1.Premessa: gli obblighi di trasparenza sottoposti alla Corte costituzionale
Il d.lgs. n. 97 del 2016, che ha modificato il d.lgs. 33 del 2013, sottende la massima espressione della trasparenza amministrativa intesa come “accessibilità totale” delle informazioni e dei dati detenuti dalle pubbliche amministrazioni, con la finalità di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’uso delle risorse pubbliche.
Il citato decreto correttivo ha, in particolare, modificato l’art. 14, avente ad oggetto gli “Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di Governo e i titolari di incarichi dirigenziali”. Il comma 1 elenca i dati e le informazioni che, con riferimento ai titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di livello statale regionale e locale, le amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare sui propri siti. Il comma 1 bis estende tali obblighi di pubblicazione, già previsti per i titolari di incarichi politici, anche ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti. Il comma 1 ter, invece, impone a ciascun dirigente di comunicare all’amministrazione presso la quale presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, con conseguente obbligo per l’amministrazione di pubblicare sul proprio sito istituzionale l’ammontare di tali somme.
La legittimità costituzionale di tali obblighi è stata affrontata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 20 del 2019, che trae origine proprio dall’asserita violazione della normativa europea sulla privacy concernente l’obbligo a carico delle pubbliche amministrazioni di pubblicare sui loro siti la documentazione attestante i compensi ed i rimborsi ricevuti dai dirigenti pubblici per l’espletamento dei loro incarichi nonché le dichiarazioni relative ai dati reddituali e patrimoniali degli stessi e dei loro congiunti. Il Tar del Lazio, infatti, ha sollevato incidente di costituzionalità nel quale, oltre alla violazione di alcuni parametri costituzionali interni (artt. 2, 3, 13 e 117 Cost.), prospettava quella degli artt. 7, 8, 52 della Carta dei diritti UE, dell’art. 8 CEDU e di varie norme della direttiva 95/46/CE sul trattamento dei dati personali, ora sostituita dal Regolamento 2016/679/UE[1].
Le disposizioni giunte all’attenzione della Corte costituzionale, come visto poco sopra, sono state inserite nel d.lgs. 33/2013 con la novella recata dall’art. 13, comma 1, lett. c) del d. lgs. 97/2016 adottato in attuazione della delega di cui all’art. 7 della legge 124/2015, che ha anche introdotto l’accesso civico generalizzato nell’ordinamento italiano.
Va ricordato, in particolare, che il regime di pubblicità contestato è quello previsto originariamente solo per i componenti degli organi di indirizzo politico e successivamente esteso anche ai titolari di incarichi di amministrazione, di direzione o di governo e ai titolari di incarichi dirigenziali. L’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013 dispone la pubblicazione nella sezione dei siti istituzionali, rubricata “Amministrazione trasparente”, dei seguenti documenti e informazioni: a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo; b) il curriculum; c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti; e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti; f) le dichiarazioni patrimoniali e attestazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 5 luglio 1982, n. 441 (Disposizioni per la pubblicità della situazione patrimoniale di titolari di cariche elettive e di cariche direttive di alcuni enti), ovvero la dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche e quella concernente i diritti reali su beni immobili e su beni immobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società, anche in relazione al coniuge non separato ed ai parenti entro il secondo grado, ove essi vi consentano, dovendosi in ogni caso dare evidenza al mancato consenso. Il comma 1-bis dell’art. 14 dispone, quindi, che le pubbliche amministrazioni pubblichino i dati di cui al comma 1 sopra indicati per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione. Infine il comma 1-ter dell’art. 14 dispone che ciascun dirigente comunica all’amministrazione presso la quale presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in relazione a quanto previsto dall’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 897. L’amministrazione è tenuta a pubblicare, sul proprio sito istituzionale, l’ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente. I dati previsti dall’art. 14 vanno pubblicati dalle amministrazioni entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e per i tre anni successivi alla cessazione dello stesso, salve le informazioni concernenti la situazione patrimoniale e, ove consentita, la dichiarazione del coniuge non separato e dei parenti entro il secondo grado, che vengono pubblicate fino alla cessazione dell’incarico. Decorsi detti termini, i relativi dati e documenti sono accessibili secondo la disciplina dell’accesso civico.
