– rischio di infezione per il soggetto (riducendo anche il rischio di contagi secondari);
– morbilità e mortalità per il soggetto, se infettato.
L’obbligo è stato introdotto con il D.L.44[1], nell’alveo della legislazione emanata in forza dell’emergenza sanitaria internazionale da SARS-CoV-2/COVID-19, che chiameremo per brevità «legislazione pandemica», di esclusiva competenza statale ex art.117, c.2, lett.q), Cost..
Ci concentreremo sui contesti di assistenza sanitaria, socio-sanitaria e sociale.
Per la Costituzione prima di tutto, la salute. Ma di chi?
Il dibattito si è focalizzato sul diritto alla salute (art.32 Cost.), in linea con la giurisprudenza che valorizza il diritto della persona all’autodeterminazione sulle scelte relative alla salute. Una vaccinazione obbligatoria rappresenta un trattamento sanitario obbligatorio (TSO), e la condizione preliminare di legittimità è l’introduzione nell’ordinamento mediante una legge.
Occorre innanzitutto evitare di contrapporre “interesse della collettività” al “fondamentale diritto dell’individuo”, concentrandosi poi sul TSO disciplinato dal secondo comma: la Repubblica, infatti, è chiamata a tutelare il diritto alla salute di tutti e ciascuno, qui il diritto degli individui che l’obbligo vaccinale intende proteggere non meno dei destinatari dell’ obbligo. Il dibattito, invece, sembra essersi concentrato sulle garanzie da accordare a questi ultimi.
La tutela dell’interesse collettivo non va contrapposta al diritto individuale; lo stesso termine “interesse” implica le questioni più diverse, fino alla visione della salute come bene primario su cui si reggono gli altri. L’affermazione di Mocella, secondo cui con la normativa pandemica “il concetto di salute muta da diritto di ciascuno a non essere contagiato a bene del singolo come parte del corpo sociale, imprimendo un valore fondamentale al concetto di solidarietà espresso dalla nostra Costituzione, che finisce con avere un inedito ruolo limitativo dei diritti di libertà individuali”[2], richiede di distinguere – tra i «singoli» – il «diritto a non essere contagiato» di chi è a maggior rischio di malattia grave, o decesso: qui è doveroso che lo Stato – garante della solidarietà – disponga una speciale protezione, anche attraverso una ragionevole limitazione dell’autodeterminazione di altri soggetti meno svantaggiati.
Tale protezione viene accordata con l’art.4 a chi necessita di prestazioni di assistenza sanitaria e socio-sanitaria, pubblica e privata, erogata in strutture o in studi professionali, o di servizi connessi alla salute, come farmacie e parafarmacie[3].
Comprendiamo ora il rimando ai doveri di solidarietà, di cui la Repubblica “richiede l’adempimento”[4], pena la conclusione che diritti e libertà di un dato individuo prevalgano sempre su ogni diversa considerazione di diritto e di diritti. Il paradigma, dunque, non è tanto quello della dialettica tra diritti individuali e interesse pubblico (nella quale questo finirebbe per cedere), ma della comparazione tra diritti e beni diversi, di cui sono titolari persone diverse, legate da un reciproco vincolo di solidarietà, e del dovere di agenzia dello Stato.
In materia di vaccinazioni si era già espressa la stessa Corte Costituzionale[5], a seguito di ricorso della Regione Veneto sul decreto Lorenzin[6] (che introduceva nuovi ipotesi di obbligo), affermando come una corretta lettura dell’art.32 Cost. imponga di contemperare il diritto individuale con i diritti degli altri consociati e con la tutela della salute collettiva.
La prescrizione di vaccini è legittima a titolo di TSO se giustificata da simili esigenze, supportate da adeguata base scientifica, purché ciò non sia di pregiudizio alla salute del destinatario dell’obbligo; entro tale cornice “la scelta del legislatore statale non può essere censurata sul piano della ragionevolezza per aver indebitamente e sproporzionatamente sacrificato la libera autodeterminazione individuale in vista della tutela degli altri beni costituzionali coinvolti”.
Sia pure per materia diversa (divieto di accertamenti di sieropositività da HIV), la Corte Costituzionale si era così espressa: “(…) le attività che, in ragione dello stato di salute di chi le svolge, rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, possono essere espletate solo da chi si sottoponga agli accertamenti necessari per escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, che siano tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle attività stesse. Non si tratta quindi di controlli sanitari indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti”[7]; e dall’esecuzione degli accertamenti “necessari” deriva l’adozione di provvedimenti proporzionali in ambito lavorativo.
A favore della competenza statale militano tanto la necessità di garantire uguale trattamento nella materia della salute[8], quanto il presupposto della profilassi internazionale, riaffermato dalla Corte Costituzionale in materia di profilassi anti COVID-19[9].
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Gli aspetti giuridici dei vaccini
La necessità di dare una risposta a una infezione sconosciuta ha portato a una contrazione dei tempi di sperimentazione precedenti alla messa in commercio che ha suscitato qualche interrogativo, per non parlare della logica impossibilità di conoscere possibili effetti negativi a lungo termine. Il presente lavoro intende fare chiarezza, per quanto possibile, sulle questioni più discusse in merito alla somministrazione dei vaccini, analizzando aspetti sanitari, medico – legali e professionali, anche in termini di responsabilità. Fabio M. DonelliSpecialista in Ortopedia e Traumatologia, Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Medicina dello Sport. Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano nel Dipartimento di Scienze Biomediche e docente presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino. Già docente nella scuola di Medicina dello Sport dell’Università di Brescia, già professore a contratto in Traumatologia Forense presso l’Università degli Studi di Bologna e tutor in Ortopedia e Traumatologia nel corso di laurea in Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Siena. Responsabile della formazione per l’Associazione Italiana Traumatologia e Ortopedia Geriatrica. Promotore e coordinatore scientifico di corsi in ambito ortogeriatrico, ortopedico-traumatologico e medico-legale.Mario GabbrielliSpecialista in Medicina Legale. Già Professore Associato in Medicina Legale presso la Università di Roma La Sapienza. Professore ordinario di Medicina Legale presso la Università di Siena. Già direttore della UOC Medicina Legale nella Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Siena, membro del Comitato Etico della Area Vasta Toscana Sud, Membro del Comitato Regionale Valutazione Sinistri della Regione Toscana, autore di 190 pubblicazioni.Con i contributi di: Maria Grazia Cusi, Matteo Benvenuti, Tommaso Candelori, Giulia Nucci, Anna Coluccia, Giacomo Gualtieri, Daniele Capano, Isabella Mercurio, Gianni Gori Savellini, Claudia Gandolfo.
