1. QUADRO NORMATIVO
Da alcuni anni si registrano sempre più frequenti tentativi di consolidare nel nostro ordinamento un nuovo istituto, quello della cosiddetta white list delle imprese che, aspirando ad avere rapporti contrattuali con la p.a. o con altre imprese che hanno ottenuto appalti dalla p.a. e dopo essere state sottoposte ad apposite verifiche, non risultano soggette ad infiltrazione mafiosa.
La misura, ora generalizzata dalla legge anticorruzione n. 190 del 2012, ha avuto all’inizio un’applicazione limitata ad alcuni ambiti territoriali in cui vi era la necessità di bandire numerose gare per appalti pubblici di importo rilevante, sia per l’opera di ricostruzione conseguente a calamità di grande portata sia per la costruzione di opere pubbliche in occasione di grandi eventi, con il contestuale pericolo che detti appalti fossero pesantemente inquinati dalle infiltrazioni delle organizzazioni criminali.
Si osserva che la white list è un istituto che mira a raggiungere obiettivi analoghi a quelli della disciplina dettata, per le grandi opere, dall’art. 176 c. 3, lett. e) del Codice degli appalti, che prevede l’adozione di protocolli di legalità, attuativi delle linee guida emanata dal Comitato di alta sorveglianza sulle grandi opere, previsto dall’art. 180 del Codice, nelle quali è contemplata, tra l’altro, la sottoposizione all’informazione antimafia anche per le ditte assegnatarie di subappalti e subcontratti di valore inferiore alla soglia prevista per legge ai fini dell’applicazione dell’art. 10 d.P.R. 252/1998. Tale comune finalità consiste nella costruzione di ulteriori barriere, mediante l’aggravamento delle cautele antimafia, contro l’inesauribile interventismo della criminalità organizzata sugli appalti più lucrosi, attorno ai quali rischia continuamente di generarsi un contesto di collusioni, favoritismi, intimidazioni e indebiti approfittamenti che costituiscono l’essenza della mafiosità e lo sbriciolamento dell’autorevolezza dello Stato.
Il primo intervento normativo che ha previsto la white list, di cui si ha notizia, è l’art. 16 del d.l. 28 aprile 2009, nr. 39, recante interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009, aggiunto dalla legge di conversione n. 77 del 28 giugno 2009, che ha predisposte alcune misure preventive contro il segnalato rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata in occasione della ricostruzione post-terremoto in Abruzzo, applicative dello speciale regime di controlli di cui alle linee guida emanate dal citato Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere.
Per agevolare l’attività degli esecutori dei lavori, è stato tra l’altro previsto che costoro possono rivolgersi a fornitori e prestatori di servizi inseriti negli speciali elenchi istituiti presso il prefetto (sic) territorialmente competente, che ne certificano la mancata soggezione a rischio di inquinamento mafioso.
Analoghe previsioni a quelle inerenti la ricostruzione in Abruzzo sono dettate dall’art. 3-quinquies del d.l. 25 settembre 2009, n. 135, così come integrato e convertito dalla l. 20 novembre 2009, n. 166, riportante disposizioni per garantire la trasparenza e la libera concorrenza nella realizzazione delle opere e degli interventi connessi allo svolgimento della rassegna “Expò Milano 2015”. In particolare si stabilisce che, presso la prefettura di Milano, è prevista la costituzione di elenchi di fornitori e prestatori di servizi, non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, cui possono rivolgersi gli esecutori dei lavori oggetto della norma.
Su questo, come su altri aspetti dei controlli antimafia sull’Expò, viene contemplata la presentazione di una relazione annuale alle Camere.
Effettivamente, il 18 ottobre 2011 è stato emanato un D.P.C.M. che tratteggia le linee guida del sistema di controlli in esame.
Di particolare rilievo è l’art. 3 del D.P.C.M., in forza del quale gli elenchi in questione sono liberamente consultabili per via telematica e le imprese iscritte a tali elenchi sono soggette alle verifiche miranti ad accertare l’insussistenza a loro carico delle condizioni ostative ex art. 10, c. 7, d.P.R. 252/1998.
L’art. 4 regola la procedura di iscrizione agli elenchi, che viene attivata con la presentazione di un’istanza da parte dell’impresa interessata, con allegata copia del certificato d’iscrizione presso la C.C.I.A.A..