2. La rimessione alla Corte
I dati sopra specificati e riferiti ai dirigenti avrebbero dovuto essere pubblicati a decorrere dal 30 aprile 2017. Il d.lgs. 97/2016, all’art. 42, in verità, aveva previsto questo adempimento a partire dal 23 dicembre 2016, ma l’Autorità anticorruzione con delibera n. 241/2017 aveva individuato il nuovo termine del 30 aprile 2017 tenuto conto del numero elevato di soggetti per i quali andavano recuperati e pubblicati i dati e tenuto conto del conseguente impatto organizzativo. A ridosso di detta scadenza è stato proposto ricorso al TAR Lazio da parte di alcuni dirigenti del Garante per la protezione dei dati personali avverso le note che l’amministrazione di appartenenza, in adempimento della disciplina recata dal d. lgs. 97/2016, aveva adottato per richiedere i dati patrimoniali da pubblicare sul sito istituzionale, investendo la questione, in particolare, la pubblicazione dei dati di cui all’art. 14, comma 1, lettere c) ed f), cioè la pubblicazione dei compensi connessi alla carica o all’incarico e delle dichiarazioni concernenti la situazione patrimoniale.
Il TAR del Lazio, con ordinanza cautelare, ha, quindi, accolto la domanda di sospensione dell’esecuzione degli atti impugnati in ragione della rilevata consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate in ricorso e valutato il danno paventato dai ricorrenti. In esito a detta ordinanza cautelare l’Autorità anticorruzione[2] con delibera n. 382 del 12 aprile 2017 ha ritenuto di sospendere l’efficacia della delibera n. 241/2017 “limitatamente alle indicazioni relative all’applicazione dell’art. 14 comma 1, lett. c) ed f) del d.lgs. 33/2013 per tutti i dirigenti pubblici, compresi quelli del SSN, in attesa della definizione nel merito del giudizio e in attesa di un intervento legislativo chiarificatore”.
Con ordinanza collegiale n. 9828 del 19 settembre 2017, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha, poi, sospeso il processo e rimesso gli atti alla Corte costituzionale dichiarando rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1 bis, del d.lgs. 33/2013, nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni rendano pubblici i dati di cui all’art. 14, comma 1, lett. c) ed f) dello stesso decreto legislativo anche per i titolari di incarichi dirigenziali, per contrasto con gli artt. 117, comma 1, 3, 2 e 13 della Costituzione. Il Tribunale amministrativo per il Lazio ha, infatti, rilevato, quanto alla integrale equiparazione dei dirigenti pubblici titolari di incarichi politici, originari destinatari della prescrizione di cui all’art. 14, comma 1, d.lgs. 33/2013 e alla assenza di qualsiasi differenziazione tra le figure coinvolte, che la previsione in contestazione assimila situazioni che non sono equiparabili fra loro, stante la significativa diversità tra le condizioni giuridiche facenti capo, nel vigente ordinamento nazionale, da un lato, ai titolari di incarichi politici e, dall’altro, ai titolari di incarichi dirigenziali. Con la stessa ordinanza n. 9828/2017 il Tribunale ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale, anche in relazione al comma 1 ter dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013, limitatamente alla prescrizione di cui all’ultimo periodo della citata norma in base alla quale “L’amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l’ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente”. In data 8 novembre 2017, in ragione della ordinanza di rimessione della questione di costituzionalità alla Corte, l’Autorità anticorruzione aveva chiarito che non si considerava sospeso l’obbligo di pubblicazione degli emolumenti complessivi a carico della finanza pubblica percepiti dai dirigenti previsto dall’art. 14, comma 1 ter del d.lgs. 33/2013 in quanto “la predetta disposizione non è stata richiamata in alcun modo dall’ordinanza, né è stata oggetto di censura dinanzi al TAR”. Con sentenza n. 84 del 5 gennaio 2018 il medesimo TAR si è pronunciato nuovamente sulla questione degli obblighi di pubblicazione dei dirigenti, questa volta sollecitato dal Garante per la protezione dei dati personali, statuendo per la preclusione della pubblicazione anche del dato di cui al comma 1 ter dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013[3].
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3. Il conflitto tra trasparenza e tutela dei dati personali nella sentenza n. 20 del 2019
La Corte costituzionale ha dovuto operare un bilanciamento tra i principi della pubblicità e della trasparenza da un lato e il diritto alla riservatezza dall’altro.
Il giudice delle leggi è stato, infatti, chiamato a verificare se l’obbligo imposto a tutti i dirigenti pubblici di pubblicare le dichiarazioni patrimoniali sia compatibile con la tutela del diritto alla riservatezza.
Da una parte vi è il diritto alla riservatezza dei dati personali, quale manifestazione del diritto all’intangibilità della sfera privata, che attiene alla tutela della vita degli individui nei suoi molteplici aspetti e trova il suo fondamento nella Costituzione italiana (artt. 2, 14 e 15 Cost.) e protezione anche nelle varie norme europee e convenzionali riportate dal giudice remittente.
