L’art. 25 della L. n. stabilisce che, in caso di rifiuto espresso, ovvero trascorsi trenta giorni dalla presentazione della domanda di accesso, è possibile proporre ricorso al T.A.R. territorialmente competente. Quest’ultimo decide, in camera di consiglio, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito dell’atto introduttivo del giudizio . Avverso tale pronuncia è ammesso appello al Consiglio di Stato, il quale, nell’ipotesi di accoglimento della domanda, ordina l’esibizione dei documenti richiesti .
L’art. 25 disciplina quindi le forme di tutela avverso l’eventuale comportamento inerte o di rifiuto alla domanda di accesso da parte della Pubblica Amministrazione. Sul punto, la L. n. 241/1990 rappresenta una vera novità, in quanto prevede uno speciale rito camerale al fine di garantire, in via giurisdizionale, una pronuncia dichiarativa dell’eventuale illegittimità del diniego dell’Amministrazione.
Avendo ottenuto il riconoscimento dell’illegittimità del diniego e la sentenza di condanna, in caso di inerzia della Pubblica Amministrazione, al ricorrente è consentito di agire attraverso il giudizio di ottemperanza (Figorilli, Alcune considerazioni sui profili sostanziali e processuali del diritto di accesso ai documenti amministrativi, in Dir. proc. Amm., 1994, n. 2, p. 285). L’operatività di questo istituto è stata estesa anche alle sentenze di condanna, ma, nascendo come giudizio a seguito di un inadempimento di una sentenza di accertamento, il giudizio in questione, contiene al suo interno la verifica dell’inerzia dell’Amministrazione. Nel caso qui esaminato, questa fase è inutile in quanto un identico accertamento è già contenuto nel rito speciale previsto dall’art. 25.
Per questo motivo è stato sostenuto che sarebbe opportuno prevedere, per lo stesso giudice che condanna la Pubblica Amministrazione, il potere di sancire l’immediato intervento di un commissario ad acta una volta scaduto il termine per adempiere.
La tutela del controinteressato.
La legge n. 241/1990 contiene una tutela giurisdizionale solo per il soggetto al quale viene negato il diritto di accesso, mostrando come il Legislatore del 1990 non avesse considerato la tutela dei terzi interessati alla loro riservatezza.
Nel caso in cui un soggetto ottenga l’accesso a documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione, ma contenenti dati personali di terzi, appare evidente come il titolare del diritto alla riservatezza abbia diritto a sindacare tale decisione. La partecipazione del terzo al procedimento ed al possibile successivo processo appare, infatti, di primaria importanza per garantire la corretta applicazione della legge e dell’imparzialità dell’azione amministrativa.
La non consapevolezza del problema da parte del Legislatore si mostra anche in altri istituti che precedono la fase processuale.
L’art. 25 comma III sancisce che “il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso debbano essere motivati”.
Nell’ipotesi opposta l’art. 5 del D.p.r. n. 352/1992 prevede un semplice “atto di accoglimento”, senza considerare l’esigenza di motivazione dettata dalla possibile lesione di posizioni giuridiche dei terzi (nella fattispecie il diritto di riservatezza).
Inoltre il D.p.r. n. 352/1992, accanto al procedimento formale di accesso (art. 4), disciplina anche una procedura “informale”, nella quale l’Amministrazione, prima di consentire la visione degli atti, valuta solo l’assenza di “dubbi sull’accessibilità”. Il controinteressato non viene quindi tutelato, né gli viene data la possibilità di venire a conoscenza dell’accesso, poiché la determinazione della Pubblica Amministrazione non si concretizza in un atto espresso e motivato.
