La tutela della disoccupazione tra istituti previdenziali ed assistenziali

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Il nuovo trattamento unificato di disoccupazione presenta requisiti di eleggibilità più accessibili, pari a tredici settimane di contribuzione negli ultimi quattro anni e trenta giorni di lavoro effettivo negli ultimi dodici mesi, e questo amplia il campo di applicazione della protezione, benché il nuovo requisito di attualità contributiva possa lasciare fuori dalla tutela le attività caratterizzate da forte discontinuità.

La contropartita è nella modifica in peius della copertura figurativa sulla posizione contributiva del lavoratore, per la quale vengono posti dei massimali di importo, e soprattutto nella ridefinizione dei criteri di durata della protezione.

Sommario.

  1. Ambito di applicazione della Naspi e finanziamento dell’istituto
  2. Riconoscimento delle dimissioni per giusta causa quale ipotesi legittimante la fruizione del trattamento
  3. Eliminazione del requisito dell’anzianità assicurativa e ampliamento della base di calcolo dell’anzianità contributiva
  4. L’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto
  5. L’assegno di disoccupazione post ASpI
  6. A piccolissimi passi verso la universalizzazione della tutela per la disoccupazione?
  7. Perplessità senza vizi formali nel confronto delle sanzioni per il Reddito di cittadinanza e per le indennità di disoccupazione
  8. Permanenza in vigore per NASpI ed assicurazione operai agricoli delle norme specifiche del 1935
  9. Conclusioni

 

  1. Ambito di applicazione della Naspi e finanziamento dell’istituto

Con il D.Lgs. n. 22 del 2015, emesso in attuazione della delega del c.d. Jobs act[1], con riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° maggio 2015, il legislatore sostituisce ASPI e mini-ASPI con la Nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASPI).

Il presente contributo ha l’obiettivo di evidenziare quali siano gli effetti di concreta innovazione apportati dalle nuove disposizioni e quali, invece, rappresentino solo l’effetto della trasposizione di previsioni precedenti in un nuovo intervento di legislazione speciale.

Va premesso che il decreto attuativo esprime l’obiettivo di una regolamentazione organica dell’istituto della NASPI e ciononostante, all’art. 14 prevede che si applichino le disposizioni in materia di ASPI in quanto compatibili che, a loro volta rinviavano, per quanto non previsto dalla L. n. 92 del 2012 ed in quanto applicabili, alle norme già operanti in materia di indennità di disoccupazione ordinaria non agricola.

In particolare, resta in vigore il complesso regime transitorio (art. 2, comma 46, L. n. 92 del 2012) di sostituzione dell’indennità di mobilità, trattamento caratterizzato da una maggiore durata del trattamento, elevabile in ragione dell’età del beneficiario e dell’area di licenziamento, da 12 mesi fino a 48 mesi, all’evidente fine di agevolare le procedure di licenziamento collettivo. Perciò nulla cambia nella tempistica della graduale riduzione della durata di erogazione dell’indennità di mobilità, che semplicemente sarà sostituita dalla NASPI anziché dall’ASPI, a decorrere dal 1° gennaio 2017.

Dal punto di vista delle tipologie di lavoratori abilitati alla richiesta, questo nuovo strumento a sostegno del reddito amplia solo in modo apparente, rispetto all’ASPI, l’ambito soggettivo di applicazione delle tutele contro la disoccupazione involontaria.

Infatti, già la L. n. 92 del 2012 aveva esteso il trattamento di ASPI e mini-ASPI, a decorrere dal 1° gennaio 2013, anche agli apprendisti[2], ai soci di cooperativa compresi quelli di cui al d.P.R. 30 aprile 1970, n. 602 ed alla L. 13 marzo 1958, n. 250 che abbiano stabilito, con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata, nonché, infine, al personale artistico teatrale e cinematografico[3].

E oggi, l’art. 1 del D.Lgs. 22 del 2015 riconosce il trattamento a tutti i lavoratori dipendenti assunti con rapporto di lavoro subordinato, anche a termine, con l’espressa eccezione:

– dei dipendenti a tempo indeterminato del pubblico impiego[4], che non usufruiscono dell’ASPI così come non usufruivano dell’indennità di disoccupazione ordinaria, avendo soltanto, in situazioni di soprannumero o eccedenza di personale, il diritto ad un’indennità pari all’80% dello stipendio e dell’indennità integrativa speciale per la durata massima di ventiquattro mesi[5];

– degli operai agricoli a tempo indeterminato o determinato.

Di conseguenza, nella nozione di “lavoratori dipendenti” è possibile ritenere ormai assorbita quella dei lavoratori assunti con contratto di apprendistato, mentre l’art. 13 del decreto estende l’applicazione del trattamento, mediante rinvio all’art. 4, al personale artistico assunto mediante rapporti di lavoro subordinato e ai soci lavoratori di cooperative di cui al R.D. n. 602 del 1970.

L’esclusione dall’obbligo di assicurazione contro la disoccupazione involontaria degli impiegati, anche del settore privato, che godono della stabilità del posto, che pure si poteva evincere a contrario da un’attenta lettura dell’art. 32, comma 1, lett. b), L. 29 aprile 1949, n. 264, ancora vigente e che la prassi non riteneva più applicabile per i dipendenti da aziende pubbliche o private (anche se esercenti pubblici esercizi)[6] era da ritenersi già esclusa, secondo l’INPS, in quanto non espressamente richiamata dalla disciplina dell’ASPI, risolvendo il problema applicativo di una previsione ritenuta dalla dottrina ormai da tempo del tutto priva di ragionevole fondamento[7].

Pur non essendo espressamente escluse, devono ritenersi tali anche altre categorie di lavoratori, in virtù del mancato richiamo operato dalla legge.

In primo luogo coloro che ricercano l’occupazione, senza aver perso un posto di lavoro, poiché si fa riferimento a lavoratori dipendenti, assunti con contratto di lavoro subordinato.

Per questo motivo risultano esclusi, in base allo stesso D.Lgs. n. 22 del 2015, i collaboratori coordinati e continuativi, iscritti in via esclusiva alla gestione separata, non pensionati e privi di partita IVA, che però possono beneficiare dell’indennità DIS-COLL (art. 15)[8], sostitutiva dell’indennità una tantum già prevista dalla L. n. 92 del 2012. L’esclusione conferma che il trattamento, aldilà degli enfatici propositi espressi nella legge delega, non raggiunge l’obiettivo di universalizzazione delle tutele[9].

In questo caso la disciplina realizza un autentico ampliamento perché l’indennità una tantum precedente era espressamente riservata ai collaboratori a progetto.