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I vaccini e l’autorizzazione condizionata all’immissione in commercio EMEA ed AIFA
È un argomento rilevante per il consenso informato e la tutela dei soggetti eventualmente danneggiati dalla somministrazione[10]; agli effetti dell’obbligo, però la forma emergenziale non appare decisiva, in quanto l’evidenza su efficacia e sicurezza a breve termine dei vaccini così autorizzati è consolidata: resta da risolvere, per il breve orizzonte temporale di osservazione, la questione di eventuali effetti a lungo termine.
Siamo dunque di fronte ad un beneficio certo per molti a fronte della prospettazione per alcuni di un danno eventuale. Si può allora imporre la somministrazione di simili vaccini?
L’incertezza scientifica non può essere superata, e il giurista è chiamato a farne buon governo, perché non si possono chiedere alla scienza certezze che non possiede per proprio statuto epistemologico.
Nuovi conflitti di competenze tra Stato e Regioni?
Il tema dell’obbligo, per la prevenzione delle infezioni occupazionali e delle infezioni correlate all’assistenza (ICA), era stato portato all’attenzione della Corte Costituzionale (una legge della Regione Puglia introduceva un obbligo nelle strutture sanitarie)[11].
Il giudice delle leggi ne dichiarava incostituzionale l’art.1, c.2, in quanto conferiva “alle direzioni sanitarie un potere indefinito e, consentendo loro di rendere obbligatorie anche vaccinazioni non menzionate a livello statale, senza nemmeno operare alcun rinvio al PNPV[12]”, invadendo “l’ambito di competenza riservato al legislatore statale dall’art.117, co.3 Cost.; mentre, sotto altro profilo, il potere di prescrivere obblighi vaccinali senza un’adeguata individuazione a livello di fonte primaria dei presupposti, del contenuto e dei limiti dei suddetti obblighi, trasgredisce la riserva di legge imposta dall’art.32 Cost.”, connessa al principio di eguaglianza (art.3 Cost.).
Apprendiamo così che dell’obbligo dobbiamo esaminare, per riconoscerne la legittimità, presupposti (razionale), contenuti (in cosa consiste e per chi) e limiti (non può essere incondizionato); nel caso di specie si ravvisava poi un ambito di competenza statale.
Superava, viceversa, il vaglio la restante parte, ed in particolare l’art.1, c.1: “La Regione Puglia, al fine di prevenire e controllare la trasmissione delle infezioni occupazionali e degli agenti infettivi ai pazienti, ai loro familiari, agli altri operatori e alla collettività, individua (…) i reparti dove consentire l’accesso ai soli operatori che si siano attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale”. La norma aveva lo scopo di “proteggere la salute di chi frequenta i luoghi di cura: anzitutto quella dei pazienti, che spesso si trovano in condizione di fragilità e sono esposti a gravi pericoli di contagio, quella dei loro familiari degli altri operatori e, solo di riflesso, della collettività”.
È dunque legittimo disciplinare l’accesso a particolari “reparti” in relazione allo stato vaccinale, in quanto la misura afferisce alla sfera dei comportamenti appropriati per garantire la sicurezza delle cure, ossia all’ambito dell’organizzazione sanitaria[13].
Ne usciva anche confermata la potestà legislativa regionale, ponendo le basi per ulteriori conflitti di competenze tra Stato e Regioni/P.A.; e restava irrisolto il problema conseguente della destinazione lavorativa degli operatori non vaccinati.
L’ordinanza del Tribunale di Belluno: infondata la questione di costituzionalità
Il Tribunale si è pronunciato sulla questione di legittimità costituzionale del D.L.44 prospettata dal ricorso di alcune lavoratrici[14]: “(…) va ritenuta manifestamente infondata, dovendosi ritenere prevalente, sulla libertà di chi non intenda sottoporsi alla vaccinazione contro il COVID-19, il diritto alla salute dei soggetti fragili, che entrano in contatto con gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario in quanto bisognosi di cure, e, più in generale, il diritto alla salute della collettività”. L’ordinanza riassume poi le argomentazioni della sentenza n.5/18, concludendo che “il necessario contemperamento dei molteplici principi di rilevanza costituzionale lascia spazio alla discrezionalità del legislatore, la quale dev’essere esercitata altresì alla luce delle condizioni sanitarie ed epidemiologiche”.
Il Consiglio d’Europa: non discriminare uno potrebbe avere effetto discriminatorio per un altro
Viene spesso richiamata da fonti contrarie all’obbligo una risoluzione del Consiglio d’Europa[15], che sottolinea la necessità di “garantire che i cittadini siano informati che la vaccinazione NON è obbligatoria e che nessuno sia politicamente, socialmente o altrimenti sottoposto a pressioni (…); (…) garantire che nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato, a causa di possibili rischi per la salute o per non voler essere vaccinato; (…) adottare tempestivamente misure efficaci per contrastare la disinformazione e l’esitazione riguardo ai vaccini Covid-19”.
La preoccupazione era di impedire discriminazioni dei soggetti non disposti a vaccinarsi.
La determinazione a non vaccinarsi rappresenta una “convinzione personale”, tutelata dalle normative UE; l’art.4 della Direttiva 2000/78/UE[16] prevede però che gli Stati membri possano stabilire che un differente trattamento in ambito lavorativo, basato su caratteristiche connesse ai motivi di cui all’art.1, non sia discriminatorio, laddove, per natura o contesto dell’attività, rappresenti un requisito essenziale, purché la finalità sia legittima, e il requisito proporzionato.
