di Massimiliano Bina*
* Avvocato
Sommario
1. La questione affrontata dalla Corte e il principio di diritto affermato
2. La giurisprudenza formatasi nel regime dell’inderogabilità “debole” dei minimi tariffari
3. L’”onerosità debole” del mandato professionale in seguito alla legge Bersani
4. La necessità di una valutazione in concreto della legittimità della pattuizione del compenso professionale
La convenzione stipulata fra un’associazione sindacale di lavoratori ed un avvocato o procuratore, la quale preveda che quest’ultimo difenda in giudizio gli assistiti percependo il solo importo delle spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice in caso di vittoria, è idonea a vincolare il professionista nei confronti del lavoratore che gli conferisca l’incarico della difesa in giudizio, nel presupposto della qualità di assistito del predetto sindacato ed in riferimento a quella convenzione, secondo la disciplina del contratto a favore di terzo, di cui all’art. 1411 c.c. e, quindi, indipendentemente sia da un’accettazione della convenzione da parte del lavoratore stesso (la quale rileva al diverso fine di rendere irrevocabile il beneficio da parte dello stipulante), sia da un’ulteriore specifica manifestazione di volontà nei suoi confronti da parte del professionista medesimo. Peraltro, la circostanza che la suddetta convenzione possa tradursi, in caso di conclusione del giudizio con esito sfavorevole o compensazione delle spese, in una rinuncia preventiva dell’avvocato o procuratore alle proprie spettanze, non ne comporta la nullità, per violazione del principio dell’inderogabilità dei minimi tariffari (art. 24 l. n.794 del 1942), qualora tale rinuncia risulti giustificata da un fine di liberalità od uno spirito di solidarietà sociale, meritevole di tutela, e non si presenti come mero strumento del legale per conseguire maggiori vantaggi economici attraverso un non consentito accaparramento di affari futuri.
1. La questione affrontata dalla Corte e il principio di diritto affermato
Con la recente sentenza n. 26212/2019, la Suprema Corte ha affrontato la questione della legittimità dell’accordo quadro tra avvocato e patronato/associazione sindacale, disciplinante il mandato professionale per la difesa in giudizio dei lavoratori iscritti. In particolare, la Corte si è occupata di una convenzione in cui si prevedeva, in talune ipotesi, la gratuità del mandato difensivo atteso che: a) in caso di esito positivo della causa per il lavoratore e qualora fosse stata pronunciata condanna di controparte al pagamento delle spese di lite, l’avvocato si sarebbe accollato il rischio di insolvenza del datore di lavoro; b) in caso di esito negativo e in ogni caso di revoca del mandato, il difensore avrebbe rinunciato a chiedere il compenso.
La sentenza in commento ha stabilito, innanzitutto, che una tale convenzione è idonea a vincolare il professionista nei confronti del lavoratore (iscritto al sindacato) che gli conferisca l’incarico della difesa in giudizio, atteso che la convenzione stipulata tra professionista e sindacato è inquadrabile nel contratto a favore del terzo e, pertanto, segue la disciplina dell’art. 1411 c.c. In secondo luogo, la sentenza ha affermato che deve ritenersi legittima la rinuncia preventiva dell’avvocato al compenso (conseguente al verificarsi di talune circostanze convenzionalmente previste), poiché tale rinuncia è giustificata da un fine di liberalità o da uno spirito di solidarietà sociale, meritevole di tutela, e non si presenta come mero strumento del legale per conseguire maggiori vantaggi economici attraverso un illegittimo accaparramento di affari futuri.
2. La giurisprudenza formatasi nel regime dell’inderogabilità “debole” dei minimi tariffari.
La decisione appare in linea con alcuni precedenti specifici[1], nei quali si afferma la legittimità della gratuità della prestazione professionale dell’avvocato sull’assunto che, in questi casi, la convenzione sottoscritta con l’associazione sindacale avrebbe lo “scopo di facilitare, agli iscritti a quel patronato, l’esercizio dei loro diritti verso l’Inps in relazione alla pretesa di ottenere una pensione di invalidità e, perciò, con apprezzabile spirito di solidarietà sociale”[2]. Invero, la giurisprudenza di legittimità formatasi nel regime di inderogabilità dei minimi tariffari, come quello derivante dall’art. 24, l. n. 794/1942 sugli onorari di avvocato, è arrivata ad approdi ancor più permissivi, consentendo all’avvocato di rinunciare, totalmente o parzialmente, alle competenze professionali, non solo nelle ipotesi in cui tale rinuncia fosse funzionale al perseguimento di interessi meritevoli di tutela[3], ma persino per ragioni di amicizia, parentela o anche semplice convenienza[4].