Inoltre, nel silenzio del decreto, devono ritenersi ancora esclusi i lavoratori extracomunitari entrati in Italia con permesso di soggiorno di lavoro stagionale ed altre ipotesi particolari, nonché i lavoratori a tempo parziale verticale per il periodo di non lavoro sul presupposto, criticato in dottrina[10], che il periodo di disoccupazione sia conseguenza dello specifico assetto contrattuale voluto dalle parti, a differenza del lavoro stagionale.

Il finanziamento della NASPI continua ad avvenire mediante il pagamento di appositi contributi obbligatori settimanali alla Gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti.

A questa forma di finanziamento principale si aggiungono obblighi di versamento posti a carico dei datori di lavoro dalla L. n. 92 del 2012.

Infatti, la legge prevede che il datore di lavoro paghi ogni mese un contributo addizionale all’Inps per ogni rapporto di lavoro non a tempo indeterminato (maggiorazione dell’1,4%) e un contributo una tantum per ogni ipotesi di interruzione di un rapporto di lavoro non volontariamente provocata dal lavoratore (attraverso, ad es., dimissioni o risoluzione consensuale del rapporto)[11] attraverso il quale sono state reperite le risorse per il finanziamento della c.d. “dote di ricollocazione”, ossia dell’incentivo economico all’accompagnamento attivo del lavoratore nella ricerca di un nuovo lavoro da parte di privati mediante il nuovo istituto del contratto di ricollocazione di cui all’art. 17 del D.Lgs. n. 22 del 2015, al fine di assicurare un più celere ed efficace reinserimento professionale del lavoratore disoccupato.

  1. Riconoscimento delle dimissioni per giusta causa quale ipotesi legittimante la fruizione del trattamento

A differenza di quanto previsto dalla L. n. 92 del 2012, il D.Lgs. n. 22 del 2015, in sede di nuova regolamentazione della disciplina generale, ammette alla tutela della NASPI, oltre ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione per licenziamento (art. 3, comma 1), anche coloro che abbiano rassegnato le dimissioni per giusta causa.

In questo modo viene recepita la consolidata interpretazione dell’INPS[12] che, nelle ipotesi di dimissioni per giusta causa elaborate dalla Corte costituzionale[13] e dalla Cassazione[14], riconosceva in tali ipotesi il diritto del lavoratore al trattamento indennitario, pur a fronte del disposto dell’art. 2, comma 5, L. n. 92 del 2012, che pareva escludere tout court i lavoratori che si fossero dimessi, senza precisare se per giusta causa o meno.

Oggi la circ. n. 94 del 12 maggio 2015, che al punto 2.2, lett. a), recepisce a titolo esemplificativo le stesse ipotesi già elaborate dalle circolari precedenti, tra le quali quella, legalmente tipizzata, delle dimissioni del lavoratore in caso di trasferimento d’azienda con mutamento delle condizioni sostanziali di lavoro, ex art. 2112, comma 4, c.c.[15] e l’ipotesi di dimissioni nel periodo tutelato di cui all’art. 55, D.Lgs. n. 151 del 2000.

Di regola, quindi, i lavoratori che abbiano risolto il rapporto di lavoro per dimissioni o risoluzione consensuale del rapporto non possono richiedere il trattamento, sebbene in dottrina l’esclusione del lavoratore in ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sia stata criticata, sul presupposto che l’estinzione per mutuo consenso ha comunque luogo anche per iniziativa dell’impresa.

L’art. 3, comma 2 del decreto riconosce ancora un’eccezione nel caso in cui la risoluzione avvenga all’esito del tentativo obbligatorio di preventiva conciliazione previsto nell’ambito della procedura di cui all’art. 7, comma 7, L. n. 604 del 1966, come novellato dall’art. 1, comma 40, L. n. 92/2012.

Per quanto non sia un’ipotesi espressamente prevista dalla nuova legge, è presumibile che la NASPI continuerà a essere riconosciuta, nella prassi, al lavoratore in ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro per trasferimento del dipendente ad altra sede della stessa azienda, distante più di 50 km dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici[16].

  1. Eliminazione del requisito dell’anzianità assicurativa e ampliamento della base di calcolo dell’anzianità contributiva

Occorre anzitutto premettere che non si osservano notevoli innovazioni per quanto concerne i termini di invio della domanda all’Inps.

Infatti, la disciplina odierna (art. 6 del decreto) esige che la domanda sia effettuata sempre in forma telematica “entro il termine di decadenza di sessantotto giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro”, ma già per richiedere l’ASPI, in passato la domanda doveva essere presentata entro due mesi da spettanza diritto, cui aggiungere un periodo di carenza di otto giorni (art. 2, commi 12 e 13, L. n. 92), perciò l’intervento normativo ha l’unico pregio, al limite, di essere più chiaro per il lettore, ma non modifica il quadro giuridico e tuttalpiù elimina il periodo di crescita transitoria dell’indennità.

E anche per la decorrenza dell’erogazione del trattamento previdenziale non cambia nulla, perché la NASPI spetta a decorrere dall’ottavo giorno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro o dal primo giorno successivo alla data di presentazione della domanda, se successiva, fermi tutti i “distinguo” operati dalla prassi amministrativa circa il dies a quo dal quale calcolare la decorrenza del termine.

Cambiano invece i requisiti per proporre la domanda medesima, che consistono nei seguenti:

a) la sussistenza dello stato di disoccupazione involontaria, inteso, oltre che nei termini precisati supra,  (licenziamento, dimissioniper giustacausa, risoluzione del rapporto ex 7, L. n. 604 del 1966), anche quale condizione del richiedente privo di lavoro che abbia capacità lavorativa e risulti iscritto nelle liste del Centro per l’impiego territorialmente competente a seguito dell’aver rilasciato la dichiarazione d’immediata disponibilità al lavoro;

b) avere versato almeno 13 settimane di contributi nel quadriennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione (c.d. anzianità contributiva), contemplando – com’è ovvio – anche i contributi già versati per l’indennità di disoccupazione o l’ASPI: al riguardo, l’estensione quadriennale del periodo di computo pone problemi di non poco momento per la quantificazione dei periodi di contribuzione che hanno già dato luogo ad erogazione dei precedenti trattamenti(indennità di disoccupazione e ASPI), perché la durata della prestazione, a differenza di oggi, non era rapportata alla contribuzione. Di conseguenza la circ. INPS n. 94 del 2012 enuclea un complesso meccanismo di computo dei contributi in casodi fruizione di tali trattamenti[17];

c) avere svolto, nei dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno 30 giornate di “lavoro effettivo”, ossia di effettiva presenza sul luogo di lavoro, a prescindere dalla durata oraria e senza considerare i periodi di malattia e infortunio sul lavoro, maternità obbligatoria e CIGS, che sospendono il computo dei dodici mesi entro cui verificare lo svolgimento del lavoro[18].