Dall’altra parte con lo stesso rilievo vi sono i principi di pubblicità e trasparenza, riferiti non solo, quale corollario del principio democratico (art. 1 Cost), a tutti gli aspetti rilevanti della vita pubblica e istituzionale, ma anche, ai sensi dell’art. 97 Cost., al buon funzionamento dell’amministrazione e ai dati che essa possiede e controlla.
Tale conflitto è ancor più rilevante se si pensa al nuovo scenario digitale, che consente a ciascun cittadino di informarsi, ma nel contempo rende possibile anche la indiscriminata circolazione delle informazioni.
Ricorda poi il Giudice delle leggi che la stessa Autorità preposta alla lotta al fenomeno della corruzione, segnala, non diversamente da quella preposta alla tutela dei dati personali che il rischio è quello di generare “opacità per confusione”[4], proprio per l’irragionevole mancata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti.
La Corte esprime un giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative e opera un bilanciamento tra i due diritti fondamentali di rilievo analogo avvalendosi del test di proporzionalità “che richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi”.
La Corte afferma che “lo scrutinio intorno al punto di equilibrio individuato dal legislatore sulla questione dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti amministrativi va condotto alla stregua del parametro costituzionale interno evocato dal giudice a quo (art.3 Cost), come integrato dai principi di derivazione europea. Essi sanciscono l’obbligo, per la legislazione nazionale, di rispettare i criteri di necessità, proporzionalità, finalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, pur al cospetto dell’esigenza di garantire, fino al punto tollerabile, la pubblicità dei dati in possesso della pubblica amministrazione”.
Sulla base di questa valutazione la Corte giunge a conclusioni diverse con riferimento alle diverse disposizioni censurate.
In particolare, con riferimento alla lettera c) del comma 1 dell’art. 14, la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale. Il regime di piena conoscibilità dei compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché degli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici, risulta, ad avviso della Corte, proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa e volto a consentire la valutazione circa la congruità – rispetto ai risultati raggiunti e ai servizi offerti – delle risorse utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, ad ogni livello, del buon andamento della pubblica amministrazione. La Corte ha ancora precisato che la pubblicazione dei dati inerenti alla situazione economica dei dirigenti pubblici non è tale da costituire un rischio per valori costituzionalmente tutelati quali la sicurezza e la libertà degli interessati (art. 2 e 13 Cost.), né può in alcun modo rappresentare fonte per questi di un pregiudizio alla dignità personale. Si tratta, infatti, di dati che esulano dalla sfera prettamente personale e sono direttamente connessi all’espletamento dell’incarico e delle funzioni di natura dirigenziale assegnati.
La piena conformità costituzionale dell’art.14, comma 1, lett. c)[5] è riconosciuta dalla Corte adottando come parametro di riferimento una definizione molto ampia di incarico dirigenziale riferita “ai soggetti responsabili, ad ogni livello, del buon andamento della PA”. La pronuncia riguarda direttamente tutti i dirigenti pubblici, indipendentemente dalla tipologia di amministrazione presso cui prestano servizio.
La Corte, invece, si è pronunciata in modo differente con riferimento all’art. 14, comma 1, lett. f) del d.lgs. n. 33/2013[6], dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 14, comma 1 bis del d.lgs. 33 del 2013 ” nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1 lett. f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, comma 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
Secondo la Corte costituzionale, in relazione al bilanciamento tra il diritto alla riservatezza dei dati personali e i principi di pubblicità e trasparenza, l’art. 14 comma 1 lett. f) d.lgs. 33 del 2013 non risulta conforme al principio di proporzionalità, in quanto alla compressione del primo non corrisponde un incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini alla trasparenza e alla corretta informazione, né l’interesse pubblico alla prevenzione e repressione dei fenomeni corruttivi. La Corte ritiene, infatti, che la conoscenza del complesso delle informazioni e dei dati di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione, per come è formulata la norma rivolta in modo indiscriminato a tutti i dirigenti pubblici, non appare né necessaria né proporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza.
La norma censurata, infatti, omette di fare una gradazione degli obblighi di pubblicazione in base al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta dai dirigenti.
Il legislatore avrebbe dovuto operare, secondo la Corte, distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico, al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziali di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare.
Il livello di potere decisionale e gestionale degli incarichi influenza certamente sia la gravità del rischio corruttivo sia le conseguenti necessità di trasparenza ed informazione dei dati “la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche”.
La previsione normativa di un tale obbligo è stata, pertanto, dichiarata non conforme a Costituzione in quanto contrastante sia con il principio di ragionevolezza sia con quello di uguaglianza non operando alcuna distinzione tra i diversi incarichi dirigenziali.