In particolare, da un lato, la Cassazione riaffermava il principio secondo cui la retribuzione costituisce un diritto patrimoniale disponibile e ribadiva che la convenienza giustificatrice della rinuncia ai minimi tariffari rappresenta una forma di esercizio dell’autonomia negoziale[5]; dall’altro, insisteva nel ritenere che alle parti resta comunque proibito infrangere il divieto legale sancito dal citato art. 24 l. n. 794/1942[6]. Si riteneva, quindi, che la rinuncia al compenso fosse ammissibile solo allorquando giustificata da un motivo di interesse pubblico e non risultasse strumentale alla violazione della norma imperativa sui minimi di tariffa[7].
Ora, appare evidente che, alla giurisprudenza di legittimità, la configurazione di una “inderogabilità debole” delle tariffe non è sembrata in contrasto con l’argomentazione utilizzata per giustificare la legittimità di una normativa che vieta di derogare convenzionalmente ai minimi previsti dal tariffario forense[8]. In adesione alla giurisprudenza comunitaria, infatti, una limitazione al principio di libera prestazione dei servizi professionali può essere consentita allorché “ragioni imperative di interesse pubblico” la giustifichino e, nel nostro caso, le ragioni che giustificano l’inderogabilità dei “minimi” vengono individuate nell’esigenza di garantire la qualità della prestazione professionale a tutela degli utenti consumatori e la buona amministrazione della giustizia, soprattutto nell’ipotesi in cui per le caratteristiche del mercato di riferimento, la concorrenza al ribasso sull’offerta economica tra gli operatori possa pregiudicare la qualità della prestazione. La stessa Corte di Giustizia ha individuato un come fattore di rischio il “numero estremamente elevato” di professionisti iscritti ed in attività ed ha riconosciuto al giudice nazionale il compito di determinare se la restrizione della libera prestazione dei servizi legali, conseguente al divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari, previsto dalla legislazione italiana, risponde a ragioni imperative di interesse pubblico, Nel contempo, il giudice è chiamato a valutare se un tale divieto risulti idoneo a garantire, da un lato che vi sia corrispondenza tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni fornite dagli avvocati; dall’altro che la determinazione di tali onorari minimi costituisca un provvedimento adeguato alla tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia.
In questa prospettiva, la nostra giurisprudenza[9] ha affermato che pur non costituendo una garanzia della qualità dei servizi legali, non si può di certo escludere – ed anzi deve affermarsi – che nel contesto italiano, caratterizzato da una elevata presenza di avvocati, le tariffe che fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduce nell’offerta di prestazioni “al ribasso”, tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio.
In sintesi, secondo la giurisprudenza, il regime dell’inderogabilità delle tariffe sarebbe legittimo perché necessario per garantire la conservazione della qualità del servizio legale offerto al pubblico; ma tale regime può essere derogato qualora sussistano ragioni di solidarietà sociale, senza che ci si debba preoccupare, in questo caso, del peggioramento della qualità del servizio, proprio in materie in cui l’interesse pubblico lo richiederebbe maggiormente in quanto coinvolgono diritti di rango costituzionale.