Ne discendono due considerazioni.

In primo luogo viene eliminato il requisito dell’anzianità assicurativa e quindi non è più richiesto che il lavoratore abbia effettuato il versamento di almeno un contributo settimanale contro la disoccupazione involontaria almeno ventiquattro mesi prima della domanda.

Questa modifica rappresenta la naturale conseguenza dell’assorbimento dei due distinti istituti dell’ASPI e della mini-ASPI nell’unico strumento della NASPI perché, come noto, il requisito dell’anzianità assicurativa era richiesto solo per il primo, ma non per la mini-ASPI. La mini-ASPI, infatti, a differenza dell’indennità di disoccupazione ordinaria con requisiti ridotti, non richiedeva alcuna anzianità assicurativa, ma in cambio poneva un maggiore requisito di anzianità contributiva, di 13 settimane nei 12 mesi antecedenti la richiesta, ossia di circa 90 giorni di contribuzione in luogo dei 78 prima previsti[19].

Oggi il nuovo strumento assorbe i due trattamenti e prevede quale soglia minima, senza requisiti di anzianità, almeno 13 settimane di contribuzione versate o dovute (per la c.d. automaticità delle prestazioni ex art. 2116 c.c.), con l’aggiunta del requisito di un numero minimo di giornate di lavoro effettivo.

In secondo luogo, l’anzianità contributiva minima è calcolata su un arco di tempo più lungo, e cioè nell’arco dei quattro anni precedenti la richiesta, differenziandosi sia dall’ASPI, che richiedeva un anno di contributi nell’ultimo biennio, ma anche dalla mini-ASPI, che misurava tali versamenti nell’arco dell’ultimo anno precedente la domanda[20].

Un esempio aiuta a comprendere l’importante ampliamento operato dal legislatore del 2015: un lavoratore che nel 2013 avesse maturato 48 settimane di contributi nel biennio antecedente la domanda e 60 settimane nei quattro anni precedenti, non avrebbe avuto diritto all’ASPI, ma solo alla mini-ASPI e la retribuzione utile per il calcolo della sua indennità mensile sarebbe stata solo quella relativa agli ultimi 12 mesi. Con il nuovo sistema di calcolo egli avrebbe diritto all’unico ammortizzatore della NASPI, e avrebbe un’anzianità contributiva pari non soltanto a 48 mesi, ma a 60 mesi, che peraltro assume rilevanza sia come divisore ai fini del calcolo dell’indennità (art. 5) sia come base di calcolo al fine di determinare il numero di settimane d’indennità spettanti (art. 4).

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  1. L’indennità di disoccupazione per i lavoratori con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto

Mentre la Legge delega, sub art. 1, comma 2, lett. b), punto 3, parlava di estensione del campo di applicazione dell’ASpI per i lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, l’art. 15 del decreto legislativo in commento resta al di sotto delle attese, e ripropone l’usato sicuro di una prestazione a sostegno del reddito estranea all’Assicurazione Sociale per l’Impiego, peraltro prevista solo in via sperimentale per il 2015 e priva di contribuzione figurativa.

Occorre però sottolineare l’allargamento del perimetro di applicazione soggettiva derivante dalla mancata riproposizione del requisito della mono-committenza e della soglia reddituale. Inoltre marcata è l’omogeneizzazione della struttura della prestazione con l’ASpI; ed infatti l’indennità in favore dei collaboratori coordinati e continuativi ricalca le regole dell’ASpI sia con riferimento ai criteri di determinazione del quantum che per quanto concerne la compatibilità del sussidio con attività di lavoro subordinato o autonomo.

Le differenze afferiscono ai requisiti di eleggibilità e alla durata della prestazione: l’arco temporale di riferimento per la verifica dei requisiti di accesso e per il calcolo è infatti più breve dell’ASpI, perché decorre dall’inizio dell’anno solare che precede l’evento della cessazione del rapporto di lavoro. Si fa riferimento a questo periodo sia per la verifica del requisito contributivo per accedere alla tutela – pari a tre mesi nel già richiamato periodo, oltre ad un mese nell’anno in cui si verifica l’evento – che per il calcolo dell’indennità, che spetta in ragione del 75% del reddito imponibile secondo uno schema che richiama il meccanismo già descritto per il calcolo dell’ASpI.

Anche la durata del sussidio riproduce la logica contributiva e meritocratica dell’ASpI, perché la prestazione è dovuta per la metà dei mesi di contribuzione presenti nel periodo di riferimento, con un massimale fissato però in sei mesi.

  1. L’assegno di disoccupazione post ASpI

In attuazione del criterio direttivo di cui al punto 5 dell’art. 1, lett. b) della Legge delega n. 183 del 2014, l’art. 16 del D.Lgs. n. 22 del 2015 introduce un istituto nuovo di zecca, l’assegno di disoccupazione post ASpI, ulteriore prestazione in favore di lavoratori in particolari condizioni di bisogno accertato, condizionata alla partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti.

L’assegno in esame spetta per la durata massima di sei mesi ed è pari al 75% dell’ultimo trattamento percepito a titolo di ASpI, ma con un massimale rappresentato dall’importo dell’assegno sociale di cui alla L. n. 335 del 1995.

Si tratta del tentativo di affiancare alla tradizionale tutela previdenziale per la disoccupazione anche una forma di protezione assistenziale per la mancanza del reddito da lavoro. La rigorosa limitazione delle risorse, che spinge il legislatore a precisare, sub art. 16, comma 2, che “in ogni caso, il sostegno economico non potrà essere erogato esaurite le risorse del fondo”, rende però necessaria l’individuazione di criteri di priorità nell’accesso, affidati ad un futuro decreto ministeriale, che dovrà tenere conto in primo luogo dei lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorenni e in età prossima al pensionamento.

L’aspetto più singolare sta nel fatto che per accedere alla tutela è necessario aver fruito dell’assicurazione sociale per l’impiego per l’intera sua durata. In questo modo l’assegno di disoccupazione realizza una forma di tutela assistenziale a base occupazionale, in quanto riservata non ai cittadini in stato di bisogno ma solo ai lavoratori assicurati contro la disoccupazione[21].

Non si tratta di un inedito assoluto: la più tipica forma di prestazione assistenziale a base occupazionale è (stata) l’integrazione al minimo delle pensioni, della cui natura giuridica – prima ricondotta nell’area della previdenza[22], e successivamente inquadrata dalla Consulta come una erogazione dovuta in applicazione del dovere di solidarietà che caratterizza fin dai principi fondamentali la Costituzione[23] – si è a lungo discusso.

