La fattispecie prevista dall’art. 428 c.c. relativa all’annullabilità degli atti compiuti dal soggetto incapace è stata più volte affrontata dalla Corte di Cassazione, anche recentemente[1], e dall’esame di tali pronunce sia recenti che meno recenti ne esce un quadro di riferimento articolato e ricco di principi elaborati da una costante giurisprudenza, è quindi possibile affermare che le sentenze emesse nel corso di questi anni sono state sostanzialmente univoche nell’interpretare l’art. 428 c.c.
L’evoluzione si è riscontrata, invece, nelle precisazioni delle argomentazioni poste a sostegno delle varie decisioni susseguitesi e nell’allargamento della tipologia di prove addotte per dimostrare l’incapacità.
Definizione della figura giuridica
Le persone legalmente capaci, cioè i maggiorenni e i non interdetti sono normalmente in grado di provvedere a se stesse, tuttavia può accadere, talvolta che il soggetto, non sia in grado di valutare adeguatamente le conseguenze degli atti che compie; in questi casi si sostiene che il soggetto è affetto da incapacità naturale o di fatto, infatti è tale ai sensi dell’art. 428, la persona che sebbene legalmente capace, sia tuttavia incapace di intendere o di volere[2]. In questa situazione rientrano, non solo quindi, l’infermo di mente, l’anziano, il malato grave, il drogato, l’ubriaco, l’ipnotizzato, ecc., ma anche tutte quelle ipotesi che progressivamente emergono dai mutamenti della società e delle conoscenze mediche. Si pensi alla casistica che si riconnette alla fase di reinserimento dei soggetti che hanno attraversato un prolungato periodo di coma, alla maggiore frequenza e gravità dei traumatismi cranici non mortali, alla diffusione di psicofarmaci. L’incapacità naturale può, inoltre, consistere in una condizione permanente d’incapacità, ovvero in una situazione transitoria: ciò che conta, affinché l’incapacità assuma rilevanza, è il momento in cui un atto giuridico sia stato posto in essere.
In definitiva, quindi, l’incapacità naturale, può essere definita come uno stato, non giudizialmente dichiarato, della persona che non è in grado di intendere o di volere per una qualsiasi causa permanente o transitoria, sufficiente a tradursi in un difetto della volontà negoziale che rende annullabile l’atto.
Il fondamento giuridico dell’incapacità naturale
L’ordinamento ha inquadrato il tema dell’incapacità naturale del soggetto secondo le regole dell’oggettività, sia pure con dei correttivi, prescindendo da valutazioni soggettive di terzi, e prendendo in considerazione soprattutto la reale potenzialità del soggetto a concepire il significato dell’atto da lui compiuto.
D’altra parte, solo qualora la sua incapacità abbia determinate caratteristiche, potrà avere rilevanza giuridica e condurre alla “sanzione”, dell’annullamento dell’atto compiuto.
La scelta, fatta dal legislatore del 1942, di dare rilievo in senso “oggettivo” all’incapacità, sia pure transitoria, di intendere o di volere del soggetto, predisponendo a sua tutela, e degli eventuali eredi o aventi causa, il rimedio “tecnico” dell’annullamento dell’atto (contratto, atto unilaterale, o testamento), e non, la sanzione della nullità assoluta o relativa dell’atto, in quanto ciò è apparso uno strumento troppo forte e sproporzionato rispetto agli scopi che tale rimedio si propone di conseguire, ben potendo il soggetto stesso, o gli altri soggetti legittimati a richiedere l’eliminazione dell’atto, essere interessati al contrario alla sua conservazione[3]. Del resto, come se ne accennava prima parlando dei “correttivi” posti dall’ordinamento, per l’annullamento degli altri atti diversi dalla donazione e dal testamento[4] ex art. 428 c.c., dovrà essere di regola data prova del pregiudizio grave che all’incapace medesimo ne possa derivare e, se si tratta di contratto, anche della mala fede dell’altro contraente. Restano in ogni caso impregiudicati i diritti acquistati dal terzo che in buona fede abbia contrattato a titolo oneroso, ovviamente sono fatti salvi gli effetti della trascrizione della domanda d’annullamento ai sensi dell’art. 2652 n. 6 c.c.
L’atto compiuto dall’incapace, pertanto, pur in presenza di un’evidente causa d’incapacità del soggetto potrebbe reggere e quindi resistere, nel mondo dei rapporti giuridici, fin quando non sia posto nel nulla con effetto retroattivo; e ciò conferma il fatto che l’incapacità naturale ha notevole rilievo nel nostro ordinamento, ma laddove con quell’atto siano interconnessi altri interessi meritevoli di tutela riferibili ai terzi, sia per il principio della buona fede di questi terzi che hanno interagito con l’incapace, sia per il principio generale di conservazione degli effetti degli atti giuridici, che si applica anche ai contratti invalidi (v. 1419 – 1420 – 1446 c.c.), cui fa riferimento anche il disposto dell’art. 1367 c.c. portante nella rubrica il titolo di «Conservazione del contratto» e per il quale «nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno»[5], lo stato soggettivo d’incapacità naturale della parte potrebbe non produrre alcun risultato apprezzabile in relazione alla sopravvivenza dell’atto compiuto e degli effetti da esso prodotti.