L’art.4 in parola non appare in contrasto con queste disposizioni.
L’obbligo tra le disposizioni già presenti nell’ordinamento e la nuova disciplina speciale
Si è notato che “il fatto che la legge abbia dettato una disciplina speciale [il D.L.44], prevedendo l’obbligo per gli operatori sanitari, ha già consentito di dire, con il classico argomento a contrario, che per tutti gli altri lavoratori non esista obbligo di sorta”[17]. Sono sostanzialmente due le tesi che rinvengono già nelle norme vigenti la possibilità di introdurre un obbligo come misura di prevenzione in ambito lavorativo: la tesi contrattualistica e la trattazione all’interno del paradigma del D.Lgs.81/08[18].
La visione contrattualistica
I commentatori hanno rilevato una tensione tra principi (libertà nelle scelte relative alla salute e prevenzione), che sarebbe però “più teorica che reale, perché, aldilà delle divergenti premesse, la dottrina ha comunque riconosciuto, salvo rare eccezioni, che il rifiuto del vaccino non sia, sul piano della conseguenze, un atto neutro e senza effetti sul rapporto di lavoro. E che il datore debba farsi carico dell’omissione mettendo il lavoratore potenzialmente pericoloso in condizione di non nuocere (con una reazione disciplinare oppure in quanto oggettivamente inidoneo)”[19].
Esaminiamo la posizione di Ichino: “Chi vive del proprio lavoro accetta la possibilità che – pur in assenza di alcuna norma legislativa da cui derivi l’obbligo di una determinata vaccinazione per tutti – gli si chieda di vaccinarsi, perché il contratto gli impone di rispettare le direttive, purché rispondenti al requisito fondamentale della ragionevolezza, impartite dal datore di lavoro circa le misure di protezione”[20]. Non sarebbe quindi vietato “che il titolare di un diritto fondamentale possa autolimitarsi nel suo esercizio, e farne oggetto di rapporti contrattuali”[21]; eppure la giurisprudenza civile e penale esclude che tutti i diritti siano «contrattabili».
Una volta ammessa la possibilità, il problema si sposta sull’esigibilità nei confronti di chi non acconsenta alla misura “ragionevole” in costanza di rapporto (in fase preassuntiva si tratterebbe invece di introdurre un requisito non previsto per legge); come pure sulla difficoltà di dimostrare che il lavoratore sia effettivamente libero nelle sue determinazioni.
In tal modo si sposta sul datore di lavoro l’onere di introdurre una tale clausola (e cosa accadrebbe a chi “ragionevolmente” si determinasse in senso diverso, e si vedesse addebitare tale comportamento a titolo di mancata protezione ex art.2087 c.c.[22] [23]?).
Questo approccio non appare dunque risolvere il problema, coprendo i casi in cui si riesca a convenire, in modo più o meno spontaneo, sul consenso. Supporta tale conclusione anche il Protocollo condiviso del 6 aprile 2021[24]: le parti convengono sul carattere volontario della vaccinazione; e anche le disposizioni sulle vaccinazioni nei luoghi di lavoro[25] ne sottolineano la non obbligatorietà.
Le ipotesi delle conseguenze di danno a terzi
L’agire nell’esercizio di un diritto[26] non esclude che si debba rispondere di eventi dannosi che ne derivassero, come sarebbe invece il caso di una neutralità della scelta.
Questa constatazione dà conto delle posizioni di chi ravvisa possibili profili di responsabilità, persino penale, del lavoratore non vaccinato che contagiasse colleghi o assistiti: si tratti del naeminem laedere, o di specifici doveri, o di posizione di garanzia, chi rifiutasse di riconoscere un fumus boni iuris si dovrebbe confrontare con l’inderogabile dovere di proteggere il più debole, che qui non è l’operatore nel rapporto di lavoro, e/o si autodetermina sulla propria salute, ma l’assistito che si affida alle sue prestazioni (e alla struttura). In altre parole, l’operatore potrebbe esercitare il diritto a non vaccinarsi e svolgere lavoro che non comportino obbligo; mentre l’assistito abbisogna di cure, e non può scegliere da chi farsi assistere (se non nel caso del «libero professionista»), e – spesso – neppure in quale struttura.
La responsabilità degli esercenti strutture sanitarie e sociali
La questione si complica poi con la comparsa di un terzo soggetto, il datore di lavoro della struttura sanitaria o socio-sanitaria, che su di sé porta la responsabilità generale dell’attività, e che si potrebbe rispondere del danno cagionato dal lavoratore.
La tutela nell’assistenza include la prevenzione delle ICA, e il dato che si versi in un’emergenza di sanità pubblica va ad aggiungere nuove disposizioni alle procedure da applicare come corrette (e doverose) pratiche assistenziali. Che, alla luce di una consolidata giurisprudenza[27], si tratti qui di responsabilità contrattuale nessuno può dubitare, tanto nel caso di un vero e proprio contratto, quanto del c.d. cont(r)atto sociale. Non è irrilevante la finalità dell’obbligo (art.4, c.1): “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza” – in tal modo la norma definisce l’ambito di applicazione: i contesti di cura e assistenza, per “mantenere adeguate condizioni di sicurezza”.
L’obbligazione di mezzi che caratterizza la responsabilità contrattuale in ambito civilistico (che poi spesso tracima in ambito penale) vincola l’esercente le attività a dimostrare di aver erogato le prestazioni secondo le norme e le leges artis.
Le sirene del T.U.: un canto a cui l’Ulisse legislatore è rimasto sordo
L’inquadramento a titolo di emergenza di sanità pubblica non consente di accantonare come del tutto irrilevanti gli obblighi che discendono dal T.U. e dall’art.2087 c.c.[28].
