1. Il Kanun
Il Kanun (1) rappresenta la manifestazione più lampante del diritto consuetudinario albanese (2), può essere definito come la Grundnorm o tavola dei valori del popolo albanese vigente in dato momento storico, momento caratterizzato dall’assenza di istituzioni od organismi idonei a prevedere ed ad imporre regole, norme o precetti, capaci di mantenere l’ordine e di far sì che, all’interno della comunità, i consociati possano vivere e porre in essere le proprie attività nel rispetto e nell’osservanza delle regole e dei precetti medesimi imposti dallo Stato-autorità.
L’assenza, quindi, di una entità superiore (quale può essere un apparato burocratico dello Stato) ha portato gli albanesi a creare delle regole di natura consuetudinaria le quali operano, così come intese e percepite dalla medesima comunità, alla stregua di norme giuridiche.
L’operatività delle norme del Kanun, riscontratosi soprattutto presso le popolazioni insediate nelle montagne dell’Albania, trova la sua ratio nella definizione di regole al fine di disciplinare le varie tipologie di rapporti che possono instaurarsi tra i consociati di una determinata comunità radicata all’interno di una porzione territoriale dell’Albania.
Di fatti non si parla di un singolo corpus contenente i vari precetti ma di vari corpora distinti a seconda dell’ambito territoriale in cui operano le singole fattispecie, da ciò si desume, seppure in parte, una certa eterogeneità delle regole imposte e rispettate nelle varie aree territoriali in cui le regole stesse trovano applicazione.
La raccolta più importante delle norme consuetudinarie è rappresentata dal Kanun di Lek Dukagjini operante nella seconda metà del secolo XV; il principe Dukagjini ha proceduto ad una raccolta delle varie regole, dei vari precetti tramandati oralmente nel corso dei secoli al fine di procedere ad una sistemazione ed omogeneizzazione delle stesse con ineludibile vantaggio per la comunità albanese.
Il testo del Dukagjini, a detta degli studiosi, rappresenta l’anima o l’organo respiratore delle regole disciplinanti la vita civile di quelle comunità, si contraddistingue per aver lambito le varie aree del sapere giuridico; in assenza di precetti scritti, quindi, appare inelidudibile mettere in luce il rilievo preminente che il Kanun ha rivestito nel corso dei secoli nell’ambito della comunità albanese.
I settori toccati dal Kanun riguardano l’ambito civile (3), con specifico riguardo alle norme disciplinanti i rapporti familiari, i rapporti patrimoniali e quelli successori; l’ambito penale con la previsione della irrogazione di sanzioni, anche gravi, nel caso di violazioni dei precetti imposti dal Kanun medesimo, sanzioni poste in essere dagli stessi consociati tramite il ricorso all’esercizio di poteri di autotutela privata, poteri cui si ricorre giusta l’assenza di organi (giurisdizionali) idonei sia a poter accertare eventuali responsabilità penali, sia ad irrogare le misure sanzionatorie in caso di violazione e darne esecuzione; da ultimo l’ambito pubblicistico soprattutto con riguardo ai rapporti tra la società civile e la Chiesa cattolica.
Gli istituti o concetti che assumono preminente rilievo nell’alveo del Kanun sono “la besa” (che in albanese vuole dire fede) che indica la promessa data che va mantenuta a costo della vita; l’ospitalità valore sacro per tutto il popolo albanese; la vendetta di sangue, quale forma di autotutela privata per il pregiudizio indiretto, morte di un familiare, patito da un membro del nucleo familiare; il “fis” ed il clan che attengono ai rapporti familiari, famiglia intesa in senso più ampio rispetto alla classica accezione di nucleo familiare.
La raccolta orale del Kanun di Lek Dukagjini ha trovato attuazione ed applicazione per circa 500 anni, come rilevato da attenti studiosi nel corso di questi anni lo stesso corpus del Kanun di Dukagjini è stato oggetto di aggiunte, modificazioni ed interpolazioni che hanno minato la purezza e la genuinità del medesimo; ciò trova una plausibile motivazione nel fatto che, nel corso dei secoli, il Kanun sia stato utilizzato anche per il perseguimento di fini particolari, inerenti solo una certa cerchia di soggetti, con conseguente messa da parte del perseguimento di fini generali (potremmo dire di interesse pubblico) inerenti tutta la collettività organizzata in una determinata area territoriale.