Alcuni autori (Cfr. MAZZAMUTO, La tutela del segreto ed i controinteressati al diritto di accesso, in Dir. Proc. Amm., n.1, 1995, p.97. ), per attenuare la situazione di sfavore per il controinteressato all’accesso, hanno proposto di considerare l’accesso informale alla stregua di ogni altro procedimento amministrativo, con la conseguente applicabilità delle norme del capo III della L. n. 241/1990. Ne discenderebbe l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento (art. 7) e l’applicazione del principio generale di motivazione del provvedimento (art. 3). Questa impostazione, pur essendo teoricamente corretta sia per il procedimento formale che per quello informale, è da escludere per il secondo, poiché, un tale appesantimento, pregiudicherebbe i caratteri di immediatezza che lo caratterizzano.
Questo è uno dei motivi per cui molti reputano l’accesso informale un istituto da abrogare il più celermente possibile.
La tutela del controinteressato come mezzo per bilanciare opposte esigenze: la riservatezza dei terzi e la trasparenza dell’azione amministrativa.
Al titolare del diritto alla riservatezza dovrebbe essere riconosciuto un ruolo sia nel procedimento che nel processo, al fine di rendere tutelabile, e quindi concreto, il suo diritto.
Per quanto riguarda il procedimento la L. n. 241/1990 regolamenta la partecipazione del terzo, ed inoltre il Consiglio di Stato ha precisato che il terzo deve essere posto in grado di indicare i documenti o le parti di documenti la cui divulgazione possa nuocere alla sua riservatezza. (Con. di Stato, sez. IV, sen. 26 novembre 1993, n. 1036)
Più complessa appare la sfera processuale. Un filone consistente della giurisprudenza si è orientato nel senso di attribuire al titolare del diritto alla riservatezza la posizione di controinteressato nel processo offrendogli così la tutela che la legge sembra negargli.
In particolare, il Consiglio di Stato (Con. di Stato, sez. IV, sen. 7 marzo 1994, n. 216) ha ritenuto che “come il richiedente è legittimato ad impugnare il diniego di accesso opposto dall’Amministrazione, così anche il terzo, cui la documentazione pertiene, è legittimato ad impugnare il provvedimento di accoglimento dell’istanza di accesso che ritenga lesivo del suo diritto alla riservatezza, ovvero a contraddire alla pretesa di accesso azionata giudizialmente dal richiedente, assumendo la veste di controinteressato e , quindi, di contraddittore necessario nel relativo giudizio”.
In un altro caso è stato inoltre affermato che ” il titolare del diritto alla riservatezza deve essere messo in grado di eccepire tale suo diritto in relazione alla indistinta richiesta di accesso agli atti che, se consentita nella sua integrità, potrebbe violarlo”; se ne è concluso che “il ricorso di primo grado deve essere considerato inammissibile per mancata notificazione all’unico controinteressato” (Con. di Stato, sez. IV, sen. 15 settembre 1994, n. 713).
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 16 del 24 giugno 1999, ha affermato che i soggetti ai quali si riferiscono i documenti richiesti “vanno considerati come controinteressati” ed il ricorso presentato in caso di diniego all’accesso da parte della Pubblica Amministrazione deve essere ad essi notificato, in applicazione al principio generale enunciato dall’art. 21 comma I della L. n. 1034/1971. Il procedimento che inizia a seguito dell’istanza di accesso, del quale i controinteressati vanno resi edotti ai sensi dell’art. 7, può costituire quindi il necessario terreno di vaglio degli opposti interessi, ai quali potrebbe seguire un processo dove le parti devono essere entrambi presenti.
Questo indirizzo non è però unanimemente condiviso.
Clarich ( Diritto di accesso e tutela della riservatezza: regole sostanziali e tutela processuale, in Dir. proc. Amm., n. 3, 1996, p. 442) reputa che, conferendo al terzo il potere di adire il giudice, l’esecuzione del diritto di accesso dovrebbe attendere il decorso del termine di trenta giorni per impugnare, e questo sarebbe eccessivamente lesivo per un soggetto che deve tutelare i propri interessi. L’autore nota, inoltre, come il soggetto che pone in essere domanda di accesso non sia sempre in grado di individuare ex ante i soggetti titolari del diritto alla riservatezza, in quanto non conoscendo il contenuto preciso delle informazioni richieste, non può sapere con esattezza se ed in che misura esse sono riservate. Queste considerazioni portano ad interrogarsi se la soluzione più adeguata per comporre gli opposti interessi sia attribuire al titolare del diritto di riservatezza la posizione di contraddittore necessario nel processo ex art. 25.
