Con la sentenza n. 10102 del 29 aprile 2013 la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha fatto chiarezza sui limiti dell’attività professionale esercitabile dal praticante avvocato abilitato al patrocinio, con particolare riferimento agli ambiti del diritto del lavoro e della materia previdenziale.
Il casus decisus vede confermata dalla Suprema Corte l’impugnata decisione della Corte di Appello di Perugia, la quale aveva a sua volta accolto il gravame sottopostole dichiarando la nullità del ricorso introduttivo del giudizio in materia di lavoro e previdenza, nonché di tutti gli atti ad esso conseguenti, posti in essere dal difensore del patrocinato, al tempo solamente praticante avvocato abilitato al patrocinio.
La Suprema Corte ha avallato quanto deciso dal giudice di merito di secondo grado, però, con motivazioni alquanto diverse, se non per certi versi persino contrastanti con quelle addotte nella sentenza della Corte d’Appello di Perugia, mettendo nero su bianco rilevanti chiarimenti su quello che è l’ambito di attività professionale del praticante avvocato abilitato in generale.
La posizione della Corte di Appello del Tribunale di Perugia, infatti, si basa sulla convinzione della Corte medesima, che tale atto sia da dichiararsi nullo poiché “il difensore che lo ha proposto e sottoscritto non era a ciò abilitato”, ravvisando una totale carenza di ius postulandi, ovvero della facoltà di proporre domande giudiziali per il proprio patrocinato, in capo al praticante avvocato seppur abilitato, quando la controversia verta in materie di diritto del lavoro o previdenziale. La Corte di merito, infatti, considera violate le norme di cui all’Art. 7 della L. 16 dicembre 1999, cd. Legge Carotti, nonché all’Art. 8 del RDL. n.51/1933, come modificato dal D.lgs. n. 51/1998, fonte di pari rango, ma tra loro non in rapporto di specialità, aderendo ad un indirizzo che la Suprema Corte definisce, al primo periodo dei Motivi della decisione, nella sentenza in analisi, “sulla scorta di una restrittiva ed errata interpretazione dell’art. 7 cit.”
La Suprema Corte, infatti, pur confermando quanto deciso nel dispositivo della sentenza di secondo grado, confuta alcuni ragionamenti motivazionali della stessa, correggendoli in base al meccanismo predisposto dalla norma di cui all’Art. 384 ult. co. c.p.c. a tenore del quale “non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto; in tal caso la Corte si limita a correggere la motivazione”.
Questo è infatti quanto è avvenuto nella decisione in commento.
Nella sentenza n.10102 viene evidenziata dalla Corte la compatibilità dello status e ruolo di praticante avvocato abilitato al patrocinio anche agli ambiti del diritto del lavoro e previdenza, altresì fissando in maniera esplicita che “fino alla cancellazione dall’Albo il praticante avvocato abilitato conserva lo “ius postulandi” anche nelle cause di lavoro innanzi al Tribunale in virtù del disposto del citato art. 8”. Si fa riferimento a tal proposito alla disposizione di cui all’art. 8 del RDL n. 1578/1933, coma modificato dall’Art. 246 del D.Lgs. n. 51/1998, corpus normativo istitutivo del Giudice Unico di primo grado.
I motivi di ricorso in sede di legittimità vengono dalla Suprema Corte ritenuti infondati, confermando così quanto deciso dalla Corte d’Appello di Perugia, solo perché il valore complessivo della causa in materia di lavoro patrocinata dal praticante avvocato abilitato superava il previsto limite dei cinquanta milioni di lire, atteso che la domanda giudiziale sottoscritta dal medesimo chiedeva la condanna al pagamento per la società-datrice convenuta per una somma di denaro che superava gli 80 milioni di lire, e non certo per la ravvisata carenza di ius postulandi in capo al difensore.
Conferma, quindi, il giudice di legittimità, con la correzione motivazionale, la possibilità del praticante avvocato abilitato al patrocinio di promuovere e sottoscrivere ricorsi anche in materia di lavoro e previdenza, sempre però nel rispetto dei limiti di valore della controversia previsti dalla disciplina che ne regola l’esercizio.
Sul punto la Suprema Corte, infatti, ha asserito che “quanto alle cause nelle quali il citato Art. 7, co.1, lett.a) ha previsto, per il praticante avvocato abilitato, la possibilità di esercitare l’attività professionale con riferimento agli “affari civili” il Collegio ritiene che tra quelle indicate al n.1) “ cause, anche se relative a beni immobili, di valore non superiore a lire cinquanta milioni” – diversamente da quanto affermato dalla Corte di merito – debbono ricomprendersi anche quelle in materia di lavoro e previdenza ed assistenza che, prima della istituzione del giudice unico di primo grado, rientravano nella competenza pretorile.”
I giudici della Corte di Cassazione portano avanti il ragionamento facendo osservare che “laddove il Legislatore ha inteso far riferimento alla materia della causa lo ha espressamente detto come nei punti 2) e 3) della lettera a) del citato art.7 co.1. Peraltro, la distinzione delle cause di lavoro e in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria nell’ambito degli affari civili potrebbe derivare dalla diversità del rito ma il criterio del rito è estraneo all’art.7 co.1 lett. a)”.
Ne deriva per logica conseguenza a quanto sin qui esposto ed argomentato che, secondo la Suprema Corte, le controversie vertenti in materia di diritto del lavoro e di previdenza, non sono affatto escluse dalle attività attribuite, e disciplinate per legge, al praticante avvocato abilitato al patrocinio che può, riconoscendo in capo a quest’ultimo il potere dello ius postulandi, promuovere e sottoscrivere l’atto introduttivo del giudizio, nonché quelli a questo consequenziali, come ad esempio nel caso de quo nel rito del lavoro, con apposito ricorso ex Art. 414 c.p.c., atteso che ciò non ecceda il limite di valore massimo della causa, pari ad euro 25.822,00, e che il praticante non stia esercitando oltre il distretto della Corte d’Appello in cui è iscritto nell’apposito registro dei praticati abilitati.
La pronuncia analizzata si pone, comunque, sul solco dei pareri pronunciati dal Consiglio Nazionale Forense, organismo espressione dell’intera classe avvocatizia ed al contempo soggetto con profili di diritto pubblico, il quale ha ravvisato che “si deve ritenere che la prescrizione di cui all’art.7, comma primo, lett. a) della L. 16 dicembre 1999, n. 479, debba comprendere anche le cause dinanzi al giudice unico in funzione di giudice del lavoro, in piena analogia con lo jus postulandi concesso al praticante nel contenzioso civile con rito ordinario. Il praticante abilitato potrà, quindi, prestare la propria opera in tutte le cause nelle quali il valore della controversia sia compreso entro i 25.822,00 euro ( già cinquanta milioni di lire)” (Parere 09.05.2007, n. 16 Cons. naz. forense; Parere 26.10.2006, n. 59 Cons. **** Forense).
Per completezza si deve tenere presente che ora i termini entro cui si può muovere il praticante abilitato si solo leggermente ristretti a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 247/2012, che all’Art. 41 ha riformato e solo parzialmente ridisegnato i confini di tale ambito.
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