[1] Cass. 03.05.2005, n. 9111 “ Nel rapporto contrattuale tra un istituto di assistenza dei lavoratori ed un legale, che assiste in giudizio i lavoratori inviatigli dall’istituto di patronato percependo il solo importo delle spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice in caso di vittoria, l’obbligo del professionista e la natura dell’Istituto (al perseguimento delle cui finalità il lavoro del professionista è funzionalmente diretto) conferiscono al rapporto contrattuale una oggettiva funzione (di consentire la tutela dei diritti previdenziali e assistenziali), che, essendo diretta a realizzare una finalità di valore sociale e umano nonché (indirettamente) costituzionale (art. 38 Cost.), costituisce una valida causa contrattuale, che può essere esclusa solo provando che il rapporto contrattuale ha avuto un diverso particolare scopo, e comunque nei limiti previsti dall’art. 1345 c.c. per cui il soggettivo scopo illecito del professionista – quale il non consentito «accaparramento di affari» -, purché non sia comune all’altra parte, rimane irrilevante”; Cass. 06.07.1983, n. 4562, in Giust.civ. 1983, I, 2589: “è valido l’accordo, stipulato tra un avvocato libero professionista e un istituto di patronato, con il quale il primo rinunci, preventivamente, alle competenze e agli onorari relativi ai giudizi conclusisi con la declaratoria di compensazione delle spese o con esito sfavorevole per il cliente, e accetti, per i giudizi conclusisi favorevolmente, solo l’importo delle spese, competenze ed onorari liquidato dal giudice a carico della controparte, allo scopo di facilitare, agli iscritti a quel patronato, l’esercizio dei loro diritti verso l’Inps in relazione alla pretesa di ottenere una pensione di invalidità e, perciò, con apprezzabile spirito di solidarietà sociale”.
[2] Adesivamente, v. R.Danovi, Il nuovo codice deontologico forense. Commentario, Milano 2014, p. 256 nota 4.
[3] Cfr. Cass. 06.04.2018, n. 8539; Cass. 27.09.2010, n. 20269; Cass 04.04.2006, n. 7823; Cass. 21.07.1998, n. 7144; Cass. 01.12.1995, n. 12421; Cass. SS.UU., 05.06.1989, n. 2697; Cass. 29.11.1988, n. 6449; Cass. SS.UU. 19.07.1986, n. 4673; Cass. 07.03.1983, n. 1680
[4] . V. Cass. 20.07.2017, n. 17975.
[5] Cass. 27.09.2010, n. 20269.
[6] Cass. 27.09.2010, n. 20269, pur ammettendo che un convenzione relativa al compenso può manifestarsi, sul piano sostanziale, anche in un accordo transattivo (successivo alla pattuizione del compenso e, in quanto tale, pienamente lecito) ha, tuttavia, affermato che è nulla la richiesta periodica di pagamento a “forfait” formulata sulla base di un preventivo accordo in violazione dei minimi e che “il principio dell’inderogabilità delle tariffe minime non soffre eccezioni in considerazione della natura semplice o ripetitiva di alcuni affari, poiché la cosiddetta standardizzazione delle pratiche, così come il carattere “routinario” delle medesime possono, se mai, incidere sulla determinazione dei compensi tra il minimo e il massimo delle tariffe, ma non anche giustificarne la totale disapplicazione” (la sentenza è così massimata in Foro It., 2010, 12, 1, 3301).
[7] Cfr. Cass. 27.09.2010, n. 20269, così massimata in Foro it. 2010, 12, 1, 3301: “il principio dell’inderogabilità dei minimi tariffari, stabilito dall’art. 24, legge 13 giugno 1942, n. 794, sugli onorari di avvocato, non trova applicazione nel caso di rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, allorché quest’ultima non risulti posta in essere strumentalmente per violare la norma imperativa sui minimi di tariffa”.
[8] Cfr. Corte Giust. UE, 23.11.2017, cause riunite C-427/16 e C-428/16, in Nuova giur.civ.comm. 2018, pp.620-631, con nota di G.Donzelli, La legittimità delle tariffe minime nella giurisprudenza della Corte di giustizia: “L’art. 101, par. 1, TFUE, in combinato disposto con l’art. 4, par. 3, TUE, deve essere interpretato nel senso che una normativa nazionale che, da un lato, non consenta all’avvocato e al proprio cliente di pattuire un onorario d’importo inferiore al minimo stabilito da un regolamento adottato da un’organizzazione di categoria dell’ordine forense e, dall’altro lato, non autorizzi il giudice a disporre la rifusione degli onorari d’importo inferiore a quello minimo, e` idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno ai sensi dell’art. 101, par. 1, TFUE. Spetta al giudice del rinvio verificare se tale normativa, alla luce delle sue concrete modalita` applicative, risponda effettivamente ad obiettivi legittimi e se le restrizioni cosı` stabilite siano limitate a quanto necessario per garantire l’attuazione di tali legittimi obiettivi” . Corte Giust. CE, grande sezione, 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04: “Una normativa nazionale che fissi, per gli onorari degli avvocati, una tariffa minima cui non sia possibile derogare convenzionalmente è ammissibile solo in presenza di obiettivi superiori di interesse pubblico e in misura proporzionale al raggiungimento degli stessi“, in Giur. It. 2007, 3, 639 con nota di A.Bortolotti, Le libere professioni tra Corte di giustizia e Decreto Bersani: luci ed ombre (o, meglio, piú ombre che luci); Amorese, Cases C-94/04, Cipolla & Macrino: The emergence of a political approach to the regulation of professionals in Europe?, in The Columbia Journal of European Law, 2007, 733 ss. Cfr., altresì, Corte Giust. CE, 19 febbraio 2002, causa C-35/99, ha affermato che “gli artt. 5 e 85 del trattato CEE (divenuti art. 10 Ce e 81 Ce) non ostano all’adozione, da parte di uno Stato membro, di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell’ordine, qualora tale misura statale sia dettata nell’ambito di un procedimento come quello previsto dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578 “.
[9] Cass. 27.09.2010, n. 20269.
3. L’”onerosità debole” del mandato professionale in seguito alla legge Bersani.
/it/stato/documentazione/unione.europea/raccomandazione/1998/257
Con l’abrogazione del regime dell’inderogabilità dei minimi tariffari, conseguente all’art. 2, 1° comma, del «decreto Bersani»[10], e l’abolizione dell’intero sistema tariffario per l’effetto del decreto “Cresci Italia”[11], il problema dell’equità del compenso pattuito o, se si vuole, della gratuità del mandato professionale dell’avvocato, cambia pelle, ma continua a sussistere; e non è destinato a venir meno anche in presenza di una norma come l’art. 13, 1° comma della legge professionale (l. n. 247/2012) che espressamente contempla che l’incarico possa essere svolto a titolo gratuito. Se si guarda bene, in un sistema che prevedeva l’inderogabilità delle tariffe si consentiva (in certe occasioni) all’avvocato di espletare gratuitamente il mandato professionale; all’opposto, in un regime che contempla la gratuità della prestazione professionale, non sempre è consentito all’avvocato rinunciare al proprio compenso.
In primo luogo, si osserva che il CNF, con sentenza del 28.12.2017 n. 245, ha sanzionato l’avvocato che aveva stipulato una convenzione con un Comune che prevedeva, per ogni giudizio patrocinato, la corresponsione dell’importo di € 17,00, comprensivo di oneri tributari e contributo previdenziale, oltre alle spese legali liquidate qualora fossero state effettivamente riscosse dalla controparte. In questa occasione, il CNF ha affermato che “l’adesione ad una convenzione concernente prestazioni professionali a prezzo irrisorio, ovvero a titolo immotivatamente gratuito in favore di un Ente pubblico costituisce violazione dei precetti deontologici del decoro e della dignità, che debbono sempre governare l’esercizio della professione“, così come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità[12] e come emerge anche nell’art. 3, comma 2° LP che dispone che l’avvocato eserciti la professione, tenendo conto del rilievo sociale della difesa e nel rispetto dei principi della corretta e leale concorrenza[13]. Sotto altro aspetto, il CNF ha ritenuto che, nel caso in questione, l’avvocato ha tenuto una condotta irrispettosa di norme di rango primario, che giustifica l’incolpazione per la violazione della norma che vieta l’accaparramento della clientela (ex art. 37 CDF) il cui “il disvalore deontologico continua a risiedere tutto negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela”[14].