A questo punto, non si può più prescindere da una valutazione di come il lato sostanziale del diritto di accesso possa incidere sulla sua tutela processuale.
Se si considerasse il diritto di accesso un diritto soggettivo vero e proprio, si potrebbe sostenere che il giudizio ex art. 25 sia rivolto all’accertamento di questo diritto.
Qualora si ritenesse di essere in un contesto di accertamento, si verrebbe a delineare una ipotesi di litisconsorzio necessario, per il principio generale di omogeneità nel trattamento dei diritti soggettivi. La P.A., il soggetto richiedente l’accesso ed il terzo a cui i dati si riferiscono, dovrebbero essere quindi presenti in giudizio in base al principio del contraddittorio.
Della questione della natura giuridica del diritto di accesso si è occupata in via definitiva l’Adunanza Plenaria nella stessa decisione n. 16 del 1999, notando come il Legislatore ha qualificato come diritto la posizione di chi ha titolo ad accedere ai documenti, ma, in considerazione degli interessi pubblici coinvolti, ha disposto (art. 25 comma III) un termine perentorio oltre il quale è possibile il ricorso contro le determinazioni amministrative. Secondo i giudici, il legislatore ha voluto in tal modo considerare tutti gli interessi in conflitto: quelli del richiedente, quelli dell’Amministrazione che detiene gli atti, ed infine quelli dell’eventuale terzo cui gli atti richiesti si riferiscono.
Inoltre la tesi è avvallata dal fatto che l’Amministrazione ha il dovere di provvedere all’istanza di accesso con u atto motivato ( art. 25 comma III) pertanto idoneo a determinare uno stabile assetto degli interessi coinvolti, modificabili in sede giurisdizionale solo nel caso di impugnazione innanzi al T.A.R. entro il termine perentorio di trenta giorni.
Il diritto di accesso identifica, quindi, una posizione soggettiva di interesse legittimo.
Dovendo accogliere l’impostazione dell’Adunanza Plenaria, ne discende che l’atto che concede l’accesso sia un provvedimento amministrativo in senso stretto, e quindi il giudizio ex art. 25 è un processo di impugnazione di tipo tradizionale, volto alla cassazione di un provvedimento illegittimo. Nel processo amministrativo tradizionale i controinteressati sono i soggetti contemplati nel provvedimento impugnato e ai quali l’atto direttamente si riferisce o coloro che hanno un interesse giuridicamente qualificato alla conservazione del provvedimento in quanto hanno conseguito da tale atto una posizione giuridica di vantaggio (Cfr. Con. di Stato, sez. V, sen. 19 novembre 1994, n. 1338; Con. di Stato, sez. VI, sen. 1 marzo 1995, n. 235 ove si precisa che “controinteressato” è colui che dall’atto impugnato abbia conseguito una posizione giuridica di vantaggio, e che, quindi, di quella posizione si troverebbe privato a causa dell’annullamento del provvedimento stesso; inoltre cfr. Con. di Stato, sez. V, sen. 14 aprile 1993, n. 491, ove si precisa che i controinteressati vanno individuati esclusivamente in coloro che abbiano acquistato sulla base dell’atto impugnato una posizione giuridica di vantaggio in via immediata; pertanto siffatta ipotesi è riscontrabile soltanto nel caso che l’attribuzione della posizione giuridica corrisponda alla funzione dell’atto).
