L’accertamento in sede amministrativa del diritto all’indennizzo per emotrasfusioni non produce effetti nel giudizio civile nei confronti della struttura sanitaria

 

Fatto

Una paziente aveva agito dinanzi al tribunale di Bari nei confronti del Ministero della Sanità nonché, per quanto qui di interesse, nei confronti delle strutture sanitarie presso le quali aveva effettuato una trasfusione ematica, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente al contagio da epatite C che sosteneva di aver subito proprio a causa delle trasfusioni di sangue cui si era sottoposta presso le strutture sanitarie convenute.

In particolare, la paziente aveva fondato la propria domanda risarcitoria sul fatto che, in precedenza, le era stato riconosciuto in sede amministrativa l’indennizzo previsto dalla apposita legge numero 210 del 1992 e conseguentemente era già stata accertata l’ esistenza del nesso di causalità fra il contagio da epatite C e le trasfusioni ematiche che la paziente aveva effettuato nelle strutture sanitarie convenute.

Il tribunale di Bari, per quanto qui di interesse, rigettava la domanda risarcitoria formulata nei confronti del Ministero della Salute e accoglieva, invece, la domanda formulata nei confronti delle strutture sanitarie, ritenendo accertata responsabilità di queste ultime per il contagio da epatite C subito dalla paziente e conseguentemente le condannava al pagamento in favore di quest’ultima di un importo pari ad euro 24.300.

L’attrice, non soddisfatta del risultato del giudizio di primo grado, proponeva appello avverso la sentenza del tribunale di Bari, insistendo affinché venisse accertata la responsabilità extracontrattuale della struttura sanitaria, in considerazione del fatto che era stata effettuata la trasfusione ematica da un donatore estraneo senza aver precedentemente informato la paziente che la stessa avrebbe potuto eseguire una autotrasfusione, poiché non vi era urgenza di effettuare la medesima. Infatti, secondo l’attrice, posto che la trasfusione da un soggetto estraneo è di per sé una pratica medica ritenuta pericolosa, questa deve essere effettuata soltanto in caso di urgenza di trasfusione, mentre, in mancanza di tale urgenza, si deve procedere ad una autotrasfusione (che risulta meno pericolosa rispetto al rischio di contagio dell’epatite). In secondo luogo, la paziente sosteneva l’erroneità della decisione di prime cure, in considerazione del fatto che il giudice aveva qualificato il danno all’interno delle lesioni micro permanenti e quindi lo aveva liquidato in misura inferiore rispetto a quanto effettivamente dovuto.

Si costituivano le aziende sanitarie del giudizio d’appello, chiedendo il rigetto dell’impugnazione principale e, a propria volta, impugnando la sentenza in via incidentale, sostenendo l’erroneità della stessa per aver accertato la responsabilità della struttura sanitaria nonostante non fosse emerso il nesso di causalità fra le emotrasfusioni in questione e il contagio da epatite C subito dalla paziente.

La corte territoriale pugliese rigettava l’appello principale proposto dalla paziente e accoglieva, invece, l’appello incidentale proposto dalle strutture sanitarie convenute e conseguentemente riformava la sentenza impugnata di primo grado, rigettando integralmente la domanda di risarcimento danni che era stata formulata dalla paziente.

In considerazione di ciò, l’attrice proponeva ricorso in cassazione avverso la sentenza emanata dalla corte di appello di Bari chiedendone la riforma sulla base di tre distinti motivi.

In particolare, per quanto qui di interesse, la ricorrente sosteneva che la sentenza di secondo grado era errata nella misura in cui accertava l’insussistenza del nesso di causalità fra il contagio da epatite C della paziente e le emotrasfusioni da questa effettuate presso le strutture sanitarie convenute (e conseguentemente escludeva la responsabilità di queste ultime), senza tuttavia prendere in considerazione il fatto che, in sede amministrativa, la paziente aveva già ottenuto il riconoscimento dell’indennizzo previsto dalla legge numero 210 del 1992 (proprio in tema di contagi da emotrasfusioni), dove era stata accertata la sussistenza del nesso causale fra le trasfusioni ematiche e la patologia della paziente. Inoltre, sosteneva la ricorrente, che, nel giudizio di merito, lo stesso ministero della salute aveva fornito ulteriori elementi dai quali poter accertare la sussistenza del suddetto nesso di causalità. Infatti, lo stesso ministero aveva dichiarato di aver imposto a tutte le strutture sanitarie, sin dal 1988, la effettauzione del cosiddetto termotrattamento contro il rischio di contagio da epatite C. A fronte di tali specifici rilievi, le strutture sanitarie convenute non avevano neanche dedotto di aver effettuato tale procedura e i controlli opportuni.

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La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso principale promosso dalla paziente e conseguentemente lo ha rigettato, confermando sul punto la sentenza resa dalla corte di appello di Bari.

In particolare, gli ermellini hanno preliminarmente rilevato come la corte territoriale avesse tenuto in considerazione il fatto che la paziente ricorrente aveva già ottenuto in sede amministrativa i benefici di cui alla citata legge numero 210 del 1992: infatti, secondo gli Ermellini, il collegio pugliese aveva dato conto di tale aspetto all’interno della sentenza impugnata.

Ciò nonostante, la corte suprema ha evidenziato come il fatto che la paziente avesse già ottenuto il riconoscimento dell’indennizzo previsto dalla citata legge n. 210 / 1992 per far fronte al contagio di epatite a seguito di emotrasfusioni e quindi il fatto che in sede amministrativa fosse già stata accertata la sussistenza del nesso di causalità fra le trasfusioni ematiche e l’epatite C di cui era affetta la paziente non abbia rilievo probatorio decisivo all’interno del giudizio civile volto a far accertare il diritto al risarcimento dei danni della paziente nei confronti della struttura sanitaria presso cui è stata effettuata l’ emotrasfusione. Infatti, secondo gli ermellini, l’accertamento effettuato in sede amministrativa costituisce all’interno del giudizio risarcitorio civilistico soltanto una mera circostanza che è soggetta al libero apprezzamento del giudice. Pertanto, quest’ultimo la può valutare ai fini della prova, ma non può mai attribuirle il valore di un vero e proprio accertamento circa la sussistenza del nesso di causalità fra il contagio e la trasfusione ematica.

In secondo luogo, la corte suprema ha altresì ribadito come anche l’accertamento della sussistenza del suddetto nesso di causalità, di per sé solo non implica la responsabilità della struttura sanitaria.

In considerazione di tali argomentazioni, la corte di cassazione ha così respinto il ricorso principale promosso dalla paziente e confermato la sentenza impugnata.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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