Una commistione tra previdenza e assistenza interessa anche la pensione di reversibilità, che dopo la riforma del 1995 viene calcolata secondo una logica previdenziale (aliquota di quanto spettante sulla base della contribuzione versata) a cui seguono però detrazioni commisurate al reddito percepito dal titolare della prestazione, secondo un criterio di accertamento in concreto dello stato di bisogno[24].

In questi casi però il legislatore ha utilizzato all’interno della tutela previdenziale una logica assistenziale, differenziando le posizioni degli assicurati anche in ragione dell’accertamento dell’effettivo stato di bisogno, mentre con l’assegno di disoccupazione si introduce nell’ordinamento una prestazione assistenziale con alcuni tratti tipicamente previdenziali, quali, in primo luogo, la restrizione del perimetro di applicazione.

La natura ibrida dell’istituto giuridico emerge già nel criterio di calcolo, atteso che le prestazioni non contributive sono forme di protezione di base, sicché non dovrebbero essere differenziate in base alla retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro. Ma la vera anomalia sta, come detto, nella limitazione ai soli lavoratori beneficiari dell’Assicurazione sociale per l’impiego[25]. In tal modo l’istituto perde quasi tutta la vocazione assistenziale, e si presenta come una sorta di prolungamento della protezione previdenziale, incidendo sulla sua durata, quasi a parziale bilanciamento del rigore che caratterizza il principio meritocratico. È vero che altri Stati europei prevedono forme di protezione assistenziale che temporalmente succedono alla tutela previdenziale, ma altrove questi istituti coesistono con forme di protezione assistenziale della disoccupazione per tutti i cittadini che si trovino in condizioni di bisogno accertato[26].

  1. A piccolissimi passi verso la universalizzazione della tutela per la disoccupazione?

La tesi che si sostiene in questo scritto è che l’intervento legislativo del 2015 si pone in linea di continuità con la riforma del 2012: pur con qualche significativa variante, che accentua alcuni caratteri prima solo accennati, si tratta di una sorta di tagliando alla macchina messa in moto meno di tre anni fa. A conferma di questo l’obiettivo dichiarato, che in entrambi i casi è stato individuato nel progetto di universalizzazione della tutela per la disoccupazione.

Ma all’esito di questa riforma in due tempi della tutela per la disoccupazione si può parlare di effettiva universalizzazione? Alla base di questo quesito c’è un equivoco che conviene chiarire.

Nei sistemi di diritto della sicurezza sociale l’espressione universalizzazione delle tutele ha il preciso significato di rappresentare forme di protezione sociale potenzialmente estese a tutti i cittadini.

Con riferimento al modello di sicurezza sociale a base occupazionale, qual è il nostro, l’universalizzazione della tutela si realizza affiancando ad un forma di protezione previdenziale, riservata ai lavoratori e finanziata con l’apporto delle categorie interessate, una forma di protezione assistenziale, meno intensa e subordinata all’accertamento della condizione di bisogno in concreto, ma estesa a tutti i cittadini.

Secondo questo principio sono universalizzate, nel nostro ordinamento, le tutele dell’invalidità e della vecchiaia. La tutela assistenziale dell’invalidità trova il fondamento nell’art. 38, comma 1, Cost., che garantisce tutti gli inabili al lavoro sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, mentre l’universalizzazione della tutela della vecchiaia è stata realizzata dal legislatore ordinario con l’introduzione della pensione sociale (ora assegno sociale) in favore dei cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito.

Se volessimo valutare l’assetto del nostro modello di diritto della sicurezza sociale all’esito delle ultime riforme in tema di tutela per la disoccupazione alla stregua di questa nozione di universalizzazione, dovremmo affermare che l’obiettivo non è stato centrato[27].

In realtà si deve dubitare che questa sia stata la vera finalità del legislatore. Dall’utilizzo che ne viene fatto – ad esempio nella legge delega si parla di universalizzazione con riferimento all’estensione del campo di applicazione ai lavoratori coordinati e continuativi – emerge infatti chiaramente che il significato attribuito sia diverso, come sinonimo di estensione della platea dei beneficiari. Ebbene, se questa interpretazione è corretta, difficile non riconoscere che questo risultato sia stato effettivamente conseguito. In pochi anni si è realizzata non solo l’estensione della tutela alla quasi totalità dei lavoratori subordinati, ma anche, pur nei limiti di cui si è detto, ad una importante porzione del lavoro autonomo quali le collaborazioni coordinate e continuative; inoltre e soprattutto, per effetto della modifica dei criteri di eleggibilità contenuta nella riforma del 2015, saranno più numerosi coloro che avranno concretamente accesso ai trattamenti di disoccupazione, ancorché per periodi brevi.

Quanto alla vera universalizzazione, il focus è sull’assegno di disoccupazione post ASpI.

Ad oggi questo istituto non può definirsi universale perché al sussidio possono accedere solo i lavoratori che in precedenza hanno beneficiato di una prestazione squisitamente previdenziale. È però condivisibile l’idea di affiancare, alla tradizionale struttura assicurativa della tutela contro la disoccupazione, un pilastro assistenziale. L’introduzione di questo nuovo istituto può allora costituire un primo piccolo mattone per la costruzione di una vera universalizzazione, ancorché selettiva, della tutela per la disoccupazione, mediante una analoga forma di protezione collegata alle politiche attive, e quindi in favore di tutti gli inoccupati che si rendano concretamente disponibili ad accettare un lavoro[28]. Un pur generico riferimento in questo senso è contenuto nel criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 3, lett. p), L. n. 183 del 2014, con la delega ad introdurre principi di politica attiva del lavoro che prevedano la promozione di un collegamento tra misure volte all’inserimento nel tessuto produttivo e misure di sostegno al reddito della persona disoccupata o inoccupata.

  1. Perplessità senza vizi formali nel confronto delle sanzioni per il Reddito di cittadinanza e per le indennità di disoccupazione

Nel 2019 è stato istituito il “Reddito di Cittadinanza” (RdC)[29], di grande importanza sotto tutti i punti di vista, oltre che di enorme richiamo mediatico. Il fine dichiarato è di “garantire un livello minimo di sussistenza e incentivare la crescita personale e sociale dell’individuo attraverso la libera scelta del lavoro”[30]. Si crea un diritto soggettivo in capo al beneficiario, qualunque sia l’an della tutela, in attuazione del minimo costituzionale in base all’art. 38 Cost[31]..