La disciplina sulla trasparenza in questione, infatti, era stata prevista in origine per i soli titolari di incarichi politici, soggetti normalmente estranei alle amministrazioni e che, in ragione del consenso popolare ottenuto, ricoprono posizioni di vertice nell’ambito delle stesse. La ratio era quella di verificare se i soggetti, titolari di incarichi politici, proprio in ragione di questi incarichi, beneficiano di incrementi patrimoniali non coerenti con i compensi percepiti per gli incarichi stessi. Per quanto riguarda il regime di trasparenza previsto per i dirigenti, prima del correttivo – d.lgs. n. 97 del 2016 – la disciplina applicabile era quella dell’art. 15 del d.lgs. 33/2013, che imponeva solo l’indicazione dei compensi relativi al rapporto di lavoro con evidenza delle eventuali componenti variabili o legate alla valutazione del risultato.
La Corte ha ritenuto che l’avere esteso la contestata misura di trasparenza in capo alla generalità dei dirigenti non risulta in linea con le finalità dello stesso decreto trasparenza atteso che gli obblighi di pubblicazione devono consentire un “controllo diffuso” sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche.
Deve, infatti, considerarsi che le finalità della legge devono guidare l’individuazione dell’ambito del pubblicabile sul sito “Amministrazione trasparente” e le informazioni e i dati che vi sono inseriti devono consentire la conoscenza dell’attività amministrativa, dell’organizzazione e della spesa pubblica al fine di rendere possibile al cittadino il controllo introdotto dal legislatore con il decreto trasparenza.
La conoscenza dei dati riferiti ai compensi, in quanto connessi all’incarico svolto e remunerato con soldi pubblici rappresentano informazioni che possono essere considerate utili per il cittadino che volesse comprendere come vengono utilizzate le risorse pubbliche. Il “sacrificio” imposto al dirigente quanto alla riservatezza di tali dati, in vista dell’obiettivo di trasparenza amministrativa da raggiungere, non risulta sproporzionato.
Diverso è l’obbligo di pubblicare le dichiarazioni patrimoniali sotto il “profilo” della “necessarietà” della scelta effettuata dal legislatore, quale scelta meno restrittiva dei diritti fondamentali.
Risulta, pertanto, in linea con il dettato costituzionale e non sproporzionato l’obbligo di pubblicare i compensi di qualunque natura connessi all’assunzione della carica nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici (art. 14, comma 1, lettera c), mentre non lo è quello di pubblicare le dichiarazioni patrimoniali proprie dei dirigenti e dei loro congiunti.
Con riguardo al carattere indifferenziato all’obbligo di pubblicazione a cui all’art. 14 la Corte ha dato un importante contributo, che ha riflessi anche sul piano pratico della individuazione dei dirigenti pubblici destinatari degli obblighi di pubblicazione.
La Corte, infatti, ha considerato che la disciplina di livello primario si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. per la mancanza di differenziazione tra i vari livelli dirigenziali presenti nelle amministrazioni, differenziazione che avrebbe potuto rendere, plausibilmente, l’obbligo di pubblicazione in linea con le finalità della legge. Il legislatore, infatti, avrebbe potuto prevedere tali obblighi di pubblicazione solo per alcune categorie di dirigenti, titolari di maggiore potere decisionale e gestionale, ad esempio per quelli posti ai vertici della macchina amministrativa.
I giudici di legittimità, in attesa dell’intervento del legislatore, riconoscono la necessità di “assicurare allo stato, un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa, in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata”, ritenendo di poter indicare, in via provvisoria, nell’art. 19, comma 3 e 4, del d.lgs. 165/2001, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” un parametro normativo per operare in via interpretativa quella graduazione nell’individuazione degli incarichi dirigenziali ritenuta fondamentale per bilanciare il diritto alla trasparenza amministrativa con il diritto alla riservatezza.
L’art. 19, in particolare, individua due categorie di incarichi dirigenziali, quelli del Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4) la cui posizione e i cui compiti, propositivi, organizzativi, di gestione di risorse umane, strumentali e di spesa – di elevatissimo rilievo, rendono “non irragionevole” il mantenimento in capo agli stessi della trasparenza dei dati reddituali e patrimoniali di cui all’art. 14, comma 1, lett. f).
Secondo la Corte, inoltre, le competenze spettanti ai dirigenti di cui all’art. 19, comma 3 e 4 del d.lgs. 165/2001, rendono manifesto il collegamento sussistente tra la loro attività e quella degli organi di decisione politica con il quale il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente.