Ciò non esclude che, qualora sia totalmente mancata una manifestazione di volontà che possa essere considerata seria (si pensi al caso di chi è talmente ubriaco o sotto effetto di sostanze stupefacenti da non rendersi nemmeno conto di quanto succede), si potrà certamente agire per ottenere una dichiarazione di nullità, per inesistenza assoluta di un elemento essenziale del contratto: l’accordo delle parti, ex art. 1325 c.c., comma 1, punto 1); e lo stesso vale per l’atto unilaterale, considerato che il disposto dell’art. 1324 c.c. dichiara applicabile agli atti unilaterali le norme che disciplinano i contratti, in quanto compatibili e salvo diverse disposizioni di legge.
La differenza con altre figure giuridiche affini: incapacità legale, circonvenzione d’incapace
L’incapacità naturale ha presupposti completamente diversi da quelli della interdizione e della inabilitazione, perché, rispetto a queste, non è necessaria un’abituale infermità di mente, potendo l’incapacità di intendere o di volere essere riferita – come si esprime il legislatore – «per qualsiasi causa».
Il motivo di una così ampia previsione, è spiegabile tecnicamente con la seguente considerazione: per ogni causa transitoria ed imprevista d’incapacità non vi può essere né interdizione né inabilitazione.
Con il termine incapacità si intende, quindi, la condizione di una persona che non è idonea da sola ad acquistare ed esercitare diritti e assumere obblighi. A tale condizione la legge ricollega gli istituti di protezione, che consentono agli incapaci di svolgere un’attività giuridica, sia pure in via mediata attraverso l’ausilio di altri soggetti. Le cause di incapacità legale di agire sono tassativamente determinate dalla legge: minore età, interdizione legale, inabilitazione.
L’incapacità legale e l’incapacità naturale si distinguono per le seguenti ragioni: l’incapacità legale opera de iure, mentre l’incapacità naturale ha rilevanza giuridica solo quando si può dare la prova rigorosa che il soggetto era effettivamente incapace nel momento in cui compiva l’atto; per l’incapacità legale viene in considerazione un criterio di determinazione normativa delle cause; per l’incapacità naturale, invece, si fa ricorso ad un criterio di valutazione ex post dell’atto compiuto, consistente nell’accertamento, da parte del giudice, del fatto che il soggetto si trovasse, per qualsiasi causa, anche transitoria, in una condizione di incapacità di intendere o di volere. Per questo si sostiene che un soggetto può essere al tempo stesso legalmente capace e naturalmente incapace di agire[6]. Al contrario, un soggetto legalmente incapace di agire può essere al tempo stesso capace di intendere e volere.
La fattispecie della c.d. circonvenzione di incapace regolata dall’art. 643 c.p.: si diversifica dalla incapacità naturale in quanto qui l’incapacità è causata ed usata con dolo dal soggetto agente, infatti secondo l’orientamento della giurisprudenza[7]il contratto frutto della circonvenzione di incapace è nullo ai sensi dell’art. 1418 comma 1 c.c. e non semplicemente annullabile, perché la non osservanza della citata norma penale, perpetrando la violazione di una norma imperativa posta a tutela di un interesse pubblico, ricade nella previsione generale di nullità di cui all’art. 1418 c.c.
A tale ricostruzione la giurisprudenza perviene richiamando il concetto di “nullità residuale” desumibile dal comma 1 della citata norma, dove è testualmente sancito che «Il contratto è nullo quando è contrario a nome imperative, salvo che la legge disponga diversamente»: dunque, pur non essendo sancita espressamente la nullità di un contratto, concluso da un incapace vittima del delitto di circonvenzione, questa si può desumere dal fatto che comunque quel contratto risulta stipulato in violazione di una norma imperativa e pertanto – non disponendo l’ordinamento diversamente – tale violazione viene sanzionata applicando la regola generale che statuisce – come detto – la nullità della fattispecie.
Al contrario la dottrina, rifiuta il concetto di nullità “residuale” e segue solo quello di nullità “testuale”, ritenendo che nella fattispecie de qua la sanzione predisposta dal sistema per l’invalidità dell’atto non possa non essere quella ordinaria dell’annullabilità, potendo ricondursi la circonvenzione di incapaci nell’alveo dei vizi della volontà previsti dal codice civile e ricorrendo di conseguenza solo al rimedio accordato dalla legge per i negozi stipulati con violenza o dolo.
Le conseguenze dell’incapacità naturale
L’atto posto in essere in stato di incapacità di intendere e volere è sempre annullabile (art. 1425 c.c., 2° comma): l’azione di annullamento si prescrive in 5 anni dal giorno in cui c’è stato il compimento dell’atto (art. 428 c.c., 3° comma e art. 1442 c.c., 1° comma).
Il legislatore del codice civile, inoltre, si è preoccupato, lo abbiamo accennato nel paragrafo 3, di contemperare due opposte esigenze: quella di protezione dell’incapace con la tutela delle persone che eventualmente ignare delle carenze psichiche dell’incapace, possono aver fatto affidamento sulla validità della dichiarazione di quest’ultimo, ha distinto differentemente disciplinando diverse ipotesi, infatti l’annullabilità di un atto compiuto da un incapace naturale dipende quindi dalla tipologia. Si distinguono in merito tre tipi di atti:
– atti unilaterali sono quelli formati con la dichiarazione di una sola volontà, senza il concorso della volontà di colui cui è rivolta la dichiarazione stessa per esempio accettazione di un’eredità dannosa o rinuncia ad un credito, promessa, recesso, disdetta, dimissioni del lavoratore, sono annullabili solo se si dimostra che hanno arrecato un grave pregiudizio[8] all’incapace naturale (art. 428 c.c., 1 comma) e il suo stato di incapacità d’intendere o volere al momento del compimento dell’atto[9];
– contratti, che sono sempre atti bilaterali, sono annullabili solo se si dimostra la malafede[10] dell’altro contraente, (art. 428 c.c., 2 comma), che consiste nella consapevolezza che quest’ultimo abbia della menomazione dell’altro nella sfera intellettiva e volitiva; di tale malafede uno degli indici rivelatori può essere costituito dal pregiudizio effettivo o potenziale arrecato dal contratto al soggetto incapace.[11]
Si è inoltre precisato che il pregiudizio dell’incapace non si pone quale autonomo presupposto dell’invalidità dell’atto, ma solo come uno dei possibili indizi rilevatori della consapevolezza che il contraente abbia avuto dell’incapacità dell’altro, cosicché la malafede risulta desumibile pure da altre eventuali circostanze, idonee a far comprendere, ad una persona normale, che la controparte agisce in stato di anomalia psichica, perché comunque l’ordinamento giuridico tutela l’affidamento di controparte[12].
– atti personali, donazione (art. 775 c.c.), testamento (art. 591, n.3, c.c.), matrimonio (art. 120 c.c.), sono sempre annullabili se si dimostra lo stato di incapacità naturale, pertanto l’impugnabilità consegue automaticamente alla sola incapacità naturale per tali importanti atti (art. 428 c.c., 4° comma).
Sono invece considerati validi gli atti che non arrecano pregiudizio all’autore, ma piuttosto un vantaggio sia in caso di incapacità legale che naturale.
Ambito applicativo
Volendo procedere ad un’estrema sintesi possiamo dire che i casi affrontati dalle sentenze esaminate sostanzialmente toccano 3 branche del diritto:
diritto successorio: vengono infatti controllati casi di donazioni o testamenti redatti in stato incapacità naturale reale o presunta;
diritto civile: un altro gruppo di sentenze giudicano casi di contratti stipulati in stato di incapacità naturale reale o presunta;
diritto del lavoro: è sicuramente il gruppo di sentenze più interessante in quanto vengono analizzate numerose ipotesi di dimissioni di lavoratori che si qualificano come rilasciate in stato di incapacità naturale reale o presunta;
mentre le argomentazioni logico-giuridiche elaborate si possono riassumere nei punti di seguito elencati.
Concetto di incapacità naturale e sua configurabilità
Ai fini della configurabilità dell’incapacità naturale e della conseguente invalidità del negozio ex art. 428 c.c. non si presuppone la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, in quanto è sufficiente che queste risultino diminuite in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà cosciente[13].
E’ stato osservato, che per determinarsi tale fattispecie, non è necessaria una malattia che annulli in modo totale ed assoluto le facoltà psichiche del soggetto, essendo sufficiente un perturbamento psichico tale da menomare gravemente, pur senza escluderle, le capacità intellettive e volitive, anche se transitorio e non dipendente da una precisa forma patologica; tale accertamento deve essere compiuto dal giudice di merito con riferimento al momento della stipulazione del negozio e, pertanto, nel caso di incapacità dovuta a malattia non può prescindere da una valutazione delle possibilità di regresso della malattia manifestatasi anteriormente o posteriormente, per stabilirne la sua sussistenza nel momento indicato.[14]
In particolare si è affermato nel caso di dimissioni del lavoratore che non occorre la totale esclusione della capacità psichica e volitiva del soggetto, purché l’incapacità sussista al momento dell’atto dimissionario[15] e sia comunque tale da arrecare al soggetto un notevole turbamento psichico, idoneo a far venire meno la sua capacità di autodeterminazione e la consapevolezza dell’atto che sta per compiere[16].
In conclusione, si è riconosciuto che in generale la situazione anche transitoria, di incapacità di intendere e volere del dichiarante, da qualsiasi causa dipendente, comporta l’annullamento del negozio giuridico unilaterale, ancorché recettizio[17], pur in mancanza della sua riconoscibilità da parte del soggetto destinatario dell’atto, sempre che sussista il grave pregiudizio per il suo autore, cui poi è riservata la legittimazione all’azione di annullamento (art. 1441 c.c.).
La sentenza che accolga l’azione di annullamento ha efficacia retroattiva, ed importa il ripristino della situazione di fatto e di diritto preesistente al negozio annullato[18].
Il regime delle prove
Quanto all’onere probatorio relativo al perturbamento psichico, si ritiene che esso gravi su chi adduce l’incapacità e la prova di questa, può essere data con ogni mezzo[19] o in base a indizi e presunzioni, non necessariamente tramite la consulenza tecnica[20]; lo stato di incapacità di intendere e di volere del soggetto che abbia stipulato un contratto, del quale si chieda l’annullamento ai sensi dell’art. 428 c.c., è infatti, una condizione personale dell’individuo, che solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provata in modo diretto; il più delle volte va invece accertata in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi[21] ed ai fini della sua configurabilità il giudice è libero di utilizzare, ai fini del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altre.
Ancora, la prova della incapacità naturale non deve necessariamente far emergere l’esistenza di una malattia che annulli le facoltà intellettive del soggetto, ma – questo sì – di un fatto che abbia alterato e gravemente menomato quelle facoltà; così come in riferimento al requisito della contemporaneità tra la causa di incapacità naturale ed il compimento dell’atto (contemporaneità richiesta dall’ordinamento per addivenire alla sanzione-rimedio dell’annullamento dell’atto compiuto dall’incapace) è stato ritenuto che esso non vada inteso in senso assoluto in relazione a quel preciso momento, potendo aversi invece riguardo alle condizioni in cui il soggetto si trovava prima e dopo il compimento dell’atto, al fine di accertare, nel caso in cui l’infermità sia dovuta a malattia, se questa sia suscettibile di regresso, di stabilità o di miglioramento, come utile elemento di giudizio per stabilire se la malattia manifestatasi anteriormente o successivamente possa ritenersi sussistere anche nel momento in cui fu posto in essere l’atto impugnato.
E’ per questo che si è altresì precisato[22] che, accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da presunzione[23] “iuris tantum”, sicché, in concreto, si verifica l’inversione dell’onere della prova nel senso che, in siffatta ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo. Ad una sorta di presunzione fa riferimento una sentenza[24] della Corte di Cassazione che ha affermato che quando sussista una situazione di malattia mentale di carattere permanente, ricade su chi pretende la validità dell’atto l’onere di dimostrare l’esistenza di un eventuale lucido intervallo, tale da ridare al soggetto l’attitudine a rendersi conto della natura e dell’importanza dell’atto.
In conclusione, pertanto, la prova dell’incapacità naturale non deve essere necessariamente riferita alla situazione esistente al momento in cui l’atto impugnato venne posto in essere, essendo possibile cogliere tale situazione da un quadro generale anteriore e posteriore al momento della redazione dell’atto, traendo da circostanze note, mediante prova logica, elementi probatori conseguenti. Quindi l’incapacità naturale, ove si tratti di situazione non transitoria, ma sia pure relativamente perdurante quale una malattia, può essere provata anche attraverso il dato induttivo costituito dalle condizioni del soggetto antecedenti o successive al compimento dell’atto pregiudizievole[25].
L’apprezzamento di tale prova costituisce giudizio riservato al giudice di merito che ha il potere-dovere di valutare liberamente, ai fini del proprio convincimento, l’esattezza delle operazioni effettuate ed i relativi risultati e che sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto[26].
Anche la valutazione di un bene, che sia stato oggetto di un atto giuridico compiuto da persona incapace di intendere e di volere, al fine di stabilire se sia derivato grave pregiudizio all’autore rientra nell’ambito del giudizio di fatto ed appartiene alla competenza propria ed esclusiva del giudice del merito, le cui determinazioni non sono sindacabili in sede di legittimità, se non risultano
l’effetto di errori giuridici o di vizi logici[27]; conclusione quest’ultima che vale anche con riguardo all’indagine volta a stabilire la sussistenza della malafede di colui che contrae con l’incapace di intendere o di volere[28].
La prova testimoniale è ritenuta ammissibile anche con riguardo ai cosiddetti contratti formali, sulla base della considerazione che in queste ipotesi la prova ha per oggetto non un patto aggiunto o contrario all’accordo impugnato ostenterebbero all’ammissibilità della prova testimoniale, in tal caso, gli artt. 2722 e 2729 c.c., ma la mancanza di uno dei presupposti essenziali, cioè la capacità di intendere e di volere.
Applicazione dei medesimi principi alle dimissioni del lavoratore
Questi stessi principi trovano poi applicazione anche in caso di domanda di annullamento dell’atto di dimissione del lavoratore dal rapporto di lavoro[29], con alcune puntualizzazioni quanto alle conseguenze del possibile annullamento dell’atto. Tali puntualizzazioni si riferiscono al principio secondo il quale l’annullamento di un negozio giuridico che ha efficacia retroattiva non comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, atteso che la retribuzione presuppone la prestazione dell’attività lavorativa, onde il pagamento della prima in mancanza della seconda rappresenta un’eccezione che, come nelle ipotesi di malattia o licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, deve essere espressamente prevista dalla legge, a nulla rilevando che le dimissioni siano state immediatamente revocate, giacché le dimissioni producono istantaneamente lo scioglimento del rapporto di lavoro[30].
Quindi anche se costituisce principio pacifico, per le altre fattispecie esaminate, che la pronuncia di annullamento di un negozio giuridico abbia efficacia retroattiva, nel senso che essa comporti il ripristino, tra le parti, della situazione giuridica anteriore al negozio annullato – che si ha come posto sin dall’inizio; da tale premessa di ordine generale, tuttavia, non è possibile fare discernere il riconoscimento del diritto del lavoratore al trattamento retributivo e previdenziale che sarebbe maturato nel periodo di tempo intercorrente tra la data delle dimissioni e la decisione del giudice di primo grado[31].
Per questo si è ritenuto[32] che nell’ipotesi di annullamento delle dimissioni per incapacità naturale del dimissionario, il principio[33] suddetto non comporta il riconoscimento del diritto del lavoratore al trattamento retributivo e previdenziale maturato nel periodo di tempo compreso tra la data delle dimissioni e la decisione di annullamento del giudice di primo grado, atteso che, in tale ipotesi, l’effetto risolutorio delle dimissioni permane fino alla data della sentenza, non essendo configurabile alcun obbligo del datore di lavoro di accettare il lavoratore in azienda prima di tale momento e non potendo quindi profilarsi un’ipotesi di mora del datore di lavoro rispetto ad un rapporto che, prima della sentenza di annullamento, deve considerarsi inesistente. Solo per effetto della sentenza si ricostituisce la situazione contrattuale preesistente, ma fino a tale momento non vi è alcuna obbligazione a carico delle parti.
Sono da condividere pertanto le conclusioni di coloro che sostengono che nel periodo intercorso tra la data delle dimissioni e la pronuncia del giudice si verifichi una “sia pur anomala sospensione delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro inter partes” che di fatto fa “venir meno l’obbligo per il datore di lavoro di erogare la retribuzione in favore del dipendente, versandosi in tema di obbligazione connessa in rapporto di sinallagmaticità alla prestazione lavorativa, non erogata per essere ancora sub iudice, la questione della validità delle rassegnate dimissioni”.
Secondo i principi generali, un’eventuale responsabilità del datore di lavoro potrebbe nascere da un comportamento doloso o gravemente colposo, esaustivo di un danno ingiusto per il lavoratore.
La soluzione adottata dalla giurisprudenza
Invero, il problema interpretativo innanzi enunciato era già stato affrontato dalle sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione in una non recente sentenza[34] molto ben argomentata e strutturata secondo la quale: “il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive, peraltro caratterizzato da un certo grado di deviazione dalla disciplina degli effetti della corrispettività delle prestazioni, ma non al punto tale da far dubitare della natura sinallagmatica di tale contratto”.
È vero che sono varie le ipotesi in cui la legge impone la corresponsione della retribuzione malgrado la mancanza di controprestazione lavorativa, come nei casi di riposo settimanale: articolo 2108 c.c., e di ferie annuali: articolo 2109 c.c., o malgrado la sospensione della obbligazione di lavoro come nel caso di malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare: articolo 2110 c.c. Tuttavia in tali casi, pur se è assente il sinallagma funzionale, non manca quello genetico; infatti la corrispettività fra obbligazioni comunque sussiste, in quanto anche se non vi è corrispondenza temporale fra retribuzione e lavoro, peraltro, l’obbligazione retributiva, pur se non ha a fronte una prestazione lavorativa in atto, è pur sempre collegata all’esistenza dell’obbligazione di lavoro nell’arco temporale complessivo del rapporto.
Dalla natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, pur sempre ferma malgrado le ora viste eccezioni ad un rigoroso principio di corrispettività, discende la regola che la retribuzione presuppone la prestazione lavorativa, e che la corresponsione della prima in mancanza della seconda è l’eccezione, la quale, richiede un’espressa previsione di legge o di contratto: e ciò in armonia con il principio posto dall’articolo 2094 c.c., che collega in rapporto di scambio la prestazione di lavoro e quella di retribuzione[35].
Del resto, il legislatore, in un caso che a questo può essere accostato: quello del licenziamento illegittimo e delle relative conseguenze, ha inteso attribuire diritti al lavoratore malgrado la non avvenuta prestazione lavorativa, e lo ha fatto espressamente ed anzi analiticamente, prevedendo, secondo il vecchio testo dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il risarcimento del danno dalla data del licenziamento a quella della sentenza che, dichiarandolo illegittimo, ordina la reintegrazione, e la retribuzione dalla data della sentenza a quella della effettiva reintegra; e, con la riforma della disciplina dei licenziamenti individuali (L. 11 maggio 1990, n. 108) contemplando l’unica conseguenza del risarcimento del danno, peraltro commisurato alla retribuzione, dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegrazione.
Sia nel caso della illegittimità della clausola di apposizione del termine che in quello di illegittimità del licenziamento vi è un’illegittima cessazione del rapporto, che, ripristinato ex post ope judicis, solo nel secondo di tali casi riceve un espresso trattamento di sostanziale eccezione alla regola della corrispettività.
Né, sempre sul piano della concreta realtà della vicenda, una qualche rilevanza può attribuirsi all’eventuale atteggiamento di una delle parti al di fuori del contratto stipulato, vale a dire a quello del lavoratore che, pur dopo la scadenza del termine, rimanga a disposizione e in attesa, perché un comportamento unilaterale non può in alcun modo determinare il sorgere di posizioni soggettive attive o passive. E tanto meno potrebbe parlarsi di un obbligo del lavoratore di tenersi a disposizione, perché ciò presupporrebbe la sussistenza di un patto negoziale, in tesi inesistente.
Parimenti non accettabile è la tesi dell’equiparazione delle dimissione del lavoratore, dovute per accertata incapacità naturale, al licenziamento ne deriverebbe, in base allo statuto dei lavoratori, quella eccezione che giustificherebbe il pagamento richiesto. La tesi dell’assimilabilità delle dimissioni al licenziamento è tesi impossibile sia nel punto logico che in quello giuridico, se non altro perché si tratta di atti che provengono da soggetti diversi.
Interrottosi il rapporto per dimissioni, sia pure valide, per il periodo in cui vi è stato interruzione delle prestazioni non spetta la retribuzione, in quanto connessa alle prestazioni stesse[36].
Conclusioni
Alla fine di questa breve analisi possiamo affermare che in linea di principio il tema è stato affrontato dalla magistratura con sufficiente chiarezza ed adeguato approfondimento giuridico, offrendo soluzioni interpretative soddisfacenti, che hanno il pregio di aver elaborato alcuni principi utilmente richiamabili come quadro di riferimento dello stato della giurisprudenza in materia.
Permangono, invece, nel giudizio in concreto sull’incapacità naturale e del relativo regime delle prove valutazioni contrastanti sul medesimo fatto tra i vari gradi di giudizio, ma come ha più volte ricordato dalla S.C.: l’apprezzamento di tale prova costituisce giudizio riservato al giudice di merito che ha il potere-dovere di valutare liberamente, ai fini del proprio convincimento, l’esattezza delle operazioni effettuate ed i relativi risultati e che sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto[37].
Rimane tuttavia un largo margine di alea, pertanto anche per tale aspetto l’elaborazione di criteri interpretativi simili ai precedenti esaminati, aiuterebbero non poco i giuristi e più in generale tutti gli operatori del diritto, nella concreta applicazione dell’art. 428 c.c.
Dr. Franco Elio Castellucci
Note:
[1] Cass. sez. lavoro, 15 gennaio 2004, n. 515.
[2] L’incapacità di intendere indica l’incapacità del soggetto a rendersi conto del significato delle proprie azioni; l’incapacità di volere, invece, mostra l’incapacità ad autodecidersi liberamente.
[3] Poiché l’incapacità di intendere e volere ricade sull’integrità della volontà dell’atto, si è ritenuto opportuno distinguere tra incapacità assoluta, che determina la mancanza del consenso, ossia di un elemento essenziale del contratto, previsto a pena di nullità e incapacità ex art. 428 c.c. che toglie al soggetto l’idoneità a giudicare ed a compiere una seria valutazione dell’atto che con il concorso di altre circostanze può essere annullato.
[4] Ad eccezione delle ipotesi della donazione e del testamento fatti dall’incapace naturale ex artt. 775 e 591 c.c. dove è assorbente il profilo della gratuità della fattispecie e pertanto, è prevista la possibilità di ottenere l’annullamento dell’atto donativo o del testamento per il solo fatto di essere stati fatti da persona incapace di intendere e di volere al momento del compimento dell’atto.
[5] Il criterio interpretativo previsto dall’articolo è sussidiario, nel senso che è utilizzabile soltanto quando il senso del contratto rimanga oscuro nonostante l’applicazione delle regole interpretative previste dagli articoli precedenti. Ne consegue che, qualora il contratto o le singole clausole possano interpretarsi in due sensi, di cui uno produca qualche effetto giuridico, si deve preferire quest’ultimo.
[6] A tal proposito la giurisprudenza, Cass. civ., sez. lav., 7 giugno 2003, n. 9147, hasostenuto che l’art. 75 c.p.c., nell’escludere la capacità processuale delle persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti, si riferisce solo a quelle che siano state legalmente private della capacità di agire con una sentenza di interdizione o di inabilitazione o con provvedimento di nomina di un tutore o di un curatore provvisorio, e non alle persone colpite da incapacità naturale. Infatti, l’incapacità processuale è collegata alla incapacità di agire di diritto sostanziale e non alla mera incapacità naturale, cosicché l’incapace naturale conserva la piena capacità processuale sino a quando non sia stata pronunciata nei suoi confronti una sentenza di interdizione, ovvero non gli sia stato nominato, durante il giudizio che fa capo a tale pronunzia, il tutore provvisorio ai sensi dell’art. 419 c.p.c.; anche secondo Cass. civ., sez. lav., 27 settembre 2002, n. 14034 l’art. 75 c.p.c., nell’escludere la capacità processuale delle persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti, si riferisce solo a quelle che siano state legalmente private della capacità di agire con una sentenza di interdizione o di inabilitazione o con provvedimento di nomina di un tutore o di un curatore provvisorio, e non alle persone colpite da incapacità naturale;pertanto, l’incapacità naturale di un soggetto non basta a causare la perdita della capacità processuale, finché non sia intervenuta una sentenza di interdizione o non sia stato nominato un rappresentante provvisorio, onde essa non può esser fatta valere dalla controparte quale ragione di invalidità e di inammissibilità delle iniziative processuali di chi è asseritamente affetto da incapacità naturale.
[7] Cass. civ. sez. II, 29 ottobre 1994, n.8948.
[8] Consiste in una grave sproporzione oppure in un’eccessiva onerosità quando il contenuto dell’atto patrimoniale come nel caso di emissione della cambiale per un importo più elevato rispetto al debito, tuttavia il pregiudizio ex art. 428, 1° co., c.c. non ha un contenuto esclusivamente patrimoniale, ma è comprensivo di tutti gli effetti negativi derivanti dall’atto compiuto sull’intera sfera di interessi del soggetto Cass. sez. lavoro 4 marzo 1986, n. 1375.
[9] Secondo Cass. civ., sez. lav., 30 gennaio 2003, n. 1475: gli atti unilaterali compiuti da un incapace naturale non sono nulli, ma annullabili e solo su istanza della persona che si assume essere stata naturalmente incapace al momento del compimento dell’atto o dai suoi eredi o aventi causa e solo se ne risulta un grave pregiudizio all’autore, nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto che l’asserito vizio della procura alle liti rilasciata dalla persona che si assumeva trovarsi in stato di incapacità naturale non poteva essere fatto valere dalla controparte.
[10] Va intesa nel suo significato soggettivo-psicologico di consapevolezza o conoscenza dell’altrui stato di incapacità di intendere o di volere.
[11] In tal senso Cass. civ. sez. II, 8 agosto 1997, n. 7344; sul concetto di malafede si veda anche Cass. civ. sez. I, 12 luglio 1991, n. 7784 che afferma letteralmente: “…è poi pacifico che la malafede consiste nella consapevolezza che l’un contraente ha della menomazione da cui l’altro è affetto ed il suo accertamento costituisce in ogni caso un’indagine di fatto”; Cass. civ. sez. II, 26 novembre 1984, n. 6105.
[12] In tal senso Cass. civ. sez. I, 6 agosto 1990, n.7914.
[13] Cass. sez. lavoro, 15 giugno 1995, n.6756; mentre diversa è la fattispecie affrontata da Cass. sez. lavoro, 20 maggio 2002, n. 7327, secondo la quale sebbene violenza morale e incapacità naturale incidano entrambe sulla facoltà di autodeterminazione, tuttavia la prima ha incidenza sulla determinazione volitiva, mentre la seconda impedisce la capacità di cosciente e libera autodeterminazione del soggetto, sicché diversi sono i presupposti dell’una e dell’altra e gli accertamenti in fatto che ne conseguono. Pertanto, se nel giudizio di primo grado a fondamento di una domanda di annullamento delle dimissioni di una lavoratrice sia stato posto il vizio del consenso determinato da violenza, costituisce causa petendi del tutto nuova, che comporta inammissibile novità della domanda in appello, la pretesa incapacità di intendere e di volere. Né quest’ultima, quale causa di annullamento del negozio, è configurabile come fattispecie consequenziale alla violenza, in quanto la violenza non comporta necessariamente incapacità di intendere e di volere, atteso che, di norma, non priva il soggetto della facoltà di percepire e valutare il contenuto dell’atto anche nei suoi aspetti pregiudizievoli, al contrario di quanto avviene nell’ipotesi di incapacità di intendere e di volere.
[14] Cass. civ. sez. II, 8 agosto 1997, n. 7344, cit.
[15] Cass. sez. lavoro, 25 ottobre 1997, n. 10505.
[16] Cass. civ. sez. I, 26 maggio 2000, n. 6999.
[17] I negozi giuridici sono recettizi e non recettizi a seconda sono quelli che, per produrre effetti, devono essere portati a conoscenza di una determinata persona alla quale devono essere comunicati o notificati es.: disdetta, non recettizi, producono effetti in virtù della sola manifestazione di volontà.
[18] Come si vedrà nel successivo paragrafo 9, tale principio non è applicabile a quell’atto denominato: dimissioni.
[19] Cass. civ. sez. II, 28 marzo 2002, n. 4539.
[20] Cass. civ. sez. III, 19 aprile 1971, n.235.
[21] Cass. civ. sez. II, 7 aprile 2000, n. 4344; Cass. civ. sez. I, 18 febbraio 1989, n. 969.
[22] Cass. civ. Sez. II 28 marzo 2002 n. 4539, cit., Cass. civ. sez. I, 28 novembre 1998, n. 12099.
[23] La presunzione è un’argomentazione o costruzione logica, mediante la quale da un fatto provato si considera provato un altro fatto, carente di autonoma prova: l’art. 2729 definisce le presunzioni semplici: quando è il giudice a dedurre il fatto da provare dal fatto conosciuto; presunzioni legali: quando, invece, è la legge ad attribuire ad un fatto valore probatorio rispetto ad un fatto diverso, queste ultime possono essere relative (iuris tantum): è ammessa prova contraria; oppure assolute (iuris et de iure): non è ammessa prova contraria.
[24] Si tratta della sentenza Cass. civ. sez. II, 26 novembre 1997, n.11833.
[25] Cass. civ. sez. II, 16 marzo 1990, n. 2212.
[26] Cass. civ., sez. II, 5 febbraio 2004, n. 2210 secondo la quale: l’indagine relativa alla sussistenza dello stato di incapacità del soggetto che abbia stipulato il contratto ed alla malafede di colui che contrae con l’incapace di intendere e di volere si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito, sottratto al sindacato del giudice di legittimità ove congruamente e logicamente motivato nella specie, la S.C. ha ritenuto esente da vizi la sentenza di merito, che aveva ritenuto irrilevante la circostanza che l’atto di alienazione avesse coinvolto tutti i beni immobili di proprietà dell’alienante, in quanto – essendo questa in età avanzata – la vendita poteva essere giustificata dall’esigenza di procurarsi i mezzi economici per provvedere alle spese necessarie per essere assistita e curata, ed aveva ritenuto non provata la malafede dei terzi acquirenti, in assenza di elementi probatori relativi ad un loro rapporto interpersonale con l’anziana venditrice; in tal senso anche Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2003, n. 17915: afferma che l’esame circa l’esistenza dell’incapacità di intendere e di volere del soggetto nel momento in cui ha posto in essere l’atto del quale è chiesto l’annullamento a norma dell’art. 428 c.p.c. costituisce un apprezzamento di fatto sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da una motivazione adeguata ed esente da vizi: in applicazione di tale principio di diritto, la S.C. ha ritenuto esente da vizi la sentenza di merito nella quale si affermava che dalla consulenza tecnica pur effettuata non si evinceva con certezza che la periziata fosse incapace di intendere e di volere al momento della sottoscrizione dell’atto del quale chiedeva l’annullamento e che, pur essendo la stessa all’epoca già affetta da una forma di morbo di Alzheimer di grado medio, non se ne potesse automaticamente inferire una menomazione delle capacità intellettive e volitive al momento dell’atto; Cass. sez. lavoro, 25 ottobre 1997, n.10505, cit.; Cass. civ. sez. II, 26 novembre 1997, n. 11833, cit.; Cass. civ. sez. II, 23 febbraio 1995, n. 2085; Cass. civ. sez. I, 18 febbraio 1989, n. 969, secondo quest’ultima: “ Il convincimento del giudice del merito circa l’esistenza dell’incapacità di intendere e di volere del soggetto nel momento dell’atto costituisce un apprezzamento di fatto, che si sottrae a qualsiasi controllo in sede di legittimità, qualora sia sorretto da motivazione esente da vizi logici e da errori giuridici”.
[27] Cass. sez. lavoro, 17 aprile 1984, n. 2499, nella specie, la C.S. ha confermato la decisione dei giudici del merito che avevano ritenuto che ai fini dell’annullamento per incapacità naturale, le dimissioni (volontarie) del lavoratore non potevano considerarsi, per sè stesse, di natura gravemente pregiudizievole per quel soggetto che le aveva poste in essere, potendo l’abbandono del posto di lavoro essere determinato dai motivi più diversi, compreso quello del raggiungimento del minimo di pensione.
[28] Cass. 78/4584.
[29] Cfr. da ultimo Cass. sez. lavoro, 14 maggio 2003, n. 7485.
[30] Trattasi di un principio consolidato, più volte espresso anche dalle S. U. della Corte di Cassazione: Cass. sez. Unite, del 27 luglio 1999, n. 508; Cass. sez. Unite, 5 marzo 1991, n.2334; Cass. sez. lavoro, 6 novembre 2000, n. 14438.
[31] Anche se un principio di questo genere potrebbe rinvenirsi in una recente decisione della Corte di Cassazione sez. lavoro del 15 giugno 1995, n.6756, cit.: tuttavia, la riposta data in quella occasione al quesito specifico appare molto sfumata e risente comunque del principio dispositivo e di devoluzione; in forza del quale il giudice dell’impugnazione giudica sempre e solo nell’ambito di quanto gli viene chiesto di giudicare.
[32] Cass. sez. lavoro, 5 luglio 1996, n. 6166.
[33] Consistente nel ripristino, tra le parti, della situazione giuridica anteriore al negozio annullato, che si considera come insussistente fin dall’inizio.
[34] Cass. sez. Unite, 5 marzo 1991, n.2334, cit. che è anche richiamata dalla più recente Cass. sez. Unite, del 27 luglio 1999, n. 508, cit. condividendone le argomentazioni giuridiche elaborate.
[35] Cfr. Cass. sez. lavoro, 12 novembre 1990, n.10904.
[36] Cass. sez. lavoro, 6 novembre 2000, n.14438, cit.
[37] Cass. civ. sez. III, 19 aprile 1971, n. 1123; Cass. civ. sez. III, 14 luglio 1971, n. 2302; Cass. civ. sez. I, 13 maggio 1980, n. 3137; Cass. civ. sez. III, 11 gennaio 1982, n. 112; Cass. civ. sez. II, 18 febbraio 1989, n.969, cit. ; Cass. sez. lavoro, 5 aprile 1991, n. 3569; Cass. sez. lavoro, 15 giugno 1995, n.6756, cit.; Cass. civ. sez. II, 23 febbraio 1995, n. 2085, cit.; Cass. sez. lavoro, 25 ottobre 1997, n. 10505, cit.; Cass. civ. sez. II, 26 novembre 1997, n. 11833, cit.; Cass. civ. sez. II, 28 marzo 2002, n. 4539, di quest’ultima, se ne riporta, un breve passo, per la particolare incisività e brevità della definizione quando si afferma che il convincimento del giudice del merito circa l’esistenza dell’incapacità di intendere e di volere del soggetto nel momento dell’atto costituisce un apprezzamento di fatto, e quindi “ un giudizio riservato al giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori giuridici”.
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