La vaccinazione può essere intesa come misura di prevenzione infortuni[29] (a titolo di infortunio è assicurato il contagio professionale da SARS-CoV-2[30]), il che obbligherebbe il datore di lavoro a prenderla in considerazione per assolvere al proprio debito di sicurezza.
La correttezza dell’argomentazione secondo cui dal campo di applicazione del T.U. è esclusa, con eccezioni[31], la tutela diretta di terzi va a contenere gli entusiasmi di chi consideri l’obbligo attratto nella sfera del T.U; a tanto condurrebbe anche la finalità di “tutelare la salute pubblica”.
Non è però giustificato concludere in tal senso, perché – eccettuati i liberi professionisti che operano nel loro studio – gli obbligati sono essi stessi lavoratori a rischio, meritevoli di protezione[32].
La Suprema Corte considera poi le norme del T.U. come criteri di tutela penale nei caso di reati di evento in ambiente di lavoro a danno di «terzi», col presupposto che le regole cautelari sono, al di fuori di particolarità del caso concreto, le medesime che salvaguardano salute e sicurezza dei lavoratori.
Le responsabilità datoriali in quanto dominus dell’organizzazione ai fini della salute e sicurezza si vanno infine ad integrare con quelle di esercente l’attività.
Occorre allora individuare come le disposizioni del D.L.44 si vadano ad incrociare con quelle del T.U., tanto da prospettare una necessità di coordinamento.
Schematicamente si può descrivere il profilo di rischio occupazionale riconducibile al SARS-CoV-2 attraverso due casi generali: a) è sufficiente adottare le misure contenute nel Protocollo condiviso 24 aprile 2020[33] e s.m.i.; b) sono necessarie ulteriori misure, in funzione di un particolare rischio nelle attività esercitate. In entrambi i casi è richiesta una valutazione dei rischi (VdR) ai sensi dell’art.29, T.U., per garantire i lavoratori; è stato osservato che tale processo è di fatto governato dall’autorità sanitaria[34], ma tale affermazione non considera la (necessaria) conoscenza del datore di lavoro delle proprie attività e dei propri ambienti.
Viene richiamato poi il dovere generale dei lavoratori previsto dall’art.20, c.1, T.U.: “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.Una lettura estensiva, sino ad un dovere a vaccinarsi, appare senz’altro suggestiva[35]; la disposizione ha portata generale, persino a rischio di rappresentare un caso di norma in bianco, se non vi fosse un richiamo al contesto (“conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro) che ne limita l’esigibilità – tanto che altri[36] ritengono che sia insufficiente a soddisfare i requisiti dell’art.32 Cost.
Il titolo X del T.U. prevede un obbligo di VdR attraverso specifici criteri (art.271), con due ipotesi:
–uso di un agente biologico, come per le attività di laboratorio;
–esposizione ad un agente biologico.
Il virus SARS-CoV-2 è classificato dall’UE come agente biologico pericoloso di gruppo 3[37], il che comporterebbe in ambito sanitario l’adozione delle misure del corrispondente livello[38]; tali norme sono state di fatto derogate dalla normativa pandemica, dettando modalità operative emergenziali a fronte del carico di pazienti da assistere, e di dotazioni inadeguate, almeno nella fase iniziale, di DPI, dispositivi medici, personale e spazi fisici.
Il titolo X prevede tra le misure di prevenzione anche la vaccinazione (art.279, c.2): “Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico (…)”.
Il medico competente deve fornire “ai lavoratori adeguate informazioni (…) sui vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione”[39].
Si tratta quindi di una modalità ben diversa da quella di un obbligo di legge, in quanto:
– è il medico competente a proporre (il datore di lavoro necessita di un suo “conforme parere”) la misura, “anche per motivi sanitari individuali”;
– il datore di lavoro deve considerare l’applicazione nel documento di valutazione dei rischi;
– la vaccinazione è “messa a disposizione”, locuzione che mal si accorda con la nozione di obbligo;
– il lavoratore può esprimere un dissenso informato e non vaccinarsi;
– non si prevedono automatismi tra la “non vaccinazione” e un’eventuale inidoneità alla mansione specifica, o l’adozione di provvedimenti datoriali[40].
Occorre qui esaminare il caso, del tutto simmetrico, del lavoratore non vaccinato soggetto all’obbligo di cui all’art.4, che si presenti a visita in una delle ipotesi di sorveglianza sanitaria (art.41, c.2, T.U.): il medico competente potrebbe valutarlo non idoneo alla mansione specifica sulla base di “condizioni sanitarie individuali”[41], ovvero per profili di rischio formalmente valutati particolarmente elevati. La mancata vaccinazione di un lavoratore obbligato, infatti, ne vieta l’impiego in mansioni a rischio di contagio – ma a monte di un eventuale giudizio di idoneità, in quanto il c.6 dispone una variazione di mansioni (e, ove impossibile, la sospensione) a cura del datore di lavoro senza preventiva valutazione medica[42]).
La motivazione della tutela di terzi, invece, non può essere considerata nel giudizio di idoneità, in quanto estranea alle finalità e al campo di applicazione del T.U.
Pare fondato, allora, il timore che si vada a trasferire, almeno in parte, sul medico competente[43] quell’onere che abbiamo già mostrato gravare sul datore di lavoro.
Infine: il percorso di repechage a seguito della non idoneità[44] è ben diverso da quanto disposto dal D.L.44 per il lavoratore non vaccinato.
Per una ricostruzione del quadro normativo si rimanda a Guariniello[45], che tuttavia espone tesi diverse sulla rilevanza del T.U. in relazione all’obbligo.
La ricerca di una soluzione nella cornice normativa del T.U., per quanto attraente, non conduce quindi ad esiti davvero appaganti, tanto che il legislatore ha resistito a questa fascinazione, ed ha optato per una norma ad hoc; le considerazioni qui formulate costituiscono però un riferimento per le attività non disciplinate dal D.L.44.
Esame del testo
La finalità è esplicitata al c.1: “…tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, non senza riflessi in ambito lavorativo: “La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati… che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.