La Corte, infine, ha dichiarato inammissibile per difetto di rilevanza la questione sollevata d’ufficio dal TAR Lazio con riferimento al comma 1 ter dell’art. 14 nella parte in cui prevede l’obbligo di pubblicazione degli “emolumenti complessivi” percepiti da ogni dirigente della pubblica amministrazione a carico della finanza pubblica, in quanto il giudizio principale verterebbe su atti che non danno applicazione a tale comma, per cui la decisione del caso concreto prescinderebbe dalla norma in questione.
4. L’intervento interpretativo dell’ANAC con la delibera n. 587 del 26 giugno 2019
Alla luce di tale pronuncia l’Autorità garante della concorrenza e del mercato è tornata sulla questione con la delibera n. 586 del 26 giugno 2019, interpretando la sentenza nel senso di una massima estensione degli obblighi. In primo luogo ad avviso dell’Authority le indicazioni date dalla Corte costituzionale riguardano tutti i dirigenti che prestano servizio presso le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi comprese le autorità portuali, le autorità amministrative indipendenti di garanzia, di vigilanza e regolazione nonché degli ordini professionali, sia nazionali che territoriali.
L’art. 14, comma 1, lett. c) trova pertanto applicazione ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, anche senza procedure pubbliche di selezione. L’obbligo viene considerato dall’AGCM estendibile ai dirigenti con incarichi amministrativi di vertice, ai dirigenti interni e a quelli “esterni” all’amministrazione, compresi i titolari di incarichi di funzione dirigenziale nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, anche se non muniti della qualifica di dirigente pubblico o comunque non dipendenti da pubbliche amministrazioni. La disposizione è riferita dall’ ANAC anche ai dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali, ma che svolgono funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento.
Con riferimento, invece, ai dati reddituali e patrimoniali, ad avviso dell’Autorità, le questioni da affrontare attengono all’ambito soggettivo di applicazione, sia con riferimento alle amministrazioni e agli enti interessati sia con riferimento all’individuazione dei titolari di incarichi dirigenziali cui riferire la disposizione in considerazione.
L’ANAC ricorda che per assicurare un nucleo minimo di tutela della trasparenza la Corte ha rinviato all’art. 19, comma 3 e 4 del d.lgs. 165 del 2001.
Secondo l’Autorità il criterio adottato e desumibile dalla norma è quello della individuazione dei dirigenti cui spetta l’obbligo di pubblicazione dei dati di cui alla lett. f) non in ragione dell’amministrazione di appartenenza quanto in relazione alle attribuzioni spettanti e alla posizione all’interno dell’organizzazione rivestita, essendo rilevanti i titolari di quegli uffici che hanno al loro interno una struttura complessa articolata per uffici dirigenziali generali e non.
Il fatto che la Corte richiami una norma del d.lgs. 165 del 2001 come parametro unico di riferimento per graduare gli incarichi dirigenziali non permetterebbe di escludere che la normativa, nei termini indicati dalla Corte, possa essere applicabile anche alle amministrazioni non statali, ma anzi proprio da una lettura complessa della sentenza si dovrebbe ritenere che anche queste ultime siano ricomprese nell’ambito di applicazione della disciplina.
L’ANAC insiste sul fatto che la Corte si sarebbe pronunciata sulla disposizione di cui all’art. 14 nei confronti di tutti i dirigenti pubblici, indipendentemente dalle amministrazioni cui sono preposti dal momento che apparirebbe singolare che la sentenza in una parte faccia riferimento a tutti i dirigenti e in altra parte limiti il campo di applicazione a quelli che prestano servizio presso amministrazioni statali.
Inoltre, sempre, secondo l’Autorità, un’applicazione rinviata all’intervento legislativo per dirigenti di alcune amministrazioni sarebbe contraria al principio di uguaglianza e alla stessa finalità espressa dalla Corte per giustificare il proprio intervento manipolativo, ovvero quello di assicurare la salvaguardia, almeno provvisoria di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata.
In conclusione l’art. 14, comma 1, lett. f) si applicherebbe alle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi comprese le Autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione nonché gli ordini professionali, sia nazionali che territoriali, come previsto dalla delibera dell’Autorità 241 del 2017.
Peraltro nella medesima delibera l’ANAC ha chiarito che la temporanea sospensione degli obblighi a seguito della sentenza della Corte costituzionale è decaduta con efficacia retroattiva comportando l’obbligo in capo ai soggetti obbligati di provvedere alla pubblicazione dei dati anche per gli anni pregressi, prevedendo un’attività di vigilanza sul punto a decorrere da 3 mesi dalla pubblicazione della delibera n. 586 del 2019.
5. Conclusioni: gli obblighi di trasparenza e gli Ordini professionali
Proprio il riferimento all’estensione degli obblighi di cui all’art. 14, lett. f) merita un riflessione alla luce anche e soprattutto della sentenza della Corte costituzionale in considerazione.