Il Governo ha dato queste definizioni[32]: “il Reddito di cittadinanza è una misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Si tratta di un sostegno economico ad integrazione dei redditi familiari; è associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e sociale, di cui i beneficiari sono protagonisti sottoscrivendo un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale”. Sono definizioni convenzionali, anche un po’ elogiative, ma da cui si può partire per alcune valutazioni.

La prima è che, nella sostanza, c’è una parziale coincidenza del RdC con le indennità di disoccupazione (ora NASpI, assicurazione per gli operai agricoli e Dis-Coll), quantomeno per il presupposto della disoccupazione e per il fine dell’integrazione dei redditi. Vale un confronto, per quanto improprio, a partire dalle patologie.

Per le illegittimità consumate o anche solo tentate del RdC si prevedono sanzioni penali gravissime: per chi ottiene o tenti di ottenere indebitamente i benefici, è prevista la reclusione da due a sei anni[33]; per l’omessa comunicazione delle variazioni di reddito o patrimonio, rilevanti ai fini del RdC, è prevista la reclusione da uno a tre anni[34]. Nel concedere a tutti benefici asseriti grandi, per contrapposizione si prevedono sanzioni gravissime nei confronti di chi anche solamente tenti di fruirne senza diritto, precisando che saranno puniti i comportamenti non solo attivi ma anche quelli passivi ed omissivi. Nel punire allo stesso modo i tentativi e le consumazioni, i reati sono “di pericolo”.

Colpisce però un’anomalia, per così dire di risulta[35], delle sanzioni molto più leggere per i casi di illegittima indennità di disoccupazione. È ovvio, oltre che evidente, che il RdC è completamente diverso rispetto alle indennità di disoccupazione: questa totale diversità rende teoricamente impossibile ogni confronto e comunque rende irrilevanti le forti differenze di sanzioni. È vero, ma fra RdC ed indennità di disoccupazione c’è somiglianza e comunque entrambi presuppongono una situazione di disoccupazione: balza allora agli occhi un saltus, al di là di formalità, perché per le indennità di disoccupazione sono previste specificamente solo sanzioni amministrative economiche, mentre per il RdC si prevedono delitti con reclusione da due a sei o da uno a tre anni anche in caso di tentativo, senza risultato, ed anche per omissione di comportamenti dovuti e di solo “silenzio”.

Né si potrebbe sostenere che per il RdC gli abusi sarebbero più gravi di quelli per le indennità di disoccupazione, perché entrambi hanno rilevanza economica e sociale di grandi dimensioni e gravità.

Si ha quasi la sensazione che il legislatore 2019 del RdC, preoccupato di colpire con sanzioni fortissime gli abusi di un beneficio asserito grande, si sia “dimenticato” del fatto che per le indennità di disoccupazione c’erano già specifiche sanzioni molto più lievi e depenalizzate risalenti al 1935 per il caso sia di consumazione, sia di solo tentativo.

Può sembrare un’osservazione maliziosa, ma c’è un precedente che rende realistica l’ipotesi di una dimenticanza. Quando nel 2009 fu disposta l’abrogazione anche formale delle norme ritenute non più in vigore, caddero sotto la scure dell’abrogazione formale anche quelle del 1935[36] che prevedevano le sanzioni per illegittima indennità di disoccupazione; subito dopo però ci si rese conto dell’errore e quelle vecchie norme tornarono in vigore in quanto ritenute indispensabili. Può darsi quindi che, nell’istituire il RdC, si previdero sanzioni gravissime senza considerare ed anzi “dimenticando” che per i casi in fondo simili di illegittima indennità di disoccupazione sono previste specifiche sanzioni molto più lievi, solo amministrative di tipo pecuniario.

Le norme del 1935 sono in vigore, come si vedrà, e vanno applicate anche per le nuove forme d’indennità di disoccupazione (NASpI), oltre che per l’indennità di disoccupazione a favore degli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato, restata invariata.

Va quindi ricordato che il R.D.L. del 1935 prevede in modo separato le violazioni consumate e tentate. L’art. 115 prevede al comma 1 la violazione consumata, consistente nell’indebita “riscossione” delle indennità, mentre il successivo comma 3 prevede il tentativo, con sanzioni minori; l’art. 116 prevede con sanzioni ancora minori le dichiarazioni false o i fatti fraudolenti “al fine” di procurare indebiti.

Nel R.D.L. del 1935 si prevede anche “salvo” la sussistenza di reati ulteriori, più o meno come sempre e com’è stato fatto anche per il RdC. C’è comunque, come si vedrà, una sovrapposizione in particolare con il reato di truffa aggravata, consumata o tentata, per cui i giudici hanno trovato il modo di distinguere attraverso il “quid pluris“, escludendo il dolo omissivo da silenzio; ora invece per il RdC si punisce allo stesso modo l’illecito tentato o consumato, anche per mero silenzio, con sanzioni gravissime e perfino superiori a quelle della truffa tentata.

Non si può dare un giudizio per eccesso di severità e tantomeno ritenere che le differenze di sanzioni del RdC rispetto a quelle delle indennità di disoccupazione siano in qualche modo irrazionali: è fin troppo evidente, va ripetuto, che si tratta di fattispecie totalmente diverse, anche se per certi aspetti simili e con l’identico presupposto della disoccupazione.

Né si potrà considerare la normativa severissima del RdC quale implicito invito ai giudici di “disapplicare” il Regio Decreto del 1935. Non si disapplicano le norme solo perché ritenute con il “senno di poi” troppo leggere, considerando la severità esasperata di norme successive per casi per certi aspetti simili ma diversi.

Resta però un generale sconcerto, nell’empito pur giusto di punire e scoraggiare le frodi.

Si riepilogano le nuove, severissime sanzioni disposte per il RdC[37], con la caratteristica di equiparare i reati tentati a quelli consumati, eliminando in tal modo le attenuanti per delitti solo tentati[38]. Per il RdC il reato tentato ha rilievo identico al reato consumato, mentre per le indennità di disoccupazioni sono previste norme specifiche a seconda se l’illecito sia stato consumato o tentato. Evidenziando le differenze, si potranno fare alcune deduzioni sul forte rigore delle sanzioni per il RdC, rispetto al regime molto più tenue previsto per le indennità di disoccupazione.

Le sanzioni più gravi per il RdC sono previste per chi, al fine di ottenere indebitamente i benefici, renda o utilizzi dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero ometta informazioni dovute: per tal caso è prevista la reclusione da due a sei anni, salvo che il fatto costituisca più grave reato.