Sono pertanto due le tipologie di prestazioni vietate, se possano comportare: a) “contatti interpersonali”; b) “in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio”.
I destinatari
Il doppio riferimento (esercizio della professione e prestazioni lavorative) va a costituire due categorie di requisiti, soggettivi ed oggettivi (c.1): “Gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’art.1, c.2, della legge 1° febbraio 2006, n.43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita”.
Tab.2 – Criteri soggettivi e di attività per individuare i soggetti obbligati.
Operatori interessati | Norme di riferimento | Attività in cui è resa la prestazione | Norme di riferimento |
Esercenti professioni sanitarie | Norme istitutive della rispettiva professione | Strutture sanitarie
Strutture socio-sanitarie Strutture socio-assistenziali Studi professionali Farmacie Parafarmacie |
Normative nazionali e regionali relative ad autorizzazione ed esercizio |
Operatori di interesse sanitario | L.1 febbraio 2006, n.43 (art.1, c.2) |
Non sono invece rilevanti la natura pubblica o privata dell’attività, né la tipologia contrattuale.
I requisiti soggettivi ed oggettivi devono ricorrere contemporaneamente, con un’ulteriore condizione: che la prestazione implichi contatti interpersonali o comporti rischi di contagio.
È evidente che si possono individuare altre tipologie di lavoratori che, pur non rispondendo ai criteri soggettivi, soddisfano gli altri due (operano cioè in attività coperte dalla norma, con prestazioni a rischio di contagio).
“La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”[46]. Si delinea così un doppio pacchetto di limitazioni (requisito per lo “svolgimento delle prestazioni lavorative” per tutti gli obbligati, per i professionisti sanitari anche per l’ “esercizio della professione”).
La già citata sentenza della Corte Costituzionale n.5/18 aveva affermato che “i valori costituzionali coinvolti (…) sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute individuale e collettiva”, anche la necessità di considerare ulteriori aspetti; “il contemperamento di questi molteplici principi lascia spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività (…). Questa discrezionalità deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte (…), e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore”.
Gli operatori di interesse sanitario: il Parlamento inserisce una norma “federalista”
Il rimando all’art.1, c.2, L.1 febbraio 2006, n.43[47], introdotto in sede di conversione, precisa una nozione di “operatore di interesse sanitario” formulata in modo generico, ma presta il fianco a critiche, rimettendo alle normative regionali la definizione degli obbligati, in una cornice «pandemica» di competenza statale e di portata generale: non è possibile procedere qui ad una ricognizione puntuale delle disposizioni pertinenti, ma tale scelta appare irrazionale.
Altra questione si pone per gli addetti alle pulizie non in possesso di specifica qualifica, che possono oltretutto essere dipendenti di un appaltatore: per costoro non si può parlare di operatori di interesse sanitario, anche se si possono ritrovare nelle medesime condizioni di rischio (e strutture), di operatori obbligati che svolgano i medesimi compiti: sono infatti da rigettare ipotesi di interpretazione estensiva, o analogica.
Pascucci e Lazzari[48] si chiedono (concludendo in senso negativo) se, nel caso di servizi prestati tramite contratti di appalto presso attività soggette all’obbligo, il committente possa pretendere la messa a disposizione esclusivamente di personale vaccinato, magari attraverso una clausola contrattuale richiamata nel documento di valutazione dei rischi interferenti[49].
Una comunicazione avvia il percorso (c.3)
“Entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmette l’elenco degli iscritti, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma (…). Entro il medesimo termine i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali trasmettono l’elenco dei propri dipendenti (…) alla regione o alla provincia”.
Incidentalmente, nessuna sanzione è prevista per la mancata comunicazione.
Adempimenti a cura della Regione/P.A. (c.4)
“Entro dieci giorni (…), le regioni e le province autonome (…) verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi. Quando dai sistemi informativi (…) non risulta l’effettuazione della vaccinazione (…) o la presentazione della richiesta (…), la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’azienda sanitaria locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati”.
Adempimenti a cura delle ASL e dell’interessato (c.5)
“Ricevuta la segnalazione”, la ASL “invita l’interessato a produrre, entro 5 giorni dalla ricezione (…), la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione o l’omissione o il differimento (…) ai sensi del c.2, ovvero la presentazione della richiesta (…) o l’insussistenza dei presupposti (..). In caso di mancata presentazione della documentazione” la ASL, decorsi i 5 giorni, “invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione (…), indicando le modalità e i termini (…). In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta (…) invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre 3 giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento”.
Le opzioni a disposizione dell’interessato e le possibili risposte AS: un dialogo tra sordi?
L’interessato può rispondere come meglio preferisce alla ASL (incluso ignorare la comunicazione).
Essendo tassativi i casi normati, trattandosi di atti di ufficio la cui omissione potrebbe comportare responsabilità penali, l’Azienda USL può solo rispondere secondo un preciso cliché (tab.3).
Tab.3 – Esempi di interlocuzione tra interessato e ASL.
Comunicazione dell’interessato | Risposta della ASL |
Non risponde | Considera accertata l’inosservanza |
Dichiara la propria intenzione a non vaccinarsi | Considera accertata l’inosservanza |
Invia documentazione attestante l’avvenuta vaccinazione | Provvede alle verifiche |
Richiede vaccinazione (su portale regionale) | Invita a produrre la certificazione entro 3 giorni dalla somministrazione |
Richiede informazioni (ad es. sui vaccini disponibili) | Considera accertata l’inosservanza |
Produce certificazione del MMG | Prende atto dell’esenzione* |
Produce altre certificazioni (es. specialistiche) | Valuta la documentazione |
Produce documentazione attestante l’insussistenza dell’obbligo | Provvede alle verifiche |
Autocertifica condizioni di salute | Considera accertata l’inosservanza |
Preannuncia o avvia azioni legali | Considera accertata l’inosservanza |
* La norma non prevede valutazioni della conformità del certificato alle disposizioni applicabili.