Come visto, infatti, l’attuale art. 14 del decreto 33, così come modificato dal d.lgs. 97 del 2016, afferma che “Con riferimento ai titolari di incarichi politici, anche se non di carattere elettivo, di livello statale regionale e locale, lo Stato, le regioni e gli enti locali pubblicano con riferimento a tutti i propri componenti, i seguenti documenti ed informazioni”. Gli ordini professionali risultano, quindi, palesemente esclusi.
Sulla questione, tuttavia, già la determinazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione n. 241 del 8 marzo 2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 24 marzo 2017, avente ad oggetto “Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14, del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016”, stabiliva espressamente che “per gli ordini professionali, sia nazionali che territoriali … sussiste l’obbligo di pubblicare i dati di cui all’art. 14, relativamente agli incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati”[7]. Avverso tale atto è stato proposto da alcuni consigli nazionali ricorso per l’annullamento parziale, previa sospensione, del provvedimento. Il TAR Lazio con la sentenza 1736 del 14 febbraio 2018 ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso le linee guida richiamando il parere della Commissione speciale n. 1257 del 29 maggio 2017, reso sullo schema in tema di “Aggiornamento delle Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza”[8].
In tale pronuncia la Commissione ha infatti esordito, precisando che le Linee guida in questione costituiscono un “atto non regolamentare”, mediante il quale l’ANAC chiarisce la portata applicativa e le ricadute organizzative degli adempimenti stabiliti dalla normativa di cui alla legge n. 190/2012 e al d.lgs. 33/2013, come novellato dal d.lgs. 97/2016, a carico dei soggetti pubblici e privati sottoposti, al pari delle pubbliche amministrazioni (anche se in misura non sempre coincidente), agli obblighi finalizzati a prevenire la corruzione e ad assicurare la trasparenza nell’azione amministrativa, rispetto ai quali l’Autorità ha una potestà di vigilanza.
Nel parere, il Consiglio di Stato ha specificato, sul punto che qui rileva, come le Linee guida in esame appaiano riconducibili al novero delle Linee guida “non vincolanti”[9], mediante le quali l’ANAC “…fornisce ai soggetti interessati indicazioni sul corretto modo di adempiere agli obblighi previsti dalla normativa e sull’adempimento dei quali ha poteri di vigilanza, indicazioni che costituiranno parametro di valutazione per l’esercizio di tali poteri e l’adozione dei provvedimenti conseguenti. Ne deriva che, secondo quest’ultimo parere, tali Linee guida non sono immediatamente lesive, considerando possibile l’eventuale lesività solo all’esito del procedimento instaurato per “l’adozione dei provvedimenti conseguenti”. Sul punto lo stesso Consiglio di Stato ha precisato – proprio per la natura “non vincolante delle stesse – che comunque i destinatari ben “…possono discostarsi dalle linee guida mediante atti che contengano una adeguata e puntuale motivazione, anche a fini di trasparenza, idonea a dar conto delle ragioni della diversa scelta amministrativa…”
A prescindere, però, dalla natura delle linee guida ANAC il ragionamento portato avanti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 20 del 2019 consente di affermare che l’obbligo in questione sarebbe sproporzionato nei confronti dei componenti di Consigli che non gravano in alcun modo sul bilancio dello Stato poiché si autofinanziano attraverso le quote degli iscritti.
La sentenza della Corte costituzionale, come visto, riconosce che l’art. 14, comma 1, lett. f) viola l’art. 3 della Costituzione innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca in quando impone indiscriminatamente ai titolari di incarichi dirigenziali di pubblicare una dichiarazione contenente l’indicazione dei redditi, soggetti all’IRPEF nonché dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, delle azioni in società, delle quote di partecipazione a società e dell’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società. In particolare, i giudici di legittimità riconoscono che non erra il giudice rimettente laddove, considerata questa massa di dati, intravede un rischio di frustrazione delle stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a base della normativa sulla trasparenza.
Se già tali obblighi sono sproporzionati per il controllo delle risorse pubbliche a maggior ragione lo sono nei confronti di enti, come gli Ordini professionali, sia nazionali che territoriali, che non gravano in alcun modo sul bilancio dello Stato.
Va tal proposito ricordato che di recente la sentenza del TAR Catania, I sez., 5 dicembre 2018, n. 2307 ha affermato che data la specifica natura degli ordini professionali “il legislatore si è preoccupato, di volta in volta, di estendere espressamente agli ordini professionali, con specifiche disposizioni, questa o quella normazione afferente alle pubbliche amministrazioni ed agli enti pubblici”.
