L’acceso dibattito sull’obbligo generalizzato di vaccinazione come possibilità

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La pandemia di Covid-19 ha causato un’emergenza sanitaria senza precedenti, e, pertanto, la protezione della salute pubblica è diventata una priorità assoluta per tutti gli Stati che hanno adottato normative finalizzate al contenimento dei contagi mediante misure astrattamente limitative dell’esercizio del diritto alla libera circolazione dei cittadini e ad imporre di fatto ad alcune categorie di soggetti l’obbligo di vaccinarsi.

In particolare, con l’articolo 4 del decreto legge del 1 aprile 2021 n. 44, convertito dalla legge 28 maggio n. 76, il nostro legislatore ha previsto l’obbligo vaccinale per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura ed assistenza.

La questione è di particolare rilevanza in quanto alcuni sostengono che la somministrazione del vaccino comporterebbe il rischio di reazioni avverse e di pregiudizi per la salute dei vaccinati, più gravi di quelli che con le vaccinazioni si intendono prevenire, ritenendo pertanto che il legislatore non dovrebbe imporre coattivamente tale trattamento sanitario. Al contrario si ritiene che soltanto la più ampia vaccinazione dei cittadini possa costituire misura necessaria e idonea a garantire la loro salute e di proteggere, grazie al raggiungimento dell’obiettivo dell’immunità di “gregge”, la salute delle fasce più deboli (anziani e malati) o di coloro che, per particolari patologie, non possono vaccinarsi.

Obbligo o raccomandazione?

Il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che gli è costituzionalmente attribuita, è chiamato a scegliere le modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive, potendo Egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talora quella dell’obbligo di vaccinazione.
Proprio in considerazione dell’esigenza di bilanciare i diversi valori costituzionali in gioco, è ben possibile (anzi, auspicabile) che il legislatore si affidi in prima battuta alla spontanea adesione dei cittadini ad una campagna vaccinale soltanto raccomandata: a favore di una simile opzione, che naturalmente rispetta nella maggiore misura possibile la libertà di cura, milita anche la considerazione che fisiologicamente i cittadini saranno spinti (o dovrebbero essere spinti…) a vaccinarsi già in forza dell’istinto di autoconservazione, nonché la peculiare spinta in direzione di una larga campagna di informazione e di persuasione che l’opzione per la mera raccomandazione della vaccinazione coerentemente genera.
Ma non mi sembra revocabile in dubbio che pienamente compatibile con il sistema costituzionale si configuri, in una situazione di emergenza pandemica, l’adozione dell’obbligo vaccinale, allorquando “lo strumento della persuasione” si sia rivelato “carente sul piano dell’efficacia”, così innovando “il titolo giuridico in nome del quale” la vaccinazione era stata in una prima fase somministrata [in questi termini, la sent. cost. n. 5/2018, n. 8.2.4. del cons. in dir).

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La pandemia da Covid-19 ha contribuito a riaprire tra gli studiosi del diritto della responsabilità civile una riflessione sull’importanza dei principi di prevenzione dei rischi sanitari e, al contempo, di solidarietà sociale, economica e politica affermato dalla nostra Costituzione.

Il diritto alla salute come interesse collettivo: la giurisprudenza

Occorre rilevare che, secondo quanto ritenuto dalla Commissione Speciale del Consiglio di Stato, nel parere n. 2065 del 27.09.2017, la Costituzione non riconosce un’incondizionata e assoluta libertà di non curarsi o di non essere sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori(anche in relazione a terapie preventive quali sono i vaccini) per la semplice ragione che, soprattutto nelle patologie ad alta diffusività, una cura sbagliata o la decisione individuale di non curarsi può danneggiare la salute di molti altri essere umani e, in particolare, la salute dei più deboli.