Il titolare del diritto alla riservatezza non trae alcuna posizione di vantaggio dal diniego di accesso e quindi non può essere considerato controinteressato necessario. Il diritto alla riservatezza non nasce con l’atto di diniego all’accesso, ma è ad esso preesistente non crea una nuova posizione di vantaggio per il terzo.
Nella stessa sentenza sembra quindi esservi una contraddizione, superabile soltanto uscendo dagli schemi classici del processo di impugnazione. E’ infatti stato ritenuto (FIGORILLI, Il contraddittorio nel giudizio speciale sul diritto di accesso, in Dir. proc. Amm., 1995, p. 598) che il rapporto tra il titolare del diritto di accesso e il titolare del diritto alla riservatezza deve essere qualificato come un “rapporto con pluralità di parti” le quali devono essere evocate in giudizio in base ai principi generali del contraddittorio, dando origine ad una ipotesi di litisconsorzio necessario analogo a quello disciplinato dall’art. 102 del C.p.c.
Clarich (Diritto di accesso….cit., p. 449) invece non considera questo un unico rapporto avente una pluralità di parti, notando invece l’esistenza di due rapporti distinti, aventi però un soggetto in comune: la Pubblica Amministrazione. Tra il titolare del diritto di accesso e il titolare del diritto di riservatezza, secondo l’autore, non intercorrerebbe un rapporto giuridico diretto, mentre un rapporto bilaterale si instaurerebbe tra i titolari dei due diritti e l’Amministrazione. Quest’ultima sarebbe quindi un soggetto che crea due rapporti distinti, ma tra loro collegati, in quanto il contenuto oggettivo del dovere di consentire l’accesso è limite del dovere di mantenere segrete alcune informazioni e viceversa: “il primo si espande fino al punto in cui non incontra la tutela del secondo”. (Diritto di accesso….cit., p. 450).
Questo però, secondo Clarich, non giustificherebbe una applicazione dell’istituto del litisconsorzio necessario in quanto nel giudizio non è indispensabile la presenza di entrambi i soggetti.
Lo strumento dell’opposizione di terzo semplice di cui l’art. 404 comma I del C.p.c, ammessa anche nel processo amministrativo da una sentenza della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, 17 maggio 1995, n. 177), apparirebbe migliore.
Si arriverebbe così a ritenere che il titolare del diritto di accesso, al quale l’Amministrazione appone il diniego, possa proporre ricorso senza dovere informare il titolare del diritto alla riservatezza, in veste di contraddittore necessario, dell’avvio del procedimento. Clarich afferma inoltre che il titolare del diritto alla riservatezza non sia legittimato ad impugnare il provvedimento che accoglie la richiesta di accesso. Questi per tutelare il proprio diritto potrebbe infatti intervenire in giudizio come interveniente ad opponendum o in seguito con opposizione di terzo e richiedere il risarcimento del danno all’Amministrazione che abbia consentito l’accesso ad informazioni riservate.
A questo punto occorre però chiedersi se il diritto alla riservatezza sia tutelato dallo strumento dell’opposizione di terzo. Chi ha richiesto l’accesso a determinati documenti infatti, in caso di successo dell’opposizione, non potrà più utilizzarli per difendere i suoi interessi, ma è già a conoscenza di informazioni del terzo. Questo potrebbe essere sufficiente per portare una utilità al soggetto istante e certamente pregiudicherebbe la riservatezza del terzo.
Alcune considerazioni sul tema.
Nel 1997 l’Adunanza Plenaria ( sen. 4 febbraio 1997, n. 5) ha stabilito che in base alla lettera dell’art. 24 comma II della L. n. 241/del 1990, ” non sembra esservi dubbio che nel conflitto tra accesso e riservatezza dei terzi, la normativa statale abbia dato prevalenza al primo, allorché questo sia necessario per curare o difendere i propri interessi giuridici” ed inoltre, che “il contemperamento delle opposte esigenze sia stato operato attraverso l’apposizione del divieto di ottenere copia dei documenti o di trascriverne il contenuto, limitando l’accesso alla semplice visione”.