Così, pur ammettendo la disponibilità del diritto dell’avvocato al giusto compenso, il CNF (criticando apertamente l’orientamento giurisprudenziale riferito al precedente paragrafo) afferma che tale facoltà non può esercitarsi se non nell’ambito del perimetro deontologico vigente che, per la fattispecie in discussione, è individuato dai principi che impongono il rispetto del decoro e della dignità professionale.
In secondo luogo, il principio della libera determinazione del consenso, conseguente all’abrogazione dei minimi tariffari, è temperato dalla disciplina dell’equo compenso, contenuta nell’art.13-bis l.f.[15], disciplina che ha lo scopo di riequilibrare le posizioni tra il contraente debole (avvocato) e il cliente-impresa bancaria e assicurativa (o l’impresa non rientrante nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003), nei casi in cui il rapporto professionale sia regolato da convenzioni «unilateralmente predisposte» dal cliente. Riequilibrio che passa attraverso il riferimento ai parametri previsti dal dm 55/2014 come criterio di valutazione del compenso “proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, nonchè al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale” e la previsione della nullità di alcune clausole che la legge qualifica come vessatorie[16]. Da ciò discende che la legittimità della pattuizione della gratuità della prestazione professionale, al pari di quanto era previsto per la valutazione della legittimità della deroga ai minimi tariffari, può essere assoggettata al sindacato del giudice del merito, chiamato ad accertare la sussistenza di una libera determinazione del professionista.
[10] Il d.l. 223/2006, convertito in l. 248/2006, stabilisce che: «1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: a ) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti…».
[11] L’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1°, l. 24 marzo 2012, n. 27, prevede al primo comma che «sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico ». Per una disamina del passaggio tra il sistema tariffario e quello dei parametri, cfr. Fornaciari, Il compenso dell’avvocato nel passaggio dalle tariffe ai parametri: le prestazioni in corso al momento della riforma, in Rass. for. 2015, 1, 31 ss. G.Colavitti, I compensi degli avvocati tra diritto della concorrenza, nuovi parametri e disciplina dell’«equo compenso », in Giustiziacivile.com, n.7/2018, 2 ss.
[12] Cass. 30.11.2016, n. 24492 e Cass. 22.12.2005, n.258034 hanno stabilito che al giudice è precluso liquidare somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione, come prescitto nell’art. 2233, comma 2°, c.c.
[13] Nella stessa linea, TAR Milano, sez. IV, 19 aprile 2017 n. 902, il quale ha rilevato che un’offerta di prestazione legale gratuita “appare di dubbia legittimità in quanto, in disparte ogni considerazione sulla serietà ed affidabilità della medesima, non si rinvengono nel caso di specie ragioni peculiari per le quali la prestazione del professionista intellettuale debba essere di fatto gratuita”.
[14] CNF 23.07.2015, n.118.
[15] La norma è stata introdotta dall’art. 19-quaterdecies, comma 1º, d.l. 16.10.2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla l. 4.12.2017, n.172. Per una panoramica dell’istituto, cfr. R.Danovi, L’onorario dell’avvocato tra parametri ed equo compenso, in Corriere Giur. 2018, 589-593; G.Alpa, L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi, in Nuova giur.civ.comm. 2018, 716-728; S.Monticelli, L’equo compenso dei professionisti fiduciari: fondamento e limiti di una disciplina a vocazione rimediale dell’abuso nell’esercizio dell’autonomia privata, in Nuove leggi civ. comm. 2018, 299-333; G.Colavitti, cit.
[16] L’art. 13 bis, comma 5°, l.p., qualifica vessatorie le clausole in cui: il contratto riservi al cliente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto (lett. a) ovvero quando consenta al cliente di rifiutare la forma scritta degli elementi essenziali (lett. b); o di pretendere prestazioni aggiuntive a titolo gratuito (lett. c); o l’anticipazione delle spese a carico dell’avvocato (lett. d); ovvero la sua rinuncia al rimborso (lett. e); e ancora quando preveda termini di pagamento superiori ai 60 giorni fissati dalla legge dal ricevimento della fattura o dalla richiesta di pagamento (lett. f); o attribuisca al cliente la differenza tra il compenso pattuito e quello eventualmente maggiore liquidato dal giudice (lett. g); o consenta di applicare a una precedente prestazione in corso, o non ancora liquidata, le condizioni eventualmente più favorevoli previste da una successiva convenzione (lett. h); ovvero quando il compenso pattuito per assistenza e consulenza contrattuale spetti soltanto in caso di sottoscrizione del contratto (lett. i).