Inoltre è punito con la reclusione da uno a tre anni chi ometta di comunicare le variazioni di reddito o patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio. Consegue di diritto l’immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva, con obbligo di restituzione di quanto indebitamente percepito, nei casi di condanna in via definitiva per i reati previsti per il RdC e per gli altri espressamente previsti.

Il beneficio non può essere nuovamente richiesto prima che siano decorsi dieci anni dalla condanna (ma sul punto si tornerà in fondo).

Il beneficio è precluso per chi è sottoposto a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, ovvero sia stato condannato, in via definitiva, nei dieci anni precedenti la richiesta, per taluno dei gravi delitti espressamente elencati, nonché la neutralizzazione, ai fini della individuazione della scala di equivalenza, di membri del nucleo che si trovino nelle predette condizioni di sottoposti a una misura cautelare ovvero condannati. Sono previste sospensioni del RdC in caso di condanna o applicazione di misura cautelare personale.

Per casi meno gravi sono disposte, senza sanzioni penali, decadenze dal Rdc e decurtazioni con decadenza in caso di recidiva.

Nel rigore, si sono previste sanzioni anche in materia d’infedele asseverazione o visto di conformità[39].

In conclusione, si prevedono per gli illeciti sul RdC sanzioni gravi, equiparando i reati tentati a quelli consumati in quanto ritenuti tutti “di pericolo”, e presupponendo, oltre il solito “salvo” reati più gravi ed oltre il richiamo specifico di altre norme sanzionatorie[40], che in buona sostanza si abbia sempre truffa aggravata.

Se si escludesse una dimenticanza, si potrebbe supporre che, per il rigore estremo sul RdC, si siano considerate alcune esigenze, emerse o no – non è dato saperlo – dall’esperienza sulle indennità di disoccupazione o prestazioni simili. Equiparando il reato tentato a quello consumato si sono evitate le vecchie scusanti, d’aver sbagliato “in buona fede”, anche se è difficile ipotizzare un’ignoranza senza colpa considerando che la materia è da sempre di generale e facile conoscenza. Soprattutto si sono voluti evitare i vecchi e mai risolti problemi di distinzione fra dolo “commissivo” oppure “omissivo”, equiparando quindi il non-fare al fare e togliendo incertezze sul rilievo del “silenzio”, che per il RdC comporta sempre le stesse sanzioni gravissime dei casi di fare positivo ed attivo.

In definitiva, per il RdC si è voluto di togliere ai giudici la discrezionalità sulla sussistenza del reato, sempre delitto con reclusione da due a sei anni o da uno a tre anni.

  1. Permanenza in vigore per NASpI ed assicurazione operai agricoli delle norme specifiche del 1935

Si passa allora alle sanzioni sulle indennità di disoccupazione, la cui lunghissima esperienza sarà utilizzabile anche ai fini del RdC, con la solita precisazione che i confronti sono impropri. Infatti, oltre ad un richiamo frequente alle norme penali generali, le violazioni sanzionate per le indennità di disoccupazione sono molto simili a quelle per il RdC.

Con l’universalizzazione dei trattamenti di disoccupazione, compiuta infine con il D.Lgs. n. 22 del 2015, sono aumentati inevitabilmente i casi d’ordinaria patologia, con la varietà che deriva dalla fantasia di chi cerca di violare o eludere la legge. In materia c’è da ri-vedere innanzitutto se siano in vigore le vecchie norme specifiche del 1935[41], oltre quelle generali, come la truffa ed altri reati aggiunti a partire dal 1990.

La normativa sanzionatoria del 1935 per le indennità di disoccupazione resta in vigore, in quanto non abrogata espressamente ed in quanto il D.Lgs. n. 22/2015 non ha regolato l’intera materia già regolata dalle leggi anteriori. Una conferma si deduce dal fatto che, come accennato, le sanzioni del 1935 restano per gli operai agricoli, cui si applica invariata la normativa precedente. Un’ulteriore conferma logica si ha anche dal fatto, di cui ugualmente s’è detto, che nel 2009 le norme del 1935 furono formalmente abrogate per la “semplificazione”, ma subito dopo furono fatte tornare in vigore in quanto ritenute “indispensabili”[42]. Può darsi quindi che, nell’istituire il RdC che presuppone la disoccupazione, siano state previste sanzioni gravissime senza considerare ed anzi “dimenticando” che, per i casi in fondo simili di illegittima indennità di disoccupazione, sono previste specifiche sanzioni solo amministrative di tipo pecuniario, molto più lievi. Oppure, al contrario, può darsi che le rigidità introdotte per il RdC siano dovute proprio all’esigenza di eliminare le incertezze della normativa del 1935 sull’indennità di disoccupazione e di aggravare le sanzioni.

Le norme del 1935 restarono per ASpI e mini-ASpI, istituite nel 2012 in sostituzione dell’indennità di disoccupazione non-agricola, cui, per quanto non previsto espressamente dalla legge di riforma ed per quanto applicabili, restavano operanti le norme precedenti sull’indennità di disoccupazione[43]. In mancanza di abrogazioni espresse, rimangono in vigore le norme non-incompatibili. Lo stesso principio vale con l’istituzione nel 2015 della NASpI, in sostituzione delle precedenti prestazioni.

Pertanto, per le attuali prestazioni di disoccupazione (NASpI) si applicano ancora gli artt. 115 e 116 del R.D.L. n. 1827 del 1935, che per sanzionare le prestazioni illegittime di disoccupazione prevedono norme specifiche, oltre quelle ordinarie su illeciti comuni.

È invece da escludere un’applicazione estensiva degli artt. 115 e 116, R.D.L. n. 1827 del 1935 per la Dis-Coll dei collaboratori autonomi, che ha caratteristiche speciali; pertanto per la Dis-Coll si applicheranno solo le norme generali.

L’applicazione in passato sia delle norme speciali sia di quelle generali del codice penale, per i trattamenti di disoccupazione o altre prestazioni previdenziali, ha creato dunque precedenti utili, quantomeno per contrapposizione, ai fini di vecchie e nuove prestazioni.

Conclusioni

L’indennità di disoccupazione involontaria, già in base alle leggi originarie[44], delinea il diritto del lavoratore al conseguimento delle prestazioni come un vero e proprio diritto soggettivo perfetto, che sorge con il verificarsi delle condizioni previste dalla legge. Non è esclusa però la discrezionalità legislativa.