Il tema dell’obbligo vaccinale presenta profili di particolare complessità in quanto va ad interessare fondamentali valori e diritti costituzionali, tra i quali il diritto alla salute di cui all’articolo 32 della Costituzione ed il dovere di solidarietà sociale previsto dall’articolo 2.
Premesso che il trattamento sanitario obbligatorio può essere imposto solo nella previsione che esso non incida negativamente in maniera rilevante sullo stato di salute di colui che ad esso è assoggettato, occorre effettuare un necessario bilanciamento tra la minimizzazione dei rischi e la massimizzazione dei vantaggi mediante l’individuazione di una soglia di pericolo accettabile da compiersi sulla base di una completa e accreditata letteratura medico scientifica. Alla stregua dell’articolo 32 della Costituzione, la salute non è solo oggetto di un diritto individuale, inteso come diritto alla cura e diritto di non curarsi, ma anche un interesse della collettività. Al riguardo la Corte Costituzionale con sentenza n. 307 del 22.06.1990, ha precisato che “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto a migliorare o a preservare lo Stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”.
Ed ancora la Corte Costituzionale, con sentenza n. 218 del 02.06.1994, ha stabilito che la tutela della salute implica anche il “dovere dell’individuo di non ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui, in osservanza del principio generale che vede il diritto di ciascuno trovare un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri”.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 268/2017 ha stabilito che gli obblighi di vaccinazioni obbligatorie possono essere considerati necessari in una società democratica. È evidente che la copertura vaccinale può essere imposta ai cittadini dalla legge solo con forme di coazione indiretta come quella relativa al possesso del Green Certificate o quella di inibire lo svolgimento di determinate attività in assenza di vaccinazione, quali ad esempio quelle sanitarie.
Riteniamo, che, come stabilito dal Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2021/953 del 14.06.2021, al considerando 36, “è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti Covid -19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate” (ndr. Rettifica del regolamento (UE) 2021/953).

La questione del rischio specifico del trattamento sanitario: indennizzo o risarcimento

Dal combinato disposto degli artt. 2 e 32 Cost. si sa che ogni cittadino è titolare non soltanto del proprio benessere, ma è responsabile anche di quello degli altri, ai fini di una prevenzione e/o di una cura collettivo.
L’imposizione dell’obbligo, infatti, è legittimata solo se sussiste uno specifico ed imprescindibile, quanto necessario ed indispensabile, interesse per la salute della collettività. La stessa Corte costituzionale è intervenuta sul tema, sottolineando il “rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività”. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un “rischio specifico”.

La Consulta ha affermato anche che “ove tali trattamenti obbligatori comportino il rischio di conseguenze negative alla salute di chi a essi è stato sottoposto, il dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 della Costituzione impone alla collettività, e per essa allo Stato, di predisporre in suo favore i mezzi di una protezione specifica consistente in una equa indennità, (da cui deriva) il diritto al risarcimento del danno”.
In altri termini la tutela della salute pubblica permette sì allo Stato di comprimere il diritto alla autodeterminazione del singolo, ma, nel caso in cui questi abbia riportato un danno a causa della misura sanitaria adottata, è indubbio una misura di riparazione.
La legge 25 febbraio 1992 n. 210, rubricata “Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati”[10], costituisce il frutto del recepimento della pronuncia con la quale la Corte costituzionale dichiarava illegittima la legge n. 51 del 1966, nella parte in cui, pur sancendo l’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomelitica, non prevedeva un adeguato ristoro per coloro i quali, da tale trattamento, avessero subito una lesione. A seguire la legge 25 luglio 1997 n. 238, con la quale si è prevista la corresponsione di un assegno una tantum per i danni cagionati nel periodo compreso tra il manifestarsi dell’evento dannoso ed il conseguimento dell’indennizzo.
Il quadro normativo è stato arricchito dalla legge n. 299/2005 che ha introdotto un ulteriore indennizzo in favore delle persone danneggiate da complicanze di tipo irreversibile verificatesi a seguito di vaccinazioni obbligatorie.
Per contro non si è previsto un indennizzo per i danni permanenti alla salute cagionati da vaccini non obbligatori, ma la questione, però, è stata affrontata in via pretoria a più riprese. Nel 2006, ad esempio, la Corte di Appello di Campobasso ha riconosciuto il diritto all’indennizzo anche per coloro i quali erano stati lesi da vaccinazioni non obbligatorie, ma programmate e incentivate; a tale impostazione ideologica-giuridica ha aderito anche il Tribunale di Ravenna, che ha esteso il diritto di indennizzo al caso in cui il danno derivi da trattamenti sanitari che, seppure non obbligatori, siano comunque consigliati attraverso campagne di sensibilizzazione promosse dall’autorità amministrativa[12]. La questione è stata, poi, esaminata dal Tribunale di Ancona, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della l. 210/92 nella parte in cui non riconosceva un diritto all’indennizzo anche a coloro che fossero stati danneggiati dall’inoculazione di una vaccinazione raccomandata ma non obbligatoria.[13] E di fondante importanza è la pronuncia della Corte Cost. sent. n. 118/2020 del 23.06.2020 cha ha portato all’affermazione del ristoro anche per le vaccinazioni non obbligatorie; la sentenza additiva estende l’applicazione di una fattispecie oltre ai casi originariamente previsti dal legislatore atteso che illegittima, per irragionevole disparità di trattamento, la mancata previsione dell’indennizzo per i vaccini non obbligatori.