4. La necessità di una valutazione in concreto della legittimità della pattuizione del compenso professionale.
Alla luce della nuova disciplina, la legittimità di una convenzione sottoscritta da un associazione sindacale ed un avvocato, nella quale quest’ultimo rinunci al compenso in caso di soccombenza del cliente, o nell’ipotesi in cui l’insolvenza della controparte non gli consenta di recuperare le spese legali, non può essere ritenuta legittima per il solo fatto che attraverso la convenzione si persegue un interesse pubblico meritevole di tutela (mutatis mutandis, lo sarebbe anche quello che si persegue con la convenzione sottoscritta con la p.a.). Una convenzione di tal specie, pertanto, è legittima solamente allorquando il giudice del merito ravvisasse, nel caso concreto, che il consenso dell’avvocato sia stato da quest’ultimo liberamente prestato e che la convenzone non costituisca un mezzo di ingiusto accaparramento della clientela. Se è così, tuttavia, entrambi i requisiti sembrerebbero non sussistere.
Con riferimento al primo aspetto, tra associazioni sindacali e avvocato è possibile intravedere uno squilibrio analogo a quello esistente tra grandi imprese ed avvocato, squilibrio che ha portato alla disciplina dell’equo compenso. Le associazioni sindacali, infatti, svolgendo una attività di intermediazione tra domanda ed offerta di servizi professionali, hanno il potere di indirizzare il lavoratore verso il professionista[17], così creando quello squilibrio che le norme intendono eliminare. Del resto, si è autorevolmente rilevato che l’elencazione dei potenziali clienti – banche, assicurazioni, etc. – è meramente esemplificativa e non esaustiva, risultando il giudice libero di applicare la legge anche ad altri soggetti o contratti professionali[18]. Parimenti, la scelta di regolare i rapporti professionali tramite una convenzione quadro costituisce una manifestazione della asimmetria tra la posizione “forte” del cliente e quella di sudditanza del professionista fiduciario, invogliato alla stipula nell’auspicio di acquisire una molteplicita` di incarichi; mentre con il singolo incarico le parti si pongono su un piano di sostanziale parità, atteso che il professionista è libero di rifiutare un’offerta che ritiene iniqua senza subire le pressioni derivanti dalla possibilità di acquisire ulteriore clientela[19].
Con riferimento al secondo aspetto, difficilmente è ipotizzabile, in capo al professionista, una ragione che lo porti a scegliere di lavorare gratuitamente differente dalla volontà di acquisire nuovi clienti, tenendo in considerazione che la forte specializzazione di una materia come quella diritto di lavoro non consente all’avvocato di esercitare proficuamente la professione in altri rami del diritto, potendo confidare in un reddito che proviene, per la gran parte, dal compenso ricevuto dai clienti indirizzati dall’associazione sindacale.
Se dal piano astratto si passa a quello concreto, pertanto,la legittimità di una siffatta convenzione tra associazione sindacale e avvocato, per la difesa in giudizio dei lavoratori, merita di essere revocata in dubbio.
[17] Intermediazione di per sè del tutto legittima e, probabilmente, auspicabile, qualora l’associazione sindacale indirizzasse il lavoratore verso il professionista più competente, non a quello più economico. Cfr. Hazard, Dondi, Etiche delle professioni legali, Bologna 2005, p. 362 s.
[18] V. G.Alpa, op.cit., 718. S.Monticelli, op.cit., 307, esclude dall’ambito soggettivo di applicazione della norma, i consumatori, le microimprese e le piccole e medie imprese poichè in questi casi il professionista non è gravato da una posizione di sostanziale debolezza contrattuale e la determinazione del compenso per le prestazioni professionali è totalmente rimesso alla libera contrattazione.
[19] Così, S.Monticelli, op.cit., 308-309.
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