In particolare, come riconosciuto dalla citata sentenza gli Ordini professionali non possono essere considerati come enti pubblici non economici tout court, rientrando nella peculiare categoria degli enti pubblici a carattere associativo.
Da tale definizione deriva il carattere ambivalente degli Ordini professionali. Per un verso sono riconosciuti come veri e propri enti pubblici, appunto perché capaci di adottare atti incidenti in via autoritativa sulla sfera giuridica altrui; per altro verso, però, continuano ad essere conformati come enti esponenziali di ciascuna delle categorie professionali interessate e, quindi, come associazioni, organizzazioni proprie di determinati appartenenti all’ordinamento giuridico generale.
L’assetto organizzativo degli Ordini professionali non può non risentire di questa loro duplice natura. Sono certamente soggetti alla disciplina generale per quanto attiene al regime degli atti che emanano nell’esercizio delle loro potestà pubblicistiche, tali enti godono al contempo di una naturale autonomia, sottolineata dai giudici del TAR Catania, che costituisce il riflesso della loro natura associativa. Godono di autonomia finanziaria e contabile perché non ricevono alcun contributo statale, potendo provvedere alla propria sussistenza unicamente con le quote degli iscritti.
Gli ordini professionali non a caso sono stati sottratti dal legislatore alle norme in materia di spending review. Come noto l’art. 2 del d.l. 6 luglio 2012 n. 95 convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 ha previsto una riduzione delle dotazioni organiche “delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, delle agenzie, degli enti pubblici non economici (…..). La ratio di tale provvedimento è senz’altro la riduzione della spesa pubblica e, quindi, misure di contenimento della spesa di soggetti il cui funzionamento costituisce un onere a carico dello Stato.
Gli Ordini, pertanto, sono stati espressamente esclusi dal campo di applicazione soggettivo della normativa in questione grazie al successivo decreto legge 31 agosto, n. 101, convertito dalla legge n. 125 del 2013.
Da quanto sopra esposto si evince chiaramente che non essendovi un interesse al controllo della spesa pubblica l’applicazione degli obblighi di trasparenza in materia di redditi e patrimoni appare del tutto sproporzionata nei confronti degli Ordini professionali. L’applicazione dell’art. 14, comma 1, lett. f) a tali enti sarebbe palesemente contraria ai principi enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza e che l’ANAC ha riletto ricercandone a tutti i costi un’interpretazione favorevole alla massima estensione soggettiva degli obblighi.
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Note
[1] A. Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto intero con una pronunzia in chiaroscuro (a prima lettura di Corte cost. n. 20 del 2019), in Consultaonline 23 febbraio 2019; O. Pollicino, F. Resta, Trasparenza amministrativa e riservatezza, verso nuovi equilibri: la sentenza della Corte costituzionale, in Agenda Digitale, 24 febbraio 2019.
[2] Per approfondimenti sulle Autorità amministrative indipendenti F. GIUFFRÈ, Le autorità indipendenti nel panorama evolutivo dello Stato di diritto: il caso dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, in www.federalismi.it, n.25/2016; N. LONGOBARDI, L’Autorità nazionale anticorruzione e la nuova normativa sui contratti pubblici, in Dir. e proc. amm., n.1/2017, p.15; ID., Autorità indipendenti di regolazione dei mercati e Autorità atipiche. L’Autorità nazionale anticorruzione, in Dir. e proc. amm., n.3/2016, p. 823; I. NICOTRA, Le funzioni dell’ANAC tra cultura della trasparenza e prevenzione della corruzione, in R. CANTONE – F. MERLONI (a cura di), La nuova Autorità Nazionale Anticorruzione, Torino 2015, p.72 ss.; E. D’ALTERIO, I nuovi poteri dell’Autorità Nazionale Anticorruzione: post fata resurgam, in Giornale dir. amm., n.6/2015, pp. 757 ss.; M.E. BUCALO, Autorità indipendenti e soft law. Forme, contenuti, limiti e tutele, Torino, 2018; G. MORBIDELLI, Sul regime amministrativo delle autorità indipendenti, in A. PREDIERI (a cura di), Le autorità indipendenti nei sistemi istituzionali ed economici, Milano, 1997, p. 157 ss.