Detti elenchi sono soggetti a revisione annuale, ex art. 5 del più volte citato decreto, il cui termine decorre dalla scadenza di ciascuna iscrizione, previo accertamento del permanente interesse all’inserimento negli elenchi; in caso di controindicazioni, il prefetto dispone la cancellazione da questi ultimi.
L’imprenditore ha anche l’obbligo di segnalare tempestivamente le eventuali variazioni intervenute negli assetti proprietari o gestionali dell’impresa ovvero nell’incarico di direttore tecnico.
La prima previsione generalizzatrice dell’istituto della white list era contenuta nel d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla l. 12 luglio 2011, n. 106 (decreto sviluppo) il cui art. 4, c. 13, ha disposto l’istituzione, presso ogni prefettura, degli elenchi in questione, le cui modalità attuative dovevano essere regolate con decreto interministeriale da emanare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del decreto legge, di cui però non si ha notizia.
Anche la recentissima legge 6 novembre 2012, n. 190, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, ha dedicato l’art. 1, c. 52 e ss., alla white list, prevedendo l’istituzione di detti elenchi, l’iscrizione ai quali dovrebbe soddisfare i requisiti per l’informazione antimafia per l’esercizio di attività in determinate attività imprenditoriali sottoposte a rischio di infiltrazione mafiosa.
Queste ultime sono enumerate dal successivo c. 53, che ad esempio annovera il trasporto di materiali a discarica per conto terzi, il trasporto, anche transfrontaliero, e smaltimento di rifiuto per conto terzi, estrazione e trasporto di terra e materiali inerti, confezionamento, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti, il confezionamento, la fornitura ed il trasporto di calcestruzzo e di bitume, i noli a freddo di macchinari, la fornitura di ferro lavorato, i noli a caldo, gli autotrasporti per conto terzi, la guardiania dei cantieri.
Detta elencazione di attività può essere modificata annualmente con l’apposita procedura indicata dal comma 54.
Le modalità per l’istituzione, l’aggiornamento delle attività a rischio e l’attività di verifica sono definite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta dei ministri competenti, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, prevista per il 28 novembre 2012.
Da notare che, all’estensione su tutto il territorio nazionale degli elenchi prefettizi, corrisponde una limitazione del loro ambito oggettivo di applicazione alle sole attività a rischio di infiltrazione mafiosa, che è tuttavia più nominale che sostanziale considerato il notevole volume economico di queste ultime.
La disposizione del comma 53 rende pertanto la white list della legge anticorruzione affine a quei protocolli di legalità relativi alle grandi opere, sopra richiamati, che anch’essi estendono i controlli antimafia ai subcontratti a maggior rischio di infiltrazione mafiosa.
2. LE PROBLEMATICHE DERIVANTI DAL NUOVO ISTITUTO
Dalla lettura delle citate disposizioni della legge anticorruzione è possibile rilevare che, a fronte di obblighi precisi da parte della prefettura, come l’istituzione degli elenchi e le verifiche periodiche, non vi è alcun obbligo dell’impresa, se non quello di comunicare le modifiche dell’assetto proprietario e dei propri organi sociali.
L’efficacia della norma è legata, pertanto, ad un effetto incentivante sul mondo delle imprese, derivante dalla circostanza che l’iscrizione agli elenchi soddisfa i requisiti per l’informazione antimafia.
La volontarietà dell’iscrizione alla white list è stata, però, causa dell’inefficacia dell’istituto, così come stigmatizzato dai rappresentanti dell’A.N.C.E. nell’audizione sul Disegno di legge n. 2156/B, in materia di anticorruzione, nel settembre 2012 presso le commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato (1).
La predetta Associazione, nell’occasione, sollecitava l’obbligatorietà dell’iscrizione sia per dare effettività alla norma sia per “estendere il controllo sistematico delle prefetture a tutti gli investimenti in costruzioni, sia pubblici che privati”, in quanto gli investimenti in opere pubbliche costituiscono una minoranza rispetto al complesso degli interventi, perlopiù di natura privata (83%).
Tali preoccupazioni sono state più volte riprese sulle pagine di un autorevole quotidiano economico, che sollecitava ad un maggior coraggio nell’applicazione dell’istituto (2).
La disposizione inserita nella legge anticorruzione ha, in minima parte, recepito tali suggerimenti, non essendo esplicitamente limitata alle sole imprese che mirino a conseguire appalti o subappalti pubblici.