L’indennizzo non è l’unico istituto, riconoscendosi, in danno dello Stato, anche il dovere di risarcire il danno, laddove ne ricorrano i presupposti. Va precisato che lo strumento risarcitorio e quello indennitario sono diversi tra loro, non solo rispetto ai presupposti ma anche rispetto agli effetti[14]. L’indennizzo, infatti, costituisce una forma di ristoro derivante da un’attività lecita ma lesiva; di conseguenza, esso viene erogato “per il semplice fatto obiettivo e incolpevole dell’aver subito un pregiudizio non evitabile in un’occasione in cui l’intera collettività trae un beneficio”. Per converso il risarcimento del danno ha natura sia sanzionatoria (nei limiti in cui ripara) sia riparatoria, avendo come presupposto la presenza di un danno ingiusto da ristorare. Essenziale è che vi sia la prevedibilità della conseguenza dannosa e l’elemento soggettivo, cioè la presenza del dolo o della colpa dell’agente: perché il danno da vaccino sia ristorabile ex art. 2043 c.c. è necessario che esso sia derivato dal dolo o dalla colpa di chi ha inoculato il vaccino.

La prova del danno

L’aspetto più problematico legato al danno da vaccino è senza dubbio la prova del nesso di causalità, onere per il danneggiato. Sebbene l’accertamento del nesso di causalità nel processo civile sia più agevole di quanto non lo sia nel processo penale (in cui è richiesta la certezza oltre ogni ragionevole dubbio), va rilevato che anche la prova del più probabile può essere controversa. Quando si osserva la casistica giurisprudenziale, infatti, può notarsi che non sempre i giudici di merito hanno riconosciuto tale nesso di causalità. Se, per esempio, la Corte d’Appello di Perugia[16] ha riconosciuto il diritto all’indennizzo in capo al ricorrente che aveva lamentato l’insorgenza di patologie in seguito alla somministrazione del vaccino trivalente, vaccinazione tra l’altro non obbligatoria per legge, bensì solo raccomandata, la Corte d’Appello di Perugia[17] ha rilevato che le conoscenze in tema di autismo, ivi comprese quelle in ordine alle sue possibili cause, sono molto limitate, affermando che, ad oggi, non è possibile sostenere scientificamente la tesi dell’esistenza di un qualche rapporto causale tra l’insorgenza della sindrome autistica e la somministrazione dei vaccini.

I Giudici del Tribunale di Milano, invece, hanno spesso fatto ricorso, nel decidere questioni relative al riconoscimento o meno del diritto all’indennizzo, all’esito della consulenza tecnica d’ufficio. In un noto caso[18], di fronte alle allegazioni della parte istante, che assumeva la sussistenza di un nesso causale tra la somministrazione del vaccino cui era stato sottoposto il figlio e la sindrome autistica dallo stesso successivamente manifestata, i giudici hanno riconosciuto che il presidio medico in esame, effettivamente, “mostra una specifica idoneità lesiva per il disturbo autistico”. A tale conclusione gli interpreti sono giunti attraverso due rilievi: in primo luogo la stessa casa produttrice del vaccino aveva riconosciuto la neurotossicità del mercurio usato come disinfettante in questi preparati; in più l’autorità sanitaria australiana, aveva sequestrato lotti di vaccino contenenti mercurio in dosi eccedenti i limiti massimi consentiti dalla legge. La presenza di mercurio nel preparato e la conclamata pericolosità della sua presenza nel tipo di farmaco in questione rendevano credibile, agli occhi dei giudici il fatto che quel vaccino fosse l’unica causa conosciuta della malattia in oggetto, rendendola perciò di gran lunga più probabile delle eventuali altre, così incerte sotto il profilo dell’efficienza lesiva da risultare oggi relegate nell’ambito della mera ipotesi.

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Valerio Carlesimo

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