Nei primi anni del 1900 grazie all’opera di un monaco francescano, Shtjefën Kostantin Gjeçov, il Kanun ha, finalmente, trovato cittadinanza in un testo scritto, testo che raccoglie le varie regole disciplinanti la vita comune degli albanesi nei vari aspetti dell’agire quotidiano; il testo è strutturato in 12 libri ed è stato scritto nel dialetto “geg” della lingua albanese.
Il Kanun è stato oggetto di formale abrogazione da parte del Re Zog, il quale, nel corso degli anni ’20 e ’30 del secolo appena trascorso, lo ha sostituito con l’emanazione dei codici civile, penale e commerciale, propri della tradizione occidentale.
Nel periodo seguente il Kanun trovò l’ostracismo anche con l’avvento della dittatura, durata circa un quarantennio: infatti, il dittatore Henver Hoxha procedette ad una vero e proprio smantellamento della sua architettura considerato come un vero e proprio pericolo per lo Stato autoritaristico. A ben vedere, però, lo stesso modus operandi ed agendi dello stesso dittatore sembrerebbe trovare un avallo od addentellato nello stesso corpus del Kanun.
Con la dissoluzione del suo “regno” nel corso del 1990, le norme del Kanun (4) hanno in parte preso nuova linfa seppur, al giorno d’oggi, in massima parte i rapporti sociali tra i consociati sono regolamentati da leggi scritte, tuttavia con riferimento alle zone aspre e montagnose del Nord dell’Albania il Kanun stesso si pone, ancora, come fonte dei rapporti intersoggettivi delle comunità stanziate in quei luoghi.
2. La spietata legge del Kanun: la vendetta di sangue.
La vendetta di sangue o “gjakmarrja” (5) rappresentava il massimo grado di autotutela privata riservata ad un consociato nei confronti di colui il quale si sia macchiato di delitti definiti nel Kanun come “infamanti”.
La “gjakmarrja” legittimava, quindi, un parente della vittima ad uccidere l’autore del crimine, od in alternativa, ed è ciò che contraddistingue tale consuetudine, un parente dell’uccisore sino al terzo grado di parentela.
Si era innanzi una responsabilità per fatto altrui che oggi non è riconosciuta dagli ordinamenti occidentali e che ammetteva rappresaglie e ritorsioni nei confronti di soggetti che, legati da un rapporto di parentela con l’omicida, si ponevano in estraneità con riguardo ai crimina consumati da quest’ultimo; utilizzando un linguaggio penalistico mancherebbe nell’ambito della vendetta di sangue, nel caso di uccisione di un parente dell’omicida, un nesso eziologico-causale tra la morte del vittima ed il parente stesso.
In tali casi il Kanun poneva in capo ai consociati una vera e propria licenza di uccidere senza che fossero accertate eventuali responsabilità penali, con ciò ledendo, inesorabilmente, la posizione giuridica e le garanzie inerenti dei singoli all’interno della comunità.
Il Kanun prevedeva espressamente che la “gjakmarrja” (6) potesse riguardare tutti i maschi della famiglia, purché legati da un vincolo di sangue ed appartenenti allo stesso “fis” (il quale può essere inteso come una nozione estesa del concetto di famiglia).
Si è molto dibattuto se anche i bambini potessero essere oggetto di ritorsioni da parte dei parenti della vittima.
Sul punto se da una parte il Kanun disponeva che “va contro le leggi del codice chi spara contro le donne, i piccoli, le case ed il bestiame”, e quindi escludendo contestualmente l’ammissibilità di azioni delittuose nei confronti dei bambini, dall’altra parte il medesimo corpus affermava espressamente che”se l’uccisione avviene dentro il proprio villaggio, l’omicida dovrà fuggire dal paese e nascondersi tra gli amici con tutti i maschi della propria casa, fossero anche bambini da culla, per evitare di essere uccisi”.
Uno strumento cui era possibile ricorrere al fine di evitare che il parente della vittima potesse vendicarsi era rappresentato dal perdono nei confronti dell’omicida e dei suoi parenti, il perdono rappresenta un vero e proprio atto di clemenza con cui viene evitato un ulteriore spargimento di sangue, il medesimo veniva posto in essere secondo un determinato rituale.
Tuttavia, come rilevato da attenti studiosi, raramente si perveniva al perdono, posto che il suddetto gesto veniva ad essere interpretato dalla comunità come un atto di debolezza da parte della famiglia della vittima, con conseguente discredito della medesima innanzi a tutta la collettività stanziata in quel dato territorio, dall’altra parte, però, il medesimo gesto è stato interpretato come un atto saggio e di onore.