[3] A. Corrado, Gli obblighi di pubblicazione dei dati patrimoniali dei dirigenti alla luce delle indicazioni della Corte Costituzionale, in www.federalismi.it
[4] In particolare nell’ Audizione sullo schema di decreto legislativo correttivo della disciplina in materia di trasparenza della Pubblica Amministrazione presso le Commissioni congiunte Affari costituzionali del Senato e della Camera dei deputati in data 6 aprile 2016 il Presidente del Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che <<questa disciplina, che possiede grandi potenzialità quale strumento di partecipazione, di responsabilità e di legittimazione, dovrebbe essere preservata dagli effetti distorsivi di una concezione meramente burocratica e da quella “opacità per confusione” che rischia di caratterizzarla se degenera in un’indiscriminata bulimia di pubblicità. Se priva di adeguati criteri discretivi, la divulgazione di un patrimonio informativo immenso e sempre crescente (quale quello delle pubbliche amministrazioni), rischia, infatti, di mettere in piazza spaccati di vita individuale la cui conoscenza è inutile ai fini del controllo sull’esercizio del potere, ma per l’interessato può essere estremamente dannosa. Un eccesso indiscriminato di pubblicità rischia, peraltro, di occultare informazioni realmente significative con altre del tutto inutili, così ostacolando, anziché agevolare, il controllo diffuso sull’esercizio del potere e degenerando in una orma di sorveglianza massiva>>.
[5] L’art. 14, comma 1, lett. c) dispone la pubblicazione dei ” compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici”;
[6] L’art. 14, comma 1, lett. f) dispone la pubblicazione “delle dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 5 luglio 1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di
cui all’articolo 7″.
[7] Si veda G. COLAVITTI, Concorrenza, trasparenza e autonomie. Regolazione dei mercati e nuove forme di governo pubblico dell’economia, Bari, 2018, 121 e ss laddove si consideri che, in numerose decisioni ANAC è rilevabile quantomeno un chiaro indirizzo, difficilmente non qualificabile come “politico” volto ad ampliare la propria sfera di influenza. E’ quanto accaduto nel settore degli appalti, dove ANAC ha assunto diverse decisioni volte ad ampliare la sfera di applicazione del regime vincolistico, sia sotto il profilo soggettivo, con riferimento alla individuazione della platea degli enti di diritto pubblico soggetti alle procedure di evidenza pubblica, sia sotto il profilo oggettivo, con riferimento alla sostanziale inclusione nel campo di applicazione delle predette procedure anche di settori esclusi dalle conferenti fonti europee (le direttive appalti).
[8] Sul sindacato del giudice in materia di linee guida si veda F. CINTIOLI, Il sindacato del giudice amministrativo sulle linee guida, sui pareri del c.d. precontenzioso e sulle raccomandazioni di Anac, in Dir. proc. amm., 2017, p. 381 ss.; ID, I regolamenti delle Autorità indipendenti nel sistema delle fonti tra esigenze della regolazione e prospettive della giurisdizione, in www.giustizia-amministrativa.it, 2003; C.DEODATO, Nuove riflessioni sull’intensità del sindacato del giudice amministrativo. Il caso delle linee guida ANAC, in www.federalismi.it, n. 3/2017. Sull’effettività della tutela giurisdizionale G.ABBAMONTE, Completezza ed effettività della tutela giudiziaria secondo gli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost. in Studi in onore di F. Benvenuti, Modena, 1996; G. GALVAZZI,Effettività (principiodi), in Enciclopediagiuridica.,XII, Roma, 1988,p.420; Tra i contributi successivi al c.p.a. G.MARI, La giurisdizione amministrativa, in M. A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, p. 61; M.A.SANDULLI, Principio di legalità e effettività della tutela: spunti di riflessione alla luce del magistero scientifico di Aldo M. Sandulli, in Dir. e soc, 2016; ID.,Poteri dei giudici e poteri delle parti nei processi sull’attività amministrativa, in www. federalismi.it, n. 18/2015.Sull’effettività della tutela al giudizio amministrativo, ex multis, Cons. St., sez. VI, 14 ottobre 2016, n. 4266.
[9] Su soft law e Autorità indipendenti si veda si veda A. PIZZORUSSO, La produzione normativa in tempi di globalizzazione, Torino, 2008, nt.26;. E. MOSTACCI, La soft law nel sistema delle fonti: uno studio comparato, Padova, 2008, p. 1 afferma che “l’espressione in parola non allude a un concetto stabile e ben sedimentato (…) al contrario, nell’uso corrente, essa mostra di avere un significato a volte vago, altre autonomamente interpretato, senza che sembri rintracciabile un centro di gravità attorno al quale le accezioni del termine convergano in modo coerente”;S.CASSESE, Le autorità indipendenti: origini storiche e problemi odierni, in S.CASSESE-C.FRANCHINI (a cura di), I garanti delle regole, Bologna 1996, p.217 ss.; S. MORETTINI, Il soft law nelle autorità indipendenti: procedure oscure e assenza di garanzie?, in www.osservatorioair.it, n. 4/2012.
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