E’ stato quindi affermato che l’interesse alla riservatezza è sempre da considerarsi recessivo di fronte al diritto di accesso, quando questo sia esercitato per curare o difendere gli interessi giuridici del richiedente.
Il criterio affermato, ed ancora oggi non ritoccato dall’Adunanza Plenaria, si presenta talmente rigido e privo di eccezioni, che l’unico modo per consentire uno spazio alla riservatezza è quello di specificarne e definirne, in modo chiaro, gli ambiti applicativi, al fine di evitare un suo uso incondizionato.
Gli elementi centrali del dettato normativo sono due: in primo luogo, la dimostrazione, del richiedente, della titolarità di un “interesse giuridico”, e, in secondo luogo, la “necessità” della conoscenza degli atti per curare e difendere questo interesse.
Questi due elementi devono essere entrambi definiti per giungere ad una corretta applicazione dell’istituto, ma portano a considerazioni molto diverse tra loro.
Nel delineare il concetto di “interesse giuridici” si compie una operazione del dato normativo; è quindi lasciato all’interprete, ed in particolare ai giudici, il compito di dare un significato concreto a queste parole. Al fine di evitare che i casi di salvaguardia della riservatezza si riducano sensibilmente, la maggioranza della dottrina (per tutti, BOMBARDELLI, commentando la sen. n. 5 del 1997 dell’ A.P. in La riduzione dei limiti all’accesso dei documenti amministrativi, in Gior. Dir. Amm., n. 11, 1997, p.1019) ha affermato la necessità di mantenere distinto il concetto di “situazione giuridicamente rilevante”, considerato dall’art. 22 comma I della L. n. 241/1990 una condizione legittimante al diritto di accesso, e il concetto di “interessi giuridici”, per la cui cura può essere sacrificata la riservatezza di terzi.
Come si è avuto modo di notare, il concetto di “situazione giuridicamente rilevante”, a cui l’interesse ad accedere deve essere collegato, ha subito una evoluzione nel corso del tempo. Nelle prime pronunce (Con. di Stato, sez. IV, sen. 26 novembre 1993, n. 1036; Con. di Stato, sez. VI, sen. 18 ottobre 1995, n. 1190), il presupposto per l’accesso era la sussistenza di una situazione giuridicamente protetta dall’ordinamento, come il diritto soggettivo o l’interesse legittimo. In un secondo momento, per evitare un eccessivo restringimento degli spazi di accesso, la giurisprudenza ha optato per una nozione estensiva del concetto e, pur continuando a non comprendervi gli interessi di fatto, ha superato la rigida dicotomia interesse legittimo-diritto soggettivo, affermando che “la situazione che legittima l’accesso deve identificarsi in tutte quelle posizioni utili cui l’ordinamento riconosce una forma di tutela, comprese le legittime aspettative e gli interessi diffusi” (Con. di Stato, sez. IV, sen. 2 febbraio 1996, n. 98).
Nel ristretto ambito ora esaminato, il concetto di “interesse giuridico” deve, invece, essere considerato coincidente con le sole posizioni soggettive corrispondenti a interessi legittimi e diritti soggettivi, questo poiché la riservatezza è un diritto inviolabile dell’individuo, e, in quanto tale, “può essere sacrificato solo nei limiti della stretta necessità e per tutelare interessi di egual valore” (Corte Costituzionale, 30 dicembre 1994, n. 463).
Passando all’esame del requisito della “necessità”, le considerazioni sono completamente diverse, in quanto in questo caso si è in presenza di una “valvola” che il Legislatore ha lasciato all’Amministrazione e dove si inserisce la discrezionalità di quest’ultima.
E’ stato quindi lasciato all’Amministrazione il compito di definire il requisito della “necessità”, e questa, a differenza di quanto avviene in sede interpretativa per il concetto di “interesse”, e questa, a differenza di quanto avviene in sede interpretativa per l’individuazione del concetto di “interesse”, agirà caso per caso, attraverso una contemperazione di interessi in concreto.
