso e frequente oggetto di scambio fra imprese.
La nozione di know how nel commercio internazionale è assai ampia: vi rientrano le esperienze (di fabbrica o di ricerca), i metodi, i procedimenti relativi a tecniche produttive (c.d. know how industriale, impiegato in fase di produzione) o alla commercializzazione di prodotti (c.d. know how commerciale, riferito allo stadio della distribuzione), insieme di conoscenze non brevettate o non brevettabili, o perché “minori”, accessorie rispetto ad una invenzione brevettata, o perché non sufficientemente originali per meritare la tutela brevettuale, o perché relative a settori in cui la rapidità dell’evoluzione della tecnica non rende conveniente il ricorso al brevetto.
Tali conoscenze -in “pacchetti globali” di tecnologia, o in settori tecnici più specifici- vengono sovente fornite in luogo dei propri prodotti da imprese che ne sono detentrici, attraverso la stipulazione di contratti di licenza: il licenziante (concedente o licensor) concede al licenziatario (licensee) il diritto di sfruttare conoscenze tecniche di cui ha il monopolio di fatto -trattandosi di know how segreto, o comunque difficilmente reperibile- per un periodo determinato e contro pagamento di una remunerazione stabilita in una somma fissa o royalties calcolate sul fatturato o sul venduto.
La natura del contratto non è pacifica in dottrina: taluno, ritenendo prevalente l’eventuale previsione di una attività di assistenza tecnica presso il licenziatario o di formazione del suo personale, ha ritenuto trattarsi di appalto di servizi o di contratto d’opera, eventualmente misto a contratto atipico, altri ritengono trattarsi in ogni caso di contratto atipico avente ad oggetto reciproche prestazioni di fare e dare: per il concedente la comunicazione delle informazioni, per il concessionario la corresponsione del corrispettivo e il mantenimento del segreto. Quest’ultimo obbligo di segretezza, oltre a scaturire dal generico obbligo di buona fede nell’esecuzione dei contratti di cui all’art. 1375 cc, permea la causa stessa del contratto, in quanto la segretezza, nella sua accezione più ampia sopra visitata, è un carattere insopprimibile delle conoscenze in cui si sostanzia il know how e direttamente proporzionale al suo valore economico, dunque un obbligo che, indipendentemente dalla espressa previsione in una clausola contrattuale -peraltro immancabile nei contratti di licenza di know how-, è connaturato al contratto medesimo.
La non uniformità delle teorie sulla natura del contratto, fonte di non poche conseguenze in tema di normativa applicabile all’accordo, non è facilmente superabile con riferimento alla normativa interna italiana, che non disciplina espressamente il know how ed i contratti che ne dispongono, a fronte di una dettagliata disciplina comunitaria dei medesimi, che, come ribadito dalla L. 287/90 (“Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”), essendo di fonte Regolamentare, ha una validità ed una applicazione diretta all’interno dei singoli ordinamenti nazionali.
La normativa comunitaria citata è intervenuta a regolamentare un fenomeno –gli accordi di licenza di know how fra imprese- che suscitava in principio forte diffidenza a livello istituzionale, in quanto ritenuto lesivo dei principi di libertà della concorrenza affermati solennemente nello stesso Trattato istitutivo della Comunità.
Il Regolamento del 1989 ed il successivo del 1996 -oggi vigente- hanno avuto il pregio di riconoscere in generale il ruolo e l’autonomia del know how, nonché la funzione economica del monopolio di fatto vantato su di esso ai fini del progresso economico -essendo considerato di forte stimolo per gli sforzi di ricerche nei settori in cui l’evoluzione tecnica è più rapida- e tuttavia sono intervenute applicando numerosi limiti agli accordi di licenza, in modo da circoscriverne il campo di legittimità.