Resta il sistema assicurativo, con propria gestione autonoma. Il “rischio” è la perdita del lavoro o guadagno, con disponibilità ma anche obbligo di collaborare per un nuovo lavoro. L’indennità di disoccupazione ha lo scopo di fornire una tutela economica per il caso di oggettiva mancanza di lavoro. È dunque una forma di previdenza ex art. 38 Cost., come le pensioni: mentre però le pensioni presuppongono o un’effettiva invalidità o una presunzione di diminuzione delle capacità a causa della vecchiaia, l’indennità di disoccupazione presuppone al contrario le piene capacità. Non c’è incompatibilità fra pensioni ed indennità di disoccupazione, ma talvolta le leggi hanno disposto la perdita dell’indennità di disoccupazione con il raggiungimento delle pensioni.

La questione fu esaminata in una sentenza della Corte costituzionale[45], che si espresse sulla funzione dell’indennità di disoccupazione. L’occasione nacque dall’esame del divieto di cumulo dell’indennità di disoccupazione con le pensioni, disposto dall’art. 32 ultimo comma del D.Lgs. 26 aprile 1957, n. 818. Si rilevò che le vicende della seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra avevano scardinato le basi finanziarie del sistema preesistente, facendo assumere all’indennità di disoccupazione una prevalente e più immediata funzione di protezione contro il bisogno “solennemente affermata nell’art. 38 della Carta costituzionale”[46]. La conclusione, con questo congegno assicurativo, è stata “praticamente” quella di garantire una “retribuzione delle prestazioni a favore dei singoli assicurati ed una estensione del numero dei beneficiari”.

Fra pensioni e trattamenti di disoccupazione non c’è incompatibilità, non c’è duplicazione di tutele perché i rischi sono diversi: quelli delle pensioni riguardano esigenze soggettive, patologiche o fisiologiche, mentre quelli della disoccupazione riguardano il momento critico oggettivo della vita dovuta alla mancanza di lavoro e di reddito. Nulla vieta, in linea di principio, il concorso delle pensioni con i trattamenti di disoccupazione, ma prevale la discrezionalità del legislatore. Fra l’altro, la vecchia legge del ’49 prevedeva che anche i pensionati potessero iscriversi nelle liste di collocamento, che era il presupposto dell’indennità di disoccupazione.

L’affermazione di un diritto soggettivo perfetto all’indennità di disoccupazione, di natura latamente retributiva, non esclude dunque la discrezionalità del legislatore su ammontare e durata dell’indennità di disoccupazione. Resta l’obbligo ex art. 38, comma 2, Cost., nel riconoscimento di “diritto sociale”[47], che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita, anche in prospettiva temporale. Un giusto contemperamento fra discrezionalità del legislatore e “diritto sociale”, anche ma non solo per compatibilità finanziarie.

Va sempre considerato che per l’indennità di disoccupazione, nel restare il sistema assicurativo con gestione autonoma, resta il fine di parità di bilancio.

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Note

[1] Art. 1, commi 1 e 2, lett. b), L. n. 183 del 2014.

[2] Cinelli, Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro. A proposito degli artt. 2-4 della legge n. 92 del 2012, in Riv. dir. sic. soc., 2012, 2, 244.

[3] circ. INPS 18 dicembre 2012, n. 142, par. 2.1.

[4] O di esercenti un servizio pubblico, da fare accertare mediante un provvedimento ministeriale: cfr. Cass. 8 aprile 2014, n. 8211 e Cass. 13 maggio 2013, n. 11417, in Arg. dir. lav., 2014, 1, 153 ss.

[5] Ex art. 33, comma 8, D.Lgs. n. 165/2001, come modificata comma 1 dell’art. 50, D.Lgs. n. 150 del 2009 e poi così sostituito dal comma 1 dell’art. 16, L. n. 183 del 2011, a decorrere dal 1° gennaio 2012, ai sensi di quanto disposto dal comma 1 dell’art. 36 della stessa legge.

[6] In virtù dell’abrogazione, dal 2009, dell’art. 40, n. 2, R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, conv. in L. n. 1155 del 1936 a decorrere dal 2009 ex art. 20, commi 4 e 6, D.L. n. 112 del 2008, conv. in L. n. 133 del 2008: v. circ. INPS n. 18 del 12 febbraio 2009, par. 2.1.

[7] Persiani, Diritto della previdenza sociale, 2016, Padova, 330.

[8] circ. INPS 27 aprile 2015, n. 87.

[9] Bozzao, I nuovi trattamenti di disoccupazione: a piccoli passi verso l’Europa, in L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Torino, 2015, 213-14.

[10] Liso, ASPI e tutela dei lavoratori anziani, in Libro dell’anno del diritto, Roma, 2013, 378.

[11] Art. 2, commi 28 e 31, L. n. 92 del 2012.

[12] circ. INPS 20 ottobre 2003, n. 163 e 10 ottobre 2006, n. 108, in superamento di quanto stabilito, a decorrere dall’anno 1999, per i lavoratori disoccupati in conseguenza delle proprie dimissioni, dall’art. 34 della n. 448 del 1998 nonché, con riferimento alla L. n. 92 del 2012, lett. a) e b), circ. INPS 18 dicembre 2012, n. 142, par. 2, punto 2.

[13] Corte cost. 24 giugno 2002, n. 269, in Dir. prat. lav., 2002, 269, 2148.

[14] Cass. 17 dicembre 2008, n. 29841, secondo cui le dimissioni determinate dallo stato di malattia del lavoratore, in quanto comunque basate sulla sua volontà e non su un fatto del datore di lavoro o del terzo, non possono comunque comportare la fruizione dell’indennità di disoccupazione involontaria.

[15] Cinelli, Gli ammortizzatori sociali, cit., 245.

[16] Circ. INPS 10 ottobre 2006, n. 108.

[17] Circ. INPS 12 maggio 2015, n. 94, § 2.5.

[18] Circ. INPS 12 maggio 2015, n. 94, § 2.2, lett. c).

[19] Cairoli, L’ASPI, in G. Santoro-Passarelli, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, Torino, 2014, 1498.

[20]  Bozzao, I nuovi trattamenti di disoccupazione, cit., 207: “Si assiste, in sostanza, alla estensione delle soglie contributive di accesso proprie della miniAspi, da soddisfarsi però in un arco temporale più ampio”.

[21] Bronzini, Che fine ha fatto il reddito minimo garantito?, in Riv. giur. lav., 2014, 225.

[22] Corte cost. 5 febbraio 1986, n. 31, in Foro it., 1986, I, 114, con nota di Cinelli, L‘adeguatezza della prestazione previdenziale tra parità e proporzionalità; in Riv. giur. lav., 1986, III, 113, con nota di Andreoni, Assistenza, mutualità e terza via: il dilemma delle pensioni al minimo.