Autorevole dottrina (CLARICH, Diritto di accesso…, cit., p.458; SANDULLI, commentando la sentenza n. 5 del 1997 dell’ A.P, in La riduzione dei limiti all’accesso ai documenti amministrativi, in Gior. Dir. Amm., n. 11, 1997, p. 1022) ha sostenuto che tale locuzione sia da intendere nel senso di “indispensabilità”; l’interessato, per esercitare il diritto di accesso, dovrebbe dimostrare che questo è l’unico modo per giungere a quella determinata informazione.
Nei confronti della Pubblica Amministrazione, un soggetto può trovarsi nella necessità di tutelare i propri interessi sia nel corso di un procedimento sia nell’ambito processuale.
In sede processuale sono previsti strumenti che consentono al giudice di acquisire d’ufficio i documenti in possesso dell’Amministrazione. Nel processo amministrativo , il principio dispositivo, il quale lascia alle parti la disponibilità delle prove, coesiste con il principio acquisitivo, in virtù del quale il giudice, in aggiunta al materiale probatorio fornito dalle parti, ha la facoltà di procedere alla raccolta di qualsiasi mezzo di prova utile ai fini della decisione (Cfr. SATTA, PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1996, p. 1240). Il processo civile ordinario, al contrario, è caratterizzato dal principio dispositivo e da quello dell’onere della prova, secondo l’art. 115 del C.p.c., riassumibile nel noto brocardo iudex iusta alligata et probata iudicare debet. Anche in questo ambito è presente, però, una eccezione prevista dalll’art. 213 del C.p.c.: questo infatti prevede la possibilità per il giudice di “richiedere, d’ufficio, alla pubblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo”.
Dunque, se il requisito della necessità coincidesse con l’assenza di mezzi di informazione alternativi all’accesso, quest’ultimo potrebbe essere negato per la sussistenza dello strumento processuale, con conseguente prevalenza della riservatezza sulla trasparenza.
Soluzione opposta dovrebbe invece aversi riguardo all’accesso c.d. partecipativo, volto alla cura di un interesse giuridico nel corso di un procedimento. In questa sede, il solo mezzo consentito per pervenire a conoscenza della documentazione, è la facoltà di accedere agli atti, prevista dall’art. 10 della L. n. 241/1990. In tal caso, ricorrerebbe, infatti, il requisito dell’indispensabilità del documento, con la conseguenza che il diritto alla riservatezza dei terzi dovrebbe recedere di fronte all’esercizio del diritto di accesso da parte del titolare dell’interesse.
Questa impostazione non è però aderente al testo normativo, il quale, anche su questo punto, non lascia spazio ad interpretazioni.
Secondo la norma ciò che deve essere “necessario” è la conoscenza dell’informazione, non il mezzo attraverso il quale la si raggiunge. Il soggetto ha diritto di accedere non solo per difendere i propri interessi, ma anche per curarli, e quindi per valutare in prima persona, e prima di giungere davanti ad un giudice, se vi sia lesione di un suo diritto o interesse legittimo. Non concedere il diritto di accesso all’interessato, qualora sia nella posizione di richiedere al giudice l’ordine di esibizione, non appare quindi corrispondente al dettato normativo.
A parere di chi scrive, ciò che dovrebbe essere valutabile caso per caso, non è il bilanciamento tra accesso e riservatezza, ipotesi esclusa dall’Adunanza Plenaria, ma il fatto che l’informazione richiesta sia indispensabile per la tutela dei diritti dell’istante. Questa è una valutazione discrezionale lasciata all’Amministrazione, ed, in quanto tale, sindacabile dal giudice in sede di impugnazione.
Il soggetto istante, non conoscendo il contenuto delle informazioni, non può essere certo che il documento richiesto sia necessario per curare e difendere i propri interessi giuridici, e quindi questa valutazione deve essere compiuta necessariamente dall’Amministrazione.