Fra le clausole contrattuali e relativi obblighi che ne formano oggetto, considerati legittimi e dunque degni di essere ammessi perché ritenuti non restrittivi della concorrenza, si leggono (art. 2
Reg. 556/89, rimasto sostanzialmente immutato con il Reg. 240/96):
bullet l’obbligo per il licenziatario di non divulgare il know how comunicatogli dal concedente, che può essere imposto anche per il periodo successivo alla scadenza dell’accordo per tutelare il valore economico delle conoscenze trasmesse, valore che è commisurato al vantaggio concorrenziale che la segretezza attribuisce alle parti;
bullet il divieto per il licenziatario di concedere sublicenze o di cedere la licenza a terzi;
bullet l’obbligo per il licenziatario di non sfruttare il know how sotto licenza dopo la scadenza dell’accordo, finché il know how rimanga segreto (c.d. post term use ban), considerato connaturato alla causa del contratto stipulato, che è di licenza e non di cessione;
bullet la clausola che limita lo sfruttamento delle informazioni oggetto della licenza ad una o più applicazioni tecniche, o ad uno o più mercati di prodotti;
bullet l’obbligo, a carico del licenziatario, di non utilizzare il know how del licenziante per costruire impianti per terzi.
Si tratta di obblighi rilevanti sul piano civilistico-commerciale, e dunque l’eventuale inadempimento è fonte di responsabilità contrattuale, cui taluno associa altresì una una tutela rafforzata indiretta, ricorrendo alla applicazione dell’art. 623 cp.
L’intervento della Cassazione con la sentenza 25008/2001, ampliando il concetto di “applicazione industriale” tutelato in sede penale, fino ad includere il know how, rende tale tesi più suggestiva.
Invero, il bene giuridico tutelato dall’art. 623 cp. e identificato dalla Corte nella organizzazione imprenditoriale nella sua accezione più ampia, comprende senz’altro il nucleo di conoscenze ed informazioni che formano oggetto del contratto di licenza di know how. Inoltre, la violazione dell’obbligo di segretezza (che è ipotesi risibile, perché non conveniente per la parte, in costanza di contratto, ma credibile successivamente alla scadenza della licenza, essendo possibile che il concessionario continui arbitrariamente ad usare le conoscenze acquisite a proprio vantaggio) o di taluno degli obblighi tassativamente ammessi dal Regolamento in vigore, arreca un nocumento non irrilevante al monopolio di fatto detenuto dall’imprenditore concedente sul mercato e alla sua complessiva capacità produttiva.
Se la ratio di tutela resta quella sopra analizzata, né vengono ad essere modificati il bene giuridico o il comportamento dell’agente descritti nella fattispecie astratta, per l’accoglimento della tesi in parola è altresì determinante l’interpretazione dei requisiti relativi al soggetto attivo del reato.
Dalla lettera dell’art. 623 cp., il divieto di divulgazione del segreto industriale colpisce coloro che “in ragione del proprio stato o ufficio, professione o arte”, lo abbiano conosciuto. Nel caso del licenziatario, l’acquisizione è lecitamente scaturita dalla esecuzione del contratto di licenza di know how.
Nell’art. 623 cp. il legislatore ha rinunziato alla elencazione delle categorie professionali tenute all’obbligo del segreto, tracciando piuttosto dei criteri generali relativi a situazioni personali nelle quali può radicarsi l’obbligo di segretezza. Accanto alle categorie di collaboratori legati o meno dal vincolo di subordinazione all’imprenditore, relativamente alle quali ci si è soffermati –i quali sono vincolati più che altro ad un obbligo di fedeltà nei confronti del medesimo, ed afferenti alla vita interna dell’impresa-, la genericità della disposizione non sembra contrastare con l’interpretazione che fa rientrare fra i possibili autori del reato anche la parte del contratto di licenza di know how, per la particolare condizione giuridica in cui versa, in quanto cessionario di informazioni il cui valore economico è condizionato alla loro segretezza.
Se si accetta tale ricostruzione, la portata innovativa della sentenza della Cassazione sul know how non esplica i suoi effetti solo nel quadro delle dinamiche interne dell’impresa, ma anche quelle esterne, dotando di una sanzione più incisiva comportamenti violativi degli obblighi di segretezza imposti al licenziatario nel contratto di licenza di know how, con notevoli ricadute sulla diffusione di tale strumento pattizio, la cui utilità ai fini del progresso scientifico e tecnologico è pacificamente riconosciuta nella pratica commerciale.
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