Per il resto l’appello dell’organizzazione imprenditoriale, nella parte relativa all’obbligatorietà dell’iscrizione, è rimasto inascoltato, il che probabilmente non è avvenuto a caso, considerate le notevoli problematiche che l’istituto in questione può causare e ai difetti di coordinamento con altre fonti normative.
In primo luogo non è inutile rilevare come, in un’epoca di asserita semplificazione della normativa e degli adempimenti amministrativi, viene creato un altro strumento che non sostituisce, ma si aggiunge alle ordinarie misure previste dalla legislazione in materia di documentazione antimafia.
A tal proposito pare abbastanza sibillina la disposizione transitoria di cui al comma 57 dell’articolo 1 della legge anticorruzione, secondo cui “fino al sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto di cui al comma 56 continua ad applicarsi la normativa vigente alla data di entrata in vigore della presente legge” perché non è dato comprendere qual’è la normativa che dovrebbe continuare ad applicarsi fino al sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto attuativo e che, sembra di capire, non dovrebbe essere più in vigore successivamente.
Il legislatore dovrebbe chiarire se si tratta di un tentativo di abrogazione tacita di tutto o parte di un impianto normativo consolidato, che ha tra i suoi pilastri l’informativa antimafia mirata al singolo appalto pubblica, la comunicazione antimafia e la certificazione camerale con dicitura antimafia.
Bisogna, altresì, osservare che, se l’iscrizione nei citati elenchi “soddisfa i requisiti per l’informazione antimafia per l’esercizio della relativa attività”, così come recita la legge, è presumibile che il decreto attuativo debba richiedere per tale iscrizione le stesse verifiche che sono ora previste per il rilascio dell’informazione antimafia. A quel punto ci troveremmo di fronte ad un singolare doppio binario nei settori a rischio, per tutti quei contratti e subcontratti dove non sussiste l’obbligo, a norma di legge, di produrre l’informazione antimafia: una parte delle imprese, infatti, continuerebbe ad operare producendo solo la certificazione camerale con la dicitura antimafia, mentre altre imprese, richiedendo l’iscrizione ai citati elenchi prefettizi, verrebbero sottoposte alle più rigorose verifiche per l’informazione antimafia.
Non si può, altresì sottacere l’ingente impiego di risorse, anche umane, che determinerebbero la più che probabile adozione delle procedure per l’informazione antimafia e un’eventuale consistente adesione alla white list.
Inoltre, non è ben chiaro, alla luce dell’ultima innovazione normativa, quale sarà la sorte della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia, prevista dall’art. 96 del Codice antimafia, che, tra l’altro, è destinata a contenere le comunicazioni e le informazioni antimafia, liberatorie e interdittive, ma che non è ancora entrata in funzione, in virtù della disposizione transitoria di cui all’art. 119 del Codice antimafia.
Le stazioni appaltanti e gli altri soggetti di cui all’art. 97 del Codice potranno effettuare la consultazione della banca dati, che equivale al rilascio dell’informazione antimafia liberatoria, ai sensi dell’art. 92, c. 1; l’informazione interdittiva viene rilasciata dal Prefetto, ai sensi dell’art. 92, cpv..
La comunicazione antimafia è richiesta dal soggetto interessato e rilasciata, parimenti, con la consultazione della banca dati.
Se verrà incentivato il ricorso al meccanismo della white list, bisognerà quindi decidere cosa fare della banca dati, perché la consultazione della banca dati e quella degli elenchi prefettizi hanno efficacia similare, visto che l’iscrizione a questi ultimi, si ribadisce, soddisfa i requisiti per l’informazione antimafia.
Il coordinamento tra legge anticorruzione e Codice antimafia è poco chiaro anche sotto il profilo dell’applicazione dell’art. 91, c.7, del Codice antimafia, che prevede l’emanazione di un regolamento finalizzato all’individuazione di attività a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, per le quali è sempre necessaria l’acquisizione di documentazione, presumibilmente l’informativa antimafia, a prescindere dal valore del contratto o subcontratto. E’ stato già rilevato che anche l’art. 1, c. 52, della legge anticorruzione operi relativamente alle attività a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, ma che l’adesione ai citati elenchi non ha quel carattere di obbligatorietà, che invece dovrebbe contraddistinguere regolamento di cui al citato art. 91, c. 7, una volta approvato.