[23] Corte cost. 9 maggio 1997, n. 127, in Riv. giur. lav., 1997, II, 525, con nota di Andreoni, Integrazione al minimo di pensione e reddito coniugale: il de profundis della Corte Costituzionale.

[24] La questione di legittimità costituzionale di questa norma, anche con riferimento alla sua retroattività, è stata dichiarata infondata da Corte cost., 12 novembre 2002, n. 446, in Giur. it., 2003, 841, con nota di Mauriello, Ancora sul principio dell’affidamento nella sicurezza giuridica.

[25] Liso, Il “nuovo” trattamento di disoccupazione, cit., 2 (nt. 2), a commento di una proposta di riforma elaborata alcuni anni fa dalla CGIL che probabilmente ha ispirato il nuovo istituto, si chiedeva “(…) se un sistema di tal fatta non possa considerarsi lesivo del principio di eguaglianza, dal momento che nessuna garanzia di questo tipo verrebbe assicurata a coloro che incolpevolmente non sono riusciti ad occuparsi“.

[26] Carinci (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi – atto II, Adapt, e-book n. 32.

[27] Con riferimento alla L. n. 92 del 2012, cfr. Cinelli, Gli ammortizzatori sociali nel disegno di riforma del mercato del lavoro, cit., 227: “(…) In effetti l’attuazione dell’obiettivo universalistico resta esclusa a priori dalla limitazione delle tutele – come da tradizione – ai soli soggetti che perdono il lavoro, non già anche a quelli che lo ricercano senza successo”. Secondo F. Liso, Il nuovo trattamento di disoccupazione, cit., 30, la riforma del 2012 “(…) è ancorata alla visione assicurativa tradizionale che (…) si fa carico solo di coloro che hanno perso il posto di lavoro nell’attuale contesto, trascurando la posizione di coloro che soffrono per la mancanza di lavoro, cioè di coloro che si trovano in condizioni di bisogno e, pur essendo disponibili a lavorare, non riescono a trovare un’occupazione. È una visione che (…) preclude quella prospettiva di universalizzazione che pure il legislatore si è data (…)”.

[28] Bozzao, Reddito di base e cittadinanza attiva nei nuovi scenari del welfare, in Riv. giur. lav., 2014, I, 325; Giubboni, Il reddito minimo garantito nel sistema di sicurezza sociale, in Riv. dir. sic. soc., 2014, 149.

[29] D.L. 28 gennaio 2019, n. 4 (conv. con modd. dalla L. 28 marzo 2019, n. 26), art. 3. Il RdC è in vigore dal 6 marzo 2019. Cfr. Circ. INPS n. 100 del 5 luglio 2019, in https://www.inps.it/bussola; Id. n. 43 del 20 marzo 2019, ivi. Cfr. Cazzola, Il Reddito di cittadinanza, in Foro.it., 2019, n. 5, 446; Lambiase – Lo Conte, Monitoraggio e controllo della finanza pubblica, in Giorn. dir. amm., 2019, n. 6, 704; Gentile, Analisi soltanto giuridica del reddito di cittadinanza, in Foro it., 2019, n. 6, 3; Di Corrado, Reddito di cittadinanza: prime riflessioni, in Dir. prat. lav., 2019, n. 38, 2351; Gheido – Casotti, Assunzione di beneficiari di Reddito di cittadinanza: incentiviivi, 2019, n. 31, 2054.

[30] Relazione al Disegno di legge n. 1018 al Senato per Conversione in legge del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, in www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/341973.pdf.

[31] Garofalo, Il minimo previdenziale ed assistenziale: bisogno versus bisogno accertato, in Foro.it, 2019, n. 11, 977.

[32] In www.redditodicittadinanza.gov.it/schede/dettaglio.

[33] D.L. n. 4/2019, art. 7, comma 1.

[34] D.L. n. 4/2019, art. 7, comma 2.

[35]  L’espressione “normativa di risulta” è utilizzata dalla Corte costituzionale per l’ammissibilità dei referendum: cfr. da ultimo Corte cost. 31 gennaio 2020, n. 9, in Pluris.

[36]  R.D.L. n. 1827/1935, artt. 115 e 116.

[37]  D.L. n. 4/2019 (conv. con modd. dalla L. n. 26/2019), art. 7. Cfr. Circ. Ispettorato Nazionale del Lavoro (Inl) 24 luglio 2019, n. 8, in www.ispettorato.gov.it; Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento n. 138 del 20 giugno 2019 (Parere su uno schema di decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali in materia di Sistema informativo del Reddito di cittadinanza), in www.garanteprivacy.it/web; Cirioli, Reddito di cittadinanza e sistema sanzionatorio, in Dir. prat. lav., 2019, n. 40, 2469; Lippolis, Reddito di cittadinanza e impiego irregolare dei percettoriivi, 2019, n. 38, 2335; Rausei, Sanzioni a tutela del Reddito di cittadinanzaivi, 2019, n. 32-33, 2063.

[38] Art. 56 c.p.

[39] D.L. n. 4/2019, art. 7 bis (inserito dalla legge di conversione n. 26/2019).

[40] Artt. 270 bis, 280, 289 bis, 416 bis, 416 ter, 422 e 640 bis c.p., richiamati dall’art. 7, comma 3, D.L. n. 4/2019.

[41] R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, artt. 115 e 116.

[42] D.Lgs. n. 213/2010.

[43] Circ. INPS n. 142 del 18 dicembre 2012, punto 9, in www.inps.it/Circolari/.

[44] R.D.L. n. 1827/1935, che ha ripreso e rielaborato per la disoccupazione il R.D. 30 dicembre 1923, n. 3158, integrato col regolamento 7 dicembre 1924, n. 2270.

[45] Corte cost. 31 maggio 1960, n. 34, in Pluris: da notare che, fra gli avvocati, c’erano Vezio Crisafulli e Franco Agostini, il primo destinato a diventare giudice costituzionale nel 1968 ed il secondo Direttore della “Rivista giuridica del lavoro”.

[46] Si rilevò anche (Corte cost. n. 34/1960, cit.) che la trasformazione si sarebbe compiuta anche attraverso la modificazione dello strumento economico-finanziario, abbandonando il sistema della capitalizzazione, “per passare a quello della ripartizione, con onere ricadente su tutti i lavoratori, attivi o pensionati”. In effetti, per l’inaffidabilità con la svalutazione, la capitalizzazione fu abbandonata da tutte le assicurazioni, anche non obbligatorie, con passaggio al sistema di ripartizione, che dunque non ha valore oltre quello organizzativo-finanziario.

[47] Andreoni, Lavoro, diritti sociali e sviluppo economico, Torino, 2006, 31.

Avv. Martina Liaci

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