Se il diritto di accesso è stato considerato una posizione soggettiva di interesse legittimo, il diritto alla riservatezza è invece considerato da molto un vero e proprio diritto soggettivo.
Nel 1975 la Corte di Cassazione (sez I, sen. 27 maggio 1975, in relazione alla causa tra ex l’imprenditrice Soraya contro l’editore Rusconi) affermò esplicitamente l’esistenza del diritto alla riservatezza, tutelando quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile. La vita privata era quindi protetta contro quelle ingerenze che, sia pur compiute con mezzi leciti e senza offesa per l’onore, la reputazione e il decoro, non fossero giustificate da interessi pubblici preminenti.
Da quel momento il diritto alla riservatezza trovò quindi fondamento nel sistema e nella Costituzione, sganciandosi dalla tutela contro il fatto illecito e dal diritto all’onore o all’immagine, per trovare una rilevanza autonoma. La riservatezza diviene così la libertà da intrusioni della curiosità sociale nella sfera privata, corrispondente ad un diritto avente come oggetto il controllo del flusso delle notizie riguardanti le vicende della propria vita, che apporta la facoltà di impedire la divulgazione dei fatti personali.
La L. n. 675 del 1996 rappresenta, quindi, solo il suggello di questa evoluzione giurisprudenziale che aveva già dato forma e contenuto alla tutela della personalità morale (ZENO ZENOVIC, I diritti della personalità dopo la legge sulla tutela dei dati personali, in Studium iuris, 1997, n. 5, p. 467)
Nel ristretto ambito qui considerato anche la riservatezza deve comunque essere considerato un interesse legittimo ( lo si potrebbe definire un diritto degradato di fronte al potere discrezionale della pubblica Amministrazione).
Così se un soggetto richiede l’accesso a determinati documenti contenenti informazioni riguardanti un terzo, e l’Amministrazione non concede la loro visione, il richiedente potrà ricorrere di fronte al giudice amministrativo per sindacare l’uso del potere amministrativo nel caso concreto.. Altrettanto potrà fare il soggetto a cui i dati si riferiscono in caso di accoglimento della domanda di accesso. Il giudice potrà sindacare l’uso del potere discrezionale, e arrivare a ravvisare una ipotesi di eccesso di potere. Per esempio, potrà considerare l’atto illegittimo perché contraddittorio con altri atti, o perché è presente una disparità di trattamento, o ancora un difetto di motivazione.
Diritto di accesso e diritto alla riservatezza sono quindi posizione giuridiche soggettive, che si riflettono sul piano processuale nel diritto ad una pronuncia che dichiari un atto amministrativo illegittimo o meno, ed il giudice per giungere a questa deve valutare come il potere discrezionale affidato dalla l. n. 241/1990 all’Amministrazione sia stato usato in concreto.
Ne consegue che nel giudizio instaurato dovranno essere presenti sia il richiedente che il terzo che l’Amministrazione; i primi due o nelle vesti di ricorrente o in quella di controinteressato, e quindi contraddittore necessario, in quanto portatore di un interesse legittimo su cui l’atto influisce in modo diretto.
E’ allora fondamentale notare come sia differente l’ipotesi in cui l’Amministrazione non si attenga alla L. n. 675/1996, che regola il trattamento dei dati personali prevedendo obblighi a carico del titolare ed individuando requisiti che legittimano la diffusione dei dati personali riguardanti soggetti terzi. Le situazioni soggettive che fronteggiano questi istituti sono diritti soggettivi, e quindi il terzo, seppur rivolgendosi ad un giudice amministrativi (il quale ha la giurisdizione esclusiva in materia) potrà ottenere una sentenza di accertamento del suo diritto, e non solo una dichiarazione di illegittimità del provvedimento, e la conseguente condanna della Pubblica Amministrazione.
Dott. Federico Ventura
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