Ancora meno chiara è la sorte dei numerosi protocolli di legalità sottoscritti in varie zone del territorio italiano, nella parte in cui prevedono l’obbligatorietà dell’informativa antimafia anche per quei contratti di appalto di valore inferiore alla soglia prevista per legge.
Ma l’aspetto che desta più perplessità è proprio il concetto stesso di una lista delle imprese esenti da infiltrazione criminale, che accanto all’aspetto positivo della manifestazione al mondo sociale ed economico delle imprese virtuose, presenta un’altra faccia, che potremmo definire il lato oscuro dell’istituto, cioè l’implicita considerazione che le imprese che non chiedano l’iscrizione abbiano qualcosa di inconfessabile da occultare e siano quindi meritevoli di essere emarginate e messe al bando.
Tale effetto deriva, nei settori produttivi in questione, dal tentativo di abbandono di un sistema imperniato sulla consultazione di una singola posizione in favore del concetto di “elenco” o “lista”, che consente invece di venire a conoscenza di tutta una serie di posizioni, a meno che il regolamento attuativo non ponga dei limiti sia del punto di vista dei soggetti abilitati alla consultazione e, soprattutto, sotto il profilo delle posizioni consultabili; in quest’ultimo caso, tuttavia, è ben evidente che si ridurrebbe la portata innovativa della white list, poiché si tornerebbe al sistema vigente e non si percepirebbe l’innovazione rispetto al’informazione antimafia.
La norma in questione desta, quindi, l’impressione che, evidenziando le imprese meritevoli di un bollino di legalità, ne segnali l’eccezionalità rispetto alla regola di un mondo imprenditoriale opaco e poco affidabile.
Detta sensazione è aggravata perché l’istituto, prima circoscritto ad aree abbastanza ristrette, ora viene generalizzato a tutto il territorio nazionale.
Lo Stato e tutti i settori della società improntati al rispetto della legge, lungi dal dimostrare la propria autorevolezza, danno invece in questo modo l’idea di essere assediati dalle organizzazioni criminali, tanto da dover predisporre strumenti eccezionali che, a loro volta, aggravano le previsioni di altre norme eccezionali, perché, si ricorda, la documentazione antimafia nasce nell’ambito di una legislazione emergenziale.
Senza tener conto delle esigenze di chiarezza della cittadinanza, spesso disorientata dalle frequenti innovazioni normative, che il più delle volte si stratificano in modo poco comprensibile.
3. LA COMPATIBILITA’ DELLA WHITE LIST CON IL DIRITTO COMUNITARIO.
La norma predisposta dalla legge anticorruzione, attesa la mancata obbligatorietà dell’iscrizione, sembra predisporre un meccanismo di carattere premiale, che intende favorire la trasparenza degli appalti pubblici e dell’ambiente imprenditoriale mediante qualche incentivo, al momento non molto chiaro e da delineare successivamente, forse nella normativa di attuazione.
Considerata la funzione essenzialmente informativa e incentivante della white list, l’istituto non sembra porre particolari problemi di compatibilità con il diritto comunitario, in quanto non determina, allo stato attuale, una restrizione, tantomeno indebita, della partecipazione delle imprese alle gare di appalto.
Nel caso l’iscrizione fosse stata obbligatoria, qualche problema si sarebbe invece posto, come emerge dalle considerazioni che seguono.
E’ bene, a tal fine, richiamare il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul tema della tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto, per difetto dei requisiti soggettivi, con particolare riferimento alle misure antimafia in materia di appalti.
Una recente sentenza del massimo organo di giustizia amministrativa, attinente all’informativa supplementare antimafia, ha stabilito il principio secondo cui “si deve ritenere che le cause di esclusione dagli appalti previste dal diritto comunitario, e puntualmente recepite dall’ordinamento interno…, non sono esaustive e tassative, potendo i legislatori nazionali prevederne ulteriori a salvaguardia di interessi pubblici generali diversi da quello della tutela della concorrenza, e fondate su ragioni di ordine e sicurezza pubblica”….
Infatti “alla luce degli artt. 55 e 58 del Trattato di Roma, nell’ordinamento italiano, ben si giustificano e sono compatibili con la libertà di circolazione e con la tutela della concorrenza, cause di esclusione dagli appalti che, sebbene ulteriori rispetto a quelle previste dal diritto comunitario degli appalti, sono motivate da cautele antimafia, in quanto le stesse hanno il loro fondamento in ragioni di ordine pubblico e sicurezza pu bblica, e, lungi dal provocare una restrizione della concorrenza, mirano al contrario a garantire l’esplicazione di una concorrenza sana e avulsa da inquinamenti da parte della criminalità organizzata” (3).