Si deve ritenere infatti che l’atto della ASL abbia carattere meramente accertativo (la norma non conferisce un potere di apprezzamento discrezionale).
Gestione del soggetto inadempiente (c.6)
“Decorsi i termini (…)”, la ASL “accerta l’inosservanza dell’obbligo”, da comunicare “all’ interessato, al datore di lavoro e all’Ordine (…) L’adozione dell’atto di accertamento (…) determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.
Il datore di lavoro deve aver operato una VdR relativa alle “prestazioni o mansioni”, con finalità diverse del T.U., avendo per oggetto la probabilità di “diffusione del contagio”, anche per i soggetti terzi. Ricevuta la comunicazione, il datore di lavoro dovrà riferirsi ad una VdR complementare, della possibilità di adibizione “a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al c.6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio”. Se ciò non è possibile, “per il periodo di sospensione di cui al c.9[50] non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento”.
Gli Ordini professionali “meri esecutori”
Una nota della competente Direzione ministeriale[51] evidenzia che la sospensione dall’esercizio della professione discende ex lege dall’accertamento, senza valutazioni di merito: l’atto ordinistico si caratterizza come “un mero onere informativo”; e pecifica trattarsi di ipotesi diversa dalla previsione dell’art.43, D.P.R, 221/50[52] (conseguente, in sintesi, a condanne penali o misure cautelari), in quanto “interdittive della libertà personale”: l’efficacia sarebbe circoscritta alle “mansioni che comportano necessariamente un contatto interpersonale con il paziente, l’utente o il destinatario, o (…) comportano comunque il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.
Ciò significa che è possibile per il professionista erogare residue prestazioni assistenziali non in presenza, come la telemedicina (es. refertazione da remoto, teleconsulti); o attività professionali senza contatti interpersonali o rischio di contagio (smart working: es. statistico-epidemiologiche, scientifiche, …); o mansioni del tutto diverse.
La Comunicazione della FNOMCeO commenta come l’Ordine sia posto nella “posizione di mero esecutore rispetto a provvedimento adottato da altro soggetto giuridico”.
La sospensione comporta l’impossibilità di svolgere attività del tipo menzionato, tanto per i liberi professionisti che per i dipendenti; né rileva che non si eserciti più la professione.
La sospensione rappresenta quindi una vera e propria tagliola, che scatta con l’ accertamento, da cui liberarsi solo aderendo alla vaccinazione o con la decorrenza dei termini dell’obbligo.
Conseguenze della sospensione: il datore di lavoro non può rimanere inerte
Nel caso del lavoro in una struttura, la sospensione rileva anche agli effetti della adibizione a mansioni alternative (c.7). Diversamente, il professionista potrebbe rispondere del reato di cui all’art.348 c.p.[53], coinvolgendo la responsabilità di chi sia rimasto inerte (condotta che potrebbe integrare il reato di concorso nel reato, o quello di favoreggiamento reale – art.379 c.p.).
Ius variandi e ipotesi di licenziamento
Lasciamo al giurista la questione delle motivazioni richieste per la ricollocazione: individuare mansioni alternative e contemperare ciò con le esigenze dell’organizzazione attiene alla libertà datoriale, e, a fronte di un’asserita impossibilità, la sospensione in realtà ha l’effetto (verosimilmente voluto dal legislatore) di evitare il licenziamento.
Adibire il lavoratore non vaccinato al lavoro agile non dovrebbe poi determinare disparità di trattamento verso i vaccinati, trasferendo l’esposizione al contagio interamente su questi ultimi.
Il provvedimento del licenziamento è stato considerato da vari autori[54], ma tale ipotesi è estranea alle misure «automatiche» previste dal D.L.44; se del caso, potrebbe trattarsi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nell’impossibilità del dipendente di rendere la prestazione lavorativa.
Le conseguenze negative sull’organizzazione non sono però da trascurare sul piano disciplinare; si tratta di un inadempimento gravato di una notevole potenzialità di danno (oltre ai profili di possibile rilevanza penale, si pensi alle controversie assicurative dal prevedibile esito in caso di danno cagionato da un dipendente sospeso); e la cornice generale dell’obbligo di sicurezza rafforza la gravità potenziale dell’inadempimento.
Sanzioni di fatto in assenza di un vero e proprio sistema sanzionatorio?
Il legislatore ha configurato un obbligo in assenza di un vero e proprio sistema sanzionatorio .
Secondo Pascucci e Lazzari “v’è anzi da dubitare che la stessa sospensione si configuri come sanzione disciplinare, vista la sua estraneità a ogni procedimento in tal senso, sembrando piuttosto il legislatore muoversi su di un piano diverso, ossia quello della tipizzazione di un effetto legale connesso alla valutazione di un requisito essenziale per lo svolgimento dell’attività”[55].
Anche la sospensione ordinistica può essere intesa più come la cognizione del venir meno di un requisito per l’esercizio della professione che come attribuzione di un potere sanzionatorio, dato che non si innesta in un procedimento disciplinare (con le tutele di legge).
Se il D.L.44 non ha previsto un «percorso di rientro» degli inadempienti, non può essere escluso un “diritto al ripensamento”[56].
Il problema dei nuovi assunti
La situazione si complica per gli operatori che instaurano un rapporto di lavoro dopo l’invio delle liste (c.3). Pisani così sintetizza questa situazione: “Ulteriore profilo è se la vaccinazione possa considerarsi requisito indispensabile ai fini dell’assunzione per le categorie per le quali il decreto ha introdotto l’obbligo vaccinale, e se il datore possa quindi richiedere al lavoratore tale requisito prima dell’assunzione, superando quindi i divieti posti dalle norme statutarie nonché da quelle in tema di privacy del lavoratore anche in fase di assunzione”[57].
Si osserverà che non è previsto dall’art.4 un obbligo in tal senso, ma, al di là di considerazioni sulla parità di trattamento di posizioni analoghe, il datore di lavoro potrebbe trovarsi nella condizione di vedersi addebitare l’omissione a titolo di colpa in caso di effettivo contagio.
I soggetti esentati: unica modalità di certificazione
Sono definiti tassativamente al c.2 i criteri della certificazione: “Solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, la vaccinazione (…) non è obbligatoria e può essere omessa o differita”.
Tali soggetti sono destinatari di specifiche misure protettive (c.10-11):
“10. Salvo (…) il disposto dell’art.26, c.2 e 2-bis, del decreto-legge 17 marzo 2020, n.18[58], (…), per il periodo in cui la vaccinazione (…) è omessa o differita e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al c.2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio (…)”.
“11. Per il medesimo periodo di cui al c.10, al fine di contenere il rischio di contagio, nell’esercizio dell’attività libero professionale, i soggetti di cui al c.2 adottano le misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali (…)[59]”.
Occorre fare attenzione alla formulazione del testo, per evitare interpretazioni errate, che potrebbero essere al limite persino addebitate a titolo di falso. Si devono “attestare” due condizioni che devono ricorrere contemporaneamente: a) condizioni cliniche anche di natura temporanea; b) “pericolo accertato” per la salute a seguito della vaccinazione.
È pertanto esclusa la possibilità di certificare “in scienza e coscienza” ipotesi diverse: ogni certificazione diversamente strutturata dovrebbe essere considerata invalida, o persino «oggettivamente» falsa.
La certificazione deve essere trasmessa alla ASL “entro 5 giorni dalla ricezione dell’invito” (c.5).
Un’ultima considerazione discende dalla formulazione del testo, che usa l’articolo determinativo (“dal medico di medicina generale”), laddove si poteva usare quello indeterminativo (“da un medico…”): se ne può desumere che il legislatore abbia inteso attribuire la potestà certificativa non ad «un qualsiasi MMG», ma in via esclusiva «al MMG di scelta del cittadino».
Il destino dei soggetti esentati
Si individuano tre casi: a) i dipendenti “fragili” sono coperti dal D.L.18/20 e s.m.i.; b) tutti gli altri dipendenti sono adibiti a “mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione (…)”; c) i liberi professionisti possono esercitare con un protocollo di sicurezza ad oggi non definito per mancata emanazione del D.M. (c.11).
I soggetti esentati non sono oggetto di comunicazione, in particolare al datore di lavoro: resta pertanto poco chiaro come possa questi provvedere ai sensi del c.10: “Sebbene non sia prevista la comunicazione dei soggetti esentati (…), deve ritenersi che essi non possano essere adibiti comunque a mansioni che comportino contatti interpersonali con soggetti magari fragili, ma piuttosto essere adibiti a mansioni non pericolose per sé e per gli altri. Analoga soluzione sembra doversi adottare per chi è in attesa di vaccinazione”[60].
I lavoratori potrebbero ricorrere alla visita su richiesta (art.41, c.2, lett.c): il medico competente potrà indicare nel giudizio di idoneità limitazioni e/o proporre misure preventive mirate.
Conclusioni
Altre nazioni (Francia) hanno introdotto analoghe prescrizioni: dove non arriva la responsabilità individuale, lo Stato può, e deve, intervenire con provvedimenti motivati e proporzionati.
La principale criticità resta la frammentazione degli operatori di interesse sanitario in una babele regionalistica che contrasta con la necessità di criteri univoci.
Vi sono poi problemi irrisolti, come la mancata comunicazione dei soggetti esentati e la mancata previsione di un percorso di rientro per chi si determini tardivamente ad ottemperare.
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Gli aspetti giuridici dei vaccini
La necessità di dare una risposta a una infezione sconosciuta ha portato a una contrazione dei tempi di sperimentazione precedenti alla messa in commercio che ha suscitato qualche interrogativo, per non parlare della logica impossibilità di conoscere possibili effetti negativi a lungo termine. Il presente lavoro intende fare chiarezza, per quanto possibile, sulle questioni più discusse in merito alla somministrazione dei vaccini, analizzando aspetti sanitari, medico – legali e professionali, anche in termini di responsabilità. Fabio M. DonelliSpecialista in Ortopedia e Traumatologia, Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Medicina dello Sport. Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Milano nel Dipartimento di Scienze Biomediche e docente presso l’Università degli Studi della Repubblica di San Marino. Già docente nella scuola di Medicina dello Sport dell’Università di Brescia, già professore a contratto in Traumatologia Forense presso l’Università degli Studi di Bologna e tutor in Ortopedia e Traumatologia nel corso di laurea in Medicina Legale presso l’Università degli Studi di Siena. Responsabile della formazione per l’Associazione Italiana Traumatologia e Ortopedia Geriatrica. Promotore e coordinatore scientifico di corsi in ambito ortogeriatrico, ortopedico-traumatologico e medico-legale.Mario GabbrielliSpecialista in Medicina Legale. Già Professore Associato in Medicina Legale presso la Università di Roma La Sapienza. Professore ordinario di Medicina Legale presso la Università di Siena. Già direttore della UOC Medicina Legale nella Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Siena, membro del Comitato Etico della Area Vasta Toscana Sud, Membro del Comitato Regionale Valutazione Sinistri della Regione Toscana, autore di 190 pubblicazioni.Con i contributi di: Maria Grazia Cusi, Matteo Benvenuti, Tommaso Candelori, Giulia Nucci, Anna Coluccia, Giacomo Gualtieri, Daniele Capano, Isabella Mercurio, Gianni Gori Savellini, Claudia Gandolfo.
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Note
[1] Convertito con L.28 maggio 2021, n.76 (di seguito: «D.L.44»).
[2] Mocella M. Vaccini e diritti costituzionali: una prospettiva europea. Dirittifondamentali.it 2021; 44-73.
[3] Cfr. art.4, c.1, D.L.44.
[4] “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art.2 Cost.).
[5] Sentenza 18 gennaio 2018, n.5.
[6] D.L.7 giugno 2017, n.73, convertito con L.31 luglio 2017, n.119.
[7] Sentenza 2 giugno 1994, n.218.
[8] Materia di legislazione concorrente, fatta salva “la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (art.117, c.3); ma viene in rilievo anche il principio di uguaglianza ex art.3 Cost.
[9] Sentenza 12 marzo 2021, n.37.
[10] Per le autorizzazioni si rimanda all’Agenzia Italiana del Farmaco (www.aifa.gov.it).
[11] Sentenza 6 giugno 2019, n.147.
[12] Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale.
[13] Materia di competenza esclusiva regionale ex art.117, c.4., Cost.
[14] Ordinanza 6 maggio 2021, procedimento n.328/2021 R.G.
[15] “Vaccini Covid-19: considerazioni etiche, legali e pratiche”. Risoluzione n.2361 del 27 gennaio 2021.
[16] Recepita con il D.Lgs.9 luglio 2003, n.216.
[17] Riverso R. Note in tema di individuazione dei soggetti obbligati ai vaccini a seguito del decreto legge n.44/2021. (www.questionegiustizia.it).
[18] Che indicheremo di seguito come T.U. (Testo Unico [della salute e sicurezza sul lavoro]).
[19] Riverso R. Note in tema di individuazione…, cit.
[20] Ichino P. Perché e come l’obbligo di vaccinazione può nascere anche solo da un contratto di diritto privato. Lavoro Diritti Europa. 2021; 1.
[21] Mocella M. Vaccini e diritti costituzionali…, cit.
[22] L’art.2087 rileva, se il D.L.23/20 (art.29-bis) dispone che “i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’ obbligo di cui all’articolo 2087 (…) mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso (…), sottoscritto il 24 aprile 2020 (…), e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14 del d.l. n.33/2020 (…)”.
[23] Ipotizza anche azioni risarcitorie da parte di pazienti e terzi: Poso VA. Dei vaccini e delle «pene» per gli operatori sanitari. Prime osservazioni sul D.L. 1° aprile 2021, n.44. Labor – il lavoro nel diritto; 10 aprile 2021.
[24] “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID 19 negli ambienti di lavoro”.
[25] “Protocollo nazionale per la realizzazione di piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro”.
[26] Cfr. art.51, primo comma, c.p.
[27] A partire da S.U. civ., 1 luglio 2002, n.9556.
[28] De Matteis A. I trattamenti sanitari nelle obbligazioni contrattuali. A proposito di vaccino anti-Covid. In: Conversazioni sul lavoro a distanza da agosto 2020 a marzo 2021 promosse e coordinate da Vincenzo Antonio Poso, 27/2/2021. Sul significato più generale dell’art.2087 c.c. a titolo di “norma di chiusura del sistema antinfortunistico” si veda, ex multis, Cass., sez. lav., 9 agosto 2019, n.21287.
[29] Ivi.
[30] INAIL – Circolare n.13 del 3 aprile 2020.
[31] Accertamenti di alcol dipendenza (L.125/01 e s.m.i.) e di sostanze psicotrope e stupefacenti (D.P.R.309/90 e s.m.i.).
[32] Pascucci P, Lazzari C. Prime considerazioni di tipo sistematico sul d.l. 1 aprile 2021, n.44. Diritto della Sicurezza sul Lavoro 2021; 1:152-165.
[33] https://www.lavoro.gov.it/notizie/Documents/Protocollo-24-aprile-2020-condiviso-misure-di-contrasto%20Covid-19.pdf.
[34] Falasca G, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi. (www.open.online.it)
[35] L’affermazione di una posizione di garanzianei confronti dei colleghi, in relazione all’art.20 citato, non è estranea alla giurisprudenza (cfr. Cass., sez.IV pen. 2 novembre 2018, n.49885).
[36] Pascucci P, Lazzari C. Prime considerazioni…, cit.
[37] Direttiva della Commissione 2020/739 del 3 giugno 2020.
[38] Cfr. All. XLVII, T.U.
[39] Art.279, c.5, T.U.
[40] Diversamente; Guariniello R. Sorveglianza sanitaria: vaccino obbligatorio per i lavoratori? Diritto e pratica del lavoro 2021; 1:27-34.
[41] Cfr. art.279, T.U.
[42] L’ obbligo si costituisce a seguito della comunicazione da parte della ASL.
[43] Mocella M. Vaccini e diritti costituzionali…, cit.
[44] Art.42, c.1, T.U.
[45] Guariniello R. Decalogo Covid-19 per le imprese: dalla valutazione del rischio alla vaccinazione. Diritto & Pratica del Lavoro. 2021; 8:481-487.
[46] Art.4, c.1, secondo paragrafo.
[47] “Resta ferma la competenza delle regioni nell’individuazione e formazione dei profili di operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitarie come definite dal comma 1”.
[48] Prime considerazioni…, cit.
[49] Cfr. art.29, c.3, T.U.
[50] “La sospensione di cui al c.6 mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”.
[51] Ministero della Salute – Direzione generale delle professioni sanitarie e delle risorse umane del Servizio Sanitario Nazionale – Nota 17 giugno 2021 – allegata a: Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) – Comunicazione n.135, 21 giugno 2021.
[52] D.P.R. 5 aprile 1950, recante “Approvazione del regolamento per l’esecuzione del D.Lgs. C.P.S. 13 settembre 1946, n.233, sulla ricostruzione degli ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina delle professioni stesse e successive modificazioni”.
[53] “Esercizio abusivo di una professione sanitaria”: e si tratterebbe di una fattispecie del tutto nuova.
[54] Mocella M. Vaccini e diritti costituzionali…, cit.
[55] Pascucci P, Lazzari C. Prime considerazioni…, cit.
[56] Ivi.
[57] Pisani C. Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione. In: Conversazioni sul lavoro…, cit., 7 aprile 2021.
[58] I “lavoratori fragili”, con patologie attestate mediante riconoscimento di invalidità o di handicap, non necessitano di ulteriori certificazioni (c.2, 2-bis).
[59] Decreto non ancora emanato.
[60] Mocella M. Valori e diritti costituzionali…, cit.
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