L’istituto della vendetta di sangue è stato al centro di uno scontro tra Giorgio Castriota Skanderbeg e Lek Dukagjini, scontro che aveva trovato la sua collocazione nel 1444, anno della Lega di Lezha, ove si erano riuniti tutti i principi albanesi, al fine di delineare una politica comune antiottomana.
Skanderbeg aveva propeso per la sua totale abolizione o, almeno, un suo ridimensionamento, Dukagjini, invece, aveva propeso per una sua massima estensione, senza che potesse operare l’istituto del perdono; alla fine, da una parte, non si pervenne all’ abolizione della gjakmarrja, dall’altra, si ammise l’operatività dell’istituto del perdono.
Un’ulteriore via di scampo era data dalla possibilità, alquanto estrema, di recludersi a casa al fine di non essere soggetti all’ira dei parenti della vittima, in tali casi si parlava di inchiodati, ngujuar in albanese, infatti il Kanun considerava il proprio domicilio domestico come inviolabile che non poteva essere scalfito da nessuno, conseguentemente si negava la possibilità di commettere vendette all’interno della propria abitazione.
Tuttavia in tale contesto (7) era palese il disagio che i membri la comunità familiare potessero subire a causa di questo isolamento, soprattutto per i bambini e gli adolescenti, i quali, maggiormente rispetto gli adulti, percepivano questo senso di chiusura.
Anche per la “gjakmarrja” il Kanun aveva prescritto un rituale formale, ossia non si ammetteva l’uccisione dell’omicida o di un suo parente all’interno della propria abitazione, non si ammettano colpi inferti alle spalle dello stesso, il parente della vittima doveva gridare il nome della medesima in alta voce e doveva giustificare all’omicida il perché di questa vendetta, da ultimo, una volta compiuto l’atto di vendetta, colui il quale ha posto in essere l’atto di vendetta doveva avvisare la collettività che giustizia era stata fatta.
Questo triste fenomeno (8) non ha trovato riscontro solo in passato (9), e quindi prima della abolizione del Kanun da parte di Re Zog, ma tuttora il medesimo si riscontra nelle zone montagnose dell’Albania (10).
Soprattutto dopo la caduta del regime comunista di Henver Hoxha; vari sono i rapporti posti in essere sia da organismi albanesi che da organismi internazionali con cui si documentano situazioni di autoreclusione da parte degli inchiodati (11), in particolare modo di bambini.
Trattasi di vicende di notevole impatto sociale che causano situazioni di malessere con contestuale
ripercussioni sulle sfere giuridiche dei soggetti di una data collettività.
Si è posto in evidenza come la gjakmarrja non sia più quella che trova la sua origine nel Kanun, ma come la stessa sia utilizzata al fine di poter giustificare altre situazioni che fuoriescono dall’ambito di operatività del Kanun stesso, si pensi alla guerra tra faide, infatti c’è chi parla in quest’ultimo caso di un uso improprio della vendetta di sangue, utilizzato per il perseguimento di fini illeciti particolari e personali, e non invece, così come prescrive il Kanun, utilizzato nel rispetto delle regole e dei precetti fissati nel corpus stesso ed accolti ed osservati, dalla comunità stanziata in un dato luogo, alla stregua di una norma giuridica.
3. Operatività delle regole del Kanun nei paesi arbereshe dell’Italia meridionale?
Una questione che può essere posta all’attenzione degli studiosi è se le regole del Kanun fossero state trasposte anche all’interno di aree territoriali al di là della costa albanese, si pensi l’Italia ed il suo Meridione il quale, nel corso del XV secolo, è stato il nuovo domicilio degli albanesi scappati dalla propria terra natìa (12).
Sul punto attenti studiosi hanno posto in evidenza come inizialmente fossero stati difficili i rapporti di integrazione tra le popolazioni italiane autoctone e i nuovi arrivati, i quali avevano continuato a disciplinare i propri rapporti giuridici sulla base delle regole e dei precetti del Kanun, che, quindi, aveva trovato anche terreno fertile nelle aree territoriali italiane dove gli albanesi si erano insediati.
Ciò trova un avallo anche nel fatto che non trovando disciplina i rapporti intersoggettivi la comunità albanese in determinate fonti scritte, i medesimi rapporti erano regolati, in assenza appunto di altre fonti, dallo stesso diritto consuetudinario albanese.
Sul punto uno studioso della materia, il De Leo (13), con riguardo ai primi insediamenti in Calabria, afferma che “i primi stanziamenti avvennero nei casali di Amato, Andali, Arietta, Vena e Zangarona; in seguito si estesero a Caraffa, Carfizzi, Pallagorio, S. Nicola dell’Alto e Gizzeria. Dovevano essere località disabitate, poiché di esse non è fatto cenno nel Liber focorum del 1443, ma tutte rispondenti a quelle caratteristiche montane, analoghe a quelle della “madre patria”, che una attenta lettura del Codice di Lek Dukagjini ossia Diritto consuetudinario delle Montagne d’Albania evidenzia chiaramente. Si tratta, infatti, di gruppi abitati che possono essere circoscritti in un semicerchio o in un triangolo di una zona collinare, in origine mai completamente isolati. Ritengo che le ragioni di tale scelta vada ricercata proprio nel modo di concepire le relazioni sociali. Al paragrafo 19 del citato Diritto consuetudinario si legge testualmente:”La famiglia si compone delle persone di casa; più famiglie unite formano una fratellanza; più fratellanze una stirpe; più stirpi una “fis”, più “fis” una Bandiera e tutte insieme avendo una stessa origine, un medesimo sangue, una stessa lingua e comuni usi e costumi, formano quella grande famiglia che si chiama Nazione”. Le notevoli differenze di comportamento che i regnicoli riscontravano negli albanesi, abituati a ispirare le loro azioni ai costumi della terra d’origine, provocarono ben presto sospetti, timori e accuse, soprattutto di latrocinio, che ben presto rimbalzarono nei documenti ufficiali della Cancelleria sovrana”.
Da queste parole si pongono in evidenza le diversità culturali degli albanesi rispetto agli abitanti del luogo, diversità che trovano, tra l’altro, la loro origine nel Kanun quale fonte ispiratrice del modus vivendi ed agendi degli albanesi in Italia.
Altro istituto giuridico che aveva trovato piena attuazione al fine di disciplinare i rapporti interprivatistici era l’istituto della besa, ossia delle promessa, della parola data; infatti non essendo presente un atto scritto, alla disciplina dei rapporti si poneva la besa (14), definita da uno studioso, il Marco (15), come “un istituto giuridico, poiché esso sigillava con l’atto simbolico della stretta di mano, una convenzione e un generico patto come un vero e proprio contratto obbligatorio, che nel gesto canonico aveva la sua forma. “Dammi”, ovvero “ti offro la fede” era l’espressione che invitava le parti a suggellare il patto d’onore, e il negozio giuridico in una cultura orale”.
Sulla base di queste testimonianze non può non parlarsi di una effettiva applicazione delle regole e dei precetti del Kanun anche in ambito italiano, in particolare in quelle aree territoriali, quali il Meridione, in cui nel corso del XV secolo gli albanesi hanno trovato riparo eleggendo in quelle terre il proprio domicilio; ciò ha portato, di conseguenza, ad una applicazione ed osservanza degli istituti tipici del Kanun quali la” besa”, l’ospitalità e la vendetta di sangue.
Le ragioni che hanno indotto all’applicazione del Kanun si riscontrano principalmente nell’assenza di norme scritte: di fatti come affermato dal Marco “per un “popolo senza libri”, come quello albanese antico, la parola costituiva l’unico veicolo della tradizione, nonché l’espressione più autentica della cultura popolare e il mezzo essenziale di trasmissione di ogni pensiero, compreso quello quotidiano della solidarietà”.
Con riguardo alla tutela dei diritti soggettivi di cui ciascun consociato è titolare, in assenza di un organo giudicante, terzo ed imparziale, titolare della potestà di accertamento dei fatti, di individuazione delle singole responsabilità e della irrogazione delle relative sanzioni, la vendetta di sangue o “gjakmarrja” rappresentava un valido strumento di tutela della propria posizione giuridica e dei propri familiari.
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1 Avv. Roberto Sposato è specializzato nelle professioni legali, pubblicista, collabora con le riviste giuridiche telematiche “filodiritto” ed il “dirittoamministrativo.it”.
2 Il testo, raccolto per la prima volta in forma scritta nel 1923 dal frate Shtjefen Gjecof, è stato oggetto di studio anche da parte di diversi studiosi italiani. Si vedano in particolare VILLARI, Le consuetudini giuridiche dell’Albania, Roma, 1920; CASTELETTI, Consuetudini e vita sociale albanese secondo il Kanun di Lek Dukagjini, Roma, Vol. III-IV, 1933-34; RESTA, Un popolo in cammino, Migrazioni albanesi in Italia, Lecce, 1996; MARTUCCI, Il Kanun di Leke Dukagjini: le basi morali e giuridiche della società albanese, Lecce, 2009.
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Sulle analogie tra il Kanun e il diritto greco-romano, nonché con la cultura ebraico-cristiana v. BOZHEKU, Historia e se drejtes penale mesdhetare midis mitit dhe shkences dhe paralelet me te drejten zakonore shqiptare. in Riv. “Kosova”, n. 31, Pristina, 2009, p. 351 ss; BOZHEKU, Histori dhe mite ne modelet penale, in Riv. Edukologjia, n. 4, Prishtine, 2010, p. 121 ss.
3 Per uno sguardo d’insieme VALENTINI, Il diritto delle comunità nella tradizione giuridica albanese, Firenze, 1956.
4 MARTUCCI, Il diritto consuetudinario albanese: il Kanun, Tirana, 2005.
5 ASCOLI, La vendetta del sangue, Milano, 1961; RESTA, Pensare il sangue: la vendetta nella cultura albanese, Roma, 2002. Sui delitti di omicidio per causa d’onore in Albania v. GJIKA, Vrasjet, in Drejtesia Popullore, n. 1, Tirane, 1954, p. 29 e ss.; ELEZI, Vrasjet per hakmarrje dhe gjakmarrje ne Shqiperi, Tirane, 2000, p. 7 e ss.. Sull’influenza del “Kanun” nella regione del Kosovo e sui delitti di omicidio per “gjakmarrje” in tale regione v. SALIHU, Vrasjet ne Kosove, Prishtine, 1985, p. 224 e ss; HALILI, Vrasjet per hakmarrje, in Perparimi, n. 5, Prishtine, 1969, p. 381 e ss..
6 Si veda ELEZI, La tradizione giuridica penale dell’Italia in Albania, in Diritto&Diritti, Rivista giuridica elettronica pubblicata su internet, URL : https://www.diritto.it , ISSN : 1127-8579, marzo 2011, www.diritto.it /docs/31399.
7 Si veda SISTO CAPRA, Albania proibita: il sangue, l’onore e il codice delle montagne, Milano, 2000.
8 In tema, preminente rilievo assume il romanzo di Ismail Kadare, Aprile Spezzato, Milano, 2008.
9 VALENTINI, La legge delle montagne albanesi pelle relazioni della missione volante. 1880-1932, Firenze, 1969.
10 Con riguardo alla tematica de qua assume rilievo l’opera di HAJDARI, Poema dell’esilio , Rimini, 2005.
11 Si confronti R. Simone, Reportage il bandito e la sposa. Viaggio nel Dukagjin, Albania del Nord. Dove l’onta si lava nel sangue. E l’uomo ha diritto di vita e di morte.
Consultabile sul sito:http://www.dweb.repubblica.it/d/1997/10/07/attualità/dalmo.
12 MAZZIOTTI, Immigrazioni albanesi in Calabria nel XV secolo, Castrovillari, 2004; RESTA, Un popolo in cammino: le migrazioni albanesi in Italia, Lecce, 1996; DEVOLE, L’immigrazione albanese in Italia, Roma, 2006.
13 DE LEO, Mobilità etnica tra le sponde dell’Adriatico in età medievale, in Gli albanesi in Calabria, Secoli XV-XVIII n. 1, Cosenza, 1988.
14 Per maggiori approfondimenti sul concetto di “besa” si vedano: tra gli studiosi italiani v. CRISAFULLI – DI TULIO, Aspetti della criminalità militare nel settore albanese, Tirane 1942; ; ASCOLI, La vendetta del sangue, Milano, 1961; nella dottrina albanese v. ISMAILI, Besa ne te drejten zakonore shqiptare, gjurmime albanologjike – folklor dhe etnologji, I, Prishtine, 1971, p. 96 e ss; ÇABEJ, Zakone dhe doke te shqiptareve, vol V, Prishtine, 1975, p.190 e ss.; ELEZI, E drejta zakonore e laberise ne planin krahasues, Tirane, 1994.
15 MARCO, Gli arbereshe e la storia. Civiltà, lingua e costumi, Lungro, 1996.
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