Al contrario, un autorevole indirizzo dottrinale (4), con riferimento all’art. 38, c. 1, lett. m ter, del Codice degli appalti, introdotto dall’art. 2, c. 19, della l. 94/2009 (pacchetto sicurezza del 2009), che ha previsto l’esclusione dalle gare per omessa denuncia dell’imprenditore che abbia subito determinate condotte di reato, ha sostenuto, sulla base di un precedente giurisprudenziale (5), che tale fattispecie normativa non possa essere ricompresa nell’art. 45 della direttiva 2004/18 e che, invece, le innovazioni normative miranti al contrasto delle mafie, che incidono sui requisiti generali di ammissione alle gare di appalto comunitarie, debbono essere condivisi in sede europea.
Ed è questo secondo orientamento interpretativo che pare destinato a prevalere, atteso il sempre maggior rilievo assunto dal diritto comunitario rispetto alla legislazione nazionale.
Tali coordinate ermeneutiche vanno applicate anche quando si transita dai requisiti sostanziali per l’ammissione alle gare al meccanismo procedurale per il loro accertamento.
Sotto questo profilo, l’art. 45, par. 1, della direttiva 2004/18 stabilisce inequivocabilmente che “ai fini dell’applicazione del presente paragrafo, le amministrazioni aggiudicatrici chiedono, se del caso, ai candidati o agli offerenti di fornire i documenti di cui al paragrafo 3 e, qualora abbiano dubbi sulla situazione personale di tali candidati/offerenti, possono rivolgersi alle autorità competenti per ottenere le informazioni relative alla situazione personale dei candidati o offerenti che reputino necessari”.
Il par. 3 della direttiva 2004/18 richiede, per attestare vari requisiti soggettivi, tra cui la mancata partecipazione ad un’organizzazione criminale, la presentazione di un estratto del casellario giudiziale o, in mancanza di questo, di un documento equivalente rilasciato dalla competente autorità giudiziaria o amministrativa del paese d’origine o di provenienza, da cui risulti che tali requisiti sono soddisfatti.
Ora, è evidente che la presentazione di un certificato, destinato ad essere utilizzato in un procedimento amministrativo e conoscibile solo mediante richiesta di accesso agli atti presentata da persona legittimata, è cosa ben diversa dall’iscrizione ad un elenco pubblicamente consultabile. Tale diversità, se tollerabile in caso di iscrizione facoltativa, diverrebbe inaccettabile, per il diritto comunitario, se l’iscrizione fosse obbligatoria, stabilendo modalità non previste per l’accertamento di un requisito soggettivo.
D’altro canto, la mancanza di coattività non necessariamente sminuisce l’efficacia della norma di nuovo conio contenuta nella legge anticorruzione, se opportunamente corredata da disposizioni integrative che stabiliscano meccanismi premiali, poiché autorevolissima dottrina insegna che “la difesa dell’ordinamento non viene perseguita soltanto attraverso misure repressive o restaurative di una situazione preesistente illegittimamente violata, ma anche mediante misure preventive, di vigilanza e di dissuasione, e persino con l’ausilio di norme che si limitano ad affermazioni di principio che svolgono un’importante funzione “esemplare” (psicologico-pedagogica)….., indipendentemente dalla previsione di qualsiasi sanzione” (6).
1 In www.ancetaranto.it
2 V. BONIFATI, “Più coraggio sulle White list “antimafia” ”, Il Sole 24 ore, 6 febbraio 2012; L. MANCINI, “Le “white list” stentano a decollare”, Il Sole 24 ore, 23 luglio 2012;
3 C.d.S, Sez. VI, 5 giugno 2003, nr. 3124.
4 MONTEDORO, “Appalti, la lotta alla mafia inciampa in Europa?”, in Diritto e pratica amministrativa, 9, 2009, pag. 3 e ss.;
5 C.d.S., Sez. V, 23 marzo 2009, nr. 1755 ;
6 A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, 1981, 11, in cui si rileva anche la sempre maggiore presenza di norme che “stabiliscono “incentivi” e premi a favore di soggetti che si vengano a trovare in particolari situazioni”;
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento