di Ezio Maria Barbieri*
* Presidente emerito del TAR per la Lombardia
Sommario
1. Premessa
2. La normativa
3. La giurisprudenza
4. Il decreto Cons. Stato sez.V n. 4628/2009
5. Il decreto Cons. Stato sez. III n. 5650/2014
6. Il decreto Cons. Stato sez. V n. 3015/2017
7. Il decreto Cons. Stato sez. IV n. 5971/2018
8. Considerazioni conclusive
1. Premessa
– L’ammissibilità dell’appello contro il decreto cautelare monocratico nel processo amministrativo, che il legislatore non prevede espressamente, non sembra avere ancora trovato una corretta e convincente motivazione. Non sembra inopportuno, quindi, tornare sull’argomento, benché uno studio recentemente comparso abbia concluso con ricchezza e completezza di considerazioni affermando: “… ben venga l’appello dei decreti cautelari ex art. 56 c. p. a.: a ciò non sembra essere di ostacolo la natura dell’atto impugnato – un decreto piuttosto che un’ordinanza -, né l’assenza di una espressa previsione normativa, in quanto l’atipicità (finanche del rito), se usata nei limiti, per un verso, dell’architettura ordinamentale generale e, per altro verso, della domanda delle parti, costituisce uno strumento essenziale per la piena protezione delle situazioni soggettive”[1].
[1] In questo senso A. De Siano, Tutela cautelare monocratica e doppio grado di giurisdizione, in Federalismi gennaio 2020
2. La normativa
– La legge 6 dicembre 1971, n. 1034 istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali nel regolamentare il processo cautelare amministrativo non ne aveva previsto l’appellabilità. Dopo alcune contrastanti decisioni delle sezioni giurisdizionali, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 1/1978 ha ritenuto di poter affermare l’appellabilità delle ordinanze cautelari dei T. A. R. e questo orientamento interpretativo è stato subito seguito senza esitazione nella prassi giudiziaria, dando luogo così ad una giurisprudenza che si è presto consolidata. Il tentativo del legislatore di porre almeno dei limiti all’appellabilità delle ordinanze cautelari non ha trovato il consenso della Corte costituzionale, che con sentenza n. 8/1982 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5 c. 4 della legge 3 gennaio 1978 n. 1 che impediva l’appello contro le sospensive riguardanti opere pubbliche ed impianti industriali. Successivamente interveniva di nuovo il legislatore con la legge 21 luglio 2000, n. 205, regolamentando questa volta espressamente l’appello contro le ordinanze cautelari collegiali di primo grado.
La materia è stata poi ripresa dal legislatore in occasione dell’emanazione del codice del processo amministrativo recante la data del 2 luglio 2010, n. 104, entrato in vigore il 16 settembre 2010.
L’art. 56 del c. p. a., in caso di estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, consente al ricorrente, con la domanda cautelare o con distinto ricorso notificato alle controparti, di chiedere al presidente del tribunale amministrativo regionale, o della sezione cui il ricorso è assegnato, di disporre misure cautelari provvisorie.
L’istanza, notificata con le forme prescritte per la notificazione del ricorso, si propone al presidente del tribunale amministrativo regionale competente per il giudizio, il quale, accertato il perfezionamento della notificazione per i destinatari, provvede sull’istanza, sentite, ove necessario, le parti e omessa ogni altra formalità. Il provvedimento cautelare monocratico viene assunto in forma di decreto.
L’art. 61 del c. p. a. prevede inoltre misure cautelari anteriori alla causa, disponendo che in caso di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie con decreto presidenziale, il soggetto legittimato al ricorso può proporre istanza per l’adozione delle misure interinali e provvisorie che appaiono indispensabili durante il tempo occorrente per la proposizione del ricorso di merito e della domanda cautelare in corso di causa. Su queste istanze si pronuncia il presidente del T. A. R. con decreto espressamente dichiarato non impugnabile.
L’art. 62 del c. p. a. regolamenta infine l’appello cautelare, disponendo che contro le ordinanze cautelari (e cioè contro le ordinanze collegiali di cui all’art. 56) è ammesso appello al Consiglio di Stato, da proporre nel termine di trenta giorni dalla notificazione dell’ordinanza, ovvero di sessanta giorni dalla sua pubblicazione. L’appello è deciso in camera di consiglio con ordinanza. Ai sensi dell’art. 98 c. p. a. il giudice d’appello, salvo quanto disposto dall’articolo 111, può, su istanza di parte, valutati i motivi proposti e qualora dall’esecuzione possa derivare un pregiudizio grave e irreparabile, disporre la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, nonché le altre opportune misure cautelari, con ordinanza pronunciata in camera di consiglio.
3. La giurisprudenza
– Risulta che il Consiglio di Stato si sia pronunciato solo in poche occasioni su appelli contro decreti cautelari monocratici. Mi riferisco ai decreti presidenziali della sez. V in data 17 settembre 2009 n. 4628, della sez. III in data 11 dicembre 2014 n. 5650, della sez. V in data 19 luglio 2017 n. 3015 e della sez. IV in data 7 dicembre 2018 n. 5971.
Il primo di questi provvedimenti ha accolto l’appello ed ha concesso la sospensione del provvedimento amministrativo che il presidente del TAR aveva negato; il secondo ha parimenti accolto l’appello e concesso la sospensiva negata in primo grado; il terzo ha dichiarato inammissibile l’istanza, mantenendo fermo il rigetto della sospensiva che era stata negata in primo grado; il quarto ha accolto l’appello e concesso la sospensiva negata in primo grado.
4. Il decreto Cons. Stato sez. V n. 4628/2009
– Il decreto in esame, non essendo al tempo ancora entrato in vigore il c. p. a., ricorda in primo luogo che l’art. 3 della legge n. 205/2000 al tempo vigente non prevedeva espressamente l’appello del decreto cautelare monocratico e nel merito della questione, precisa che nel caso prospettato in mancanza di una immediata pronuncia monocratica sull’appello la decisione collegiale del TAR sarebbe intervenuta dopo che il provvedimento impugnato aveva ormai prodotto ed esaurito tutti i suoi effetti. Pertanto il giudice ha ritenuto ammissibile l’appello al dichiarato fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale (nel caso: cautelare) della posizione soggettiva fatta valere dal ricorrente ed ha accolto l’istanza di sospensione del provvedimento impugnato che il presidente del TAR aveva respinto. Il giudice quindi, avendo limitato la motivazione alla considerazione suddetta, ha dato per scontata l’ammissibilità dell’appello in nome del principio di effettività della tutela.
Non credo, però, che una motivazione di questo genere possa essere ritenuta sufficiente. Penso infatti che l’effettività della tutela, più volte richiesta soprattutto dalla giurisprudenza comunitaria ed abitualmente posta a base di tante interpretazioni anche dai giudici nazionali, non possa consentire all’interprete di introdurre tutte le modifiche processuali che si ritengano necessarie od opportune per rendere più soddisfacente il servizio giustizia; effettività credo significhi solo possibilità di accedere ad una tutela giurisdizionale che, per i tempi e i modi prestabiliti e per i risultati che consente di conseguire, sia idonea a dare una concreta soddisfazione all’interesse azionato dal ricorrente o a garantire l’utilità della futura sentenza[2]. Il che era consentito dall’art. 3 della legge n. 205/2000 anche nella sua versione strettamente letterale, cioè indipendentemente dall’appello del decreto cautelare presidenziale[3]. Aggiungerei, inoltre, che la scelta di un doppio (o di un triplo) grado di giudizio appartiene alla libera determinazione dei legislatori nazionali, per cui della correttezza di questa scelta potrà farsi questione non in sede di Corte di giustizia CE, ma solo all’interno dei singoli ordinamenti statali, ricorrendo, quando la sola interpretazione non sia sufficiente o possibile, alla Corte costituzionale ove ne ricorrano i presupposti.
Nel decreto in esame, invece, si dà per scontato che l’appello contro il decreto, pur nel silenzio del legislatore, fosse ammissibile perché richiesto dal principio di effettività. Una scelta interpretativa di questo genere ricorda da vicino la vicenda dell’appello contro le sospensive, che dopo alcune incertezze delle sezioni del Consiglio di stato l’adunanza plenaria ricordata poco sopra aveva dichiarato ammissibile, così consacrando una prassi interpretativa da allora non più contestata ed infine fatta propria anche dal legislatore. Il decreto, però, non solo non richiama, ma nemmeno ricorda la vicenda succitata, né i motivi che a suo tempo avevano indotto l’adunanza plenaria ad ammettere l’appellabilità delle ordinanze cautelari, ma parla solo di esigenze di effettività[4] che giustificherebbero di per sé sole l’estensione dell’appello previsto per le ordinanze collegiali anche ai decreti cautelari monocratici. Si può dire però allora che in questo modo ancora una volta l’interprete ha introdotto nel sistema il principio della ammissibilità di un appello di cui il legislatore non parla e se ora, a differenza di quanto fu costretta a fare l’adunanza plenaria, non individua anche un apposito rito è solo perché già in primo grado il rito era di una semplicità assoluta, né vi erano termini per la presentazione dell’istanza[5].
Realisticamente, però, questa, più che una interpretazione delle norme vigenti, sembra un esercizio immotivato di potere in considerazione anche della particolarità del caso che si andava a decidere. In disparte la decisione di ammettere l’appello e poi di decidere sulla sospensiva, va infatti detto che il giudice avrebbe dovuto tenere conto del fatto che qualsiasi decisione, sia positiva che negativa, avrebbe determinato nel caso che egli si apprestava a decidere una situazione irreparabile sia per l’amministrazione che per il ricorrente (il quale ultimo, inoltre, per di più, non poteva al tempo contare su un eventuale risarcimento del danno[6]). Il provvedimento impugnato, infatti, vietava la caccia alle marmotte per il solo mese di settembre, per cui sia il rigetto che l’accoglimento dell’istanza di sospensione avrebbero definito irrimediabilmente il giudizio nel merito. L’accoglimento dell’appello avrebbe pregiudicato definitivamente l’interesse dell’amministrazione alla tutela faunistica così come il rigetto avrebbe altrettanto definitivamente pregiudicato l’interesse del ricorrente all’esercizio della caccia. Di qui la necessità, a mio avviso, di una accurata motivazione, oltre che sull’ammissibilità dell’appello, anche sul “fumus boni juris”, motivazione che nel decreto invece manca del tutto sotto entrambi i profili[7].
[2] Rende bene l’idea di cosa accadrebbe se ci fosse la possibilità di definire in piena libertà il contenuto del principio di effettività la formula usata da G. D’Angelo (in “Eccezione di difetto di giurisdizione ed abuso del diritto”, Urb. app. 2015, 851) riferita a chi fa libero ricorso al concetto di abuso del diritto: “una eterea giustificazione della sostanziale elusione dell’applicazione del diritto positivo”.
[3] Villata, parlando di effettività della tutela giurisdizionale, precisa che ci si riferisce al “contenuto satisfattivo o meno della misura che il giudice può accordare in presenza di una domanda ritualmente presentata a difesa di una situazione giuridica soggettiva conformata dal diritto sostanziale” (da “La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo quale figura centrale del processo amministrativo)” in Riv. dir. proc. 2018, 341).
[4] In proposito mi sia consentito ricordare le parole con le quali Villata (“Ancora in tema di inammissibilità dell’appello al Consiglio di Stato sulla giurisdizione promosso dal ricorrente soccombente in primo grado” in Riv. dir. proc. 2017, 1123), ricordando anche il pensiero di Modugno, afferma che alla conclusione del processo interpretativo la soluzione va riferita ad un testo normativo, spettando al pensiero dogmatico valutare i risultati del pensiero problematico, alla luce del sistema normativo positivo, così da vincolare l’attività interpretativa, insopprimibilmente valutativa, al vincolo dell’ordinamento positivo, il quale solo è in grado di fornire criteri di valutazione preventivamente conoscibili.
[5] De Siano, op. e loc. cit. pag. 73, ricorda in proposito le affermazioni di Travi per il quale nessuna forzatura deve ammettersi; non importa se ciò può andare frequentemente a scapito di una parte: il processo è regolato dalla legge, in quanto la garanzia fondamentale rispetto alla funzione giurisdizionale sarebbe data dalla precostituzione delle regole del processo e dalla loro trasparente elaborazione nel circuito legislativo.
[6] Il risarcimento dei danni conseguenti ad una lesione di interessi legittimi ha trovato cittadinanza nel nostro sistema – come è noto – solo con la storica decisione della Cassazione SS. UU. 22 luglio 1999, n. 500.
[7] Questa considerazione sarebbe dovuta valere, a mio avviso, anche quando l’appellabilità delle sospensive si basava solo sulla statuizione dell’adunanza plenaria, soprattutto quando la decisione – come nel caso in esame – rendeva impossibile un futuro recupero fattuale della legalità. Si può forse dire che il carattere decisorio delle sospensive, posto dalla plenaria a base dell’ammissibilità dell’appello, poteva dirsi sussistente in effetti solo in casi analoghi a quello deciso nel decreto ora in esame, ovverossia quando la misura cautelare è produttiva di effetti sostanziali e non meramente temporali.
5. Il decreto Cons. Stato sez. III n. 5650/2014
– Passando ora all’esame del decreto n. 5650/2014 va ricordato in primo luogo che al tempo della sua pronuncia il legislatore aveva ormai codificato il principio della appellabilità delle ordinanze cautelari collegiali, ma, come il giudicante anche in questa occasione sottolinea, all’art. 56 c. p. a. non aveva come ancora non ha previsto espressamente l’ammissibilità dell’appello contro i decreti cautelari monocratici, anche se nemmeno li esclude, mancando nella norma una declaratoria specifica di non impugnabilità del decreto monocratico. Da questa premessa il giudicante trae la conclusione che l’art. 56 c. p. a. vada interpretato secondo ragionevolezza affinché prevalga la funzione cautelare anticipatoria sottesa alle misure cautelari monocratiche quando l’esigenza cautelare prospettata è tale “da dover essere protetta senza neppure attenderne la trattazione collegiale in camera di consiglio, anche in sede d’appello”.
Anche in questo caso il giudice non ritiene di dover giustificare l’ammissibilità dell’appello, al termine del quale concederà la sospensiva negata in primo grado, relativa alla chiusura di un esercizio commerciale per la durata di un mese comprensivo del periodo natalizio. Non credo, infatti, che possa considerarsi una giustificazione del doppio grado di giudizio il semplice richiamo alla ragionevolezza nella interpretazione dell’art. 56 c. p. a. trattandosi di una formula troppo ampia e troppo ovvia, che se fosse meritevole di apprezzamento comporterebbe una libertà processuale rimessa alla discrezione dei giudici e collocherebbe la giurisprudenza fra le fonti del diritto. Né serve a dare alla ragionevolezza un contenuto accettabile il richiamo alla funzione cautelare anticipatoria sottesa alle misure cautelari monocratiche. Sembra di poter dire, infatti, che le misure cautelari monocratiche non hanno una funzione diversa da quelle collegiali se non sotto il profilo della tempestività dell’intervento. L’intervento cautelare tende sempre in principalità a neutralizzare i tempi del processo, secondo l’insuperato principio chiovendiano, ed indubbiamente può anche avere un effetto anticipatorio quando, soprattutto in casi come nel caso in esame ed in quello deciso con il decreto n. 4628/2009, i suoi effetti sono fattualmente definitivi per le parti. Questo effetto anticipatorio, però, non può porsi di per sé come causa giustificativa di un giudizio di secondo grado, ma solo esige una penetrante motivazione sul “fumus boni juris”, che invece anche nel caso in esame non è dato rinvenire. Ma questa è questione che nulla ha a che fare con la pretesa necessità di un doppio grado di giudizio, né dà contenuto all’invocata ragionevolezza l’estrema gravità ed urgenza invocata dal ricorrente, che è ovvio presupposto della concessione della tutela cautelare monocratica e non della sua ammissibilità.
6. Il decreto Cons. Stato sez. V n. 3015/2017
– In questo decreto il giudice, dopo averne considerato la funzione strettamente interinale, sottolinea che il procedimento previsto dall’art. 56 c. p. a. deroga ai principi generali di collegialità e di contraddittorio, che esso non prevede “un distinto ed autonomo appello” e che per il sistema processuale un appello apparirebbe non configurabile, per cui la richiesta revisione del decreto “va trattata nel medesimo grado della misura stessa, o con lo stesso mezzo o in occasione della successiva camera di consiglio” (e quindi in sede collegiale). Di qui la dichiarata inammissibilità dell’appello. A questa conclusione il giudicante è pervenuto fermandosi ad una interpretazione strettamente letterale dell’art. 56 c. p. a., senza ricollegarlo alle altre norme codicistiche che in qualche modo avrebbero potuto concorrere ad una od altra soluzione o comunque a dare alla decisione una maggiore forza persuasiva. Anche la sottolineatura della deroga alla collegialità ed al contraddittorio, che pure è ovviamente corretta, non sembra che possa influire sulla appellabilità o meno dei decreti cautelari monocratici.
7. Il decreto Cons. Stato sez. IV n. 5971/2018
– Ai fini dell’ammissibilità dell’appello richiesto il decreto in esame richiama l’art. 24 della Costituzione e gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che nel consacrare il diritto di difesa nulla dicono, però, riguardo alla necessità di previsione di un doppio grado di giudizio. Viene richiamata poi anche la giurisprudenza della VI sezione del Consiglio di Stato[8], riguardante però situazioni differenti da quelle che qui interessano. Si tratta, infatti, di decreti monocratici richiesti in corso di giudizi di appello contro sentenze del giudice di primo grado. Nella rimanente parte motiva il decreto in esame è quello relativamente più completo, perché richiama non solo il decreto n. 5650/2014, ma – ciò che più conta – la decisione dell’adunanza plenaria n. 1/1978 e quindi il principio dell’appellabilità delle ordinanze cautelari pur in assenza di una esplicita previsione legislativa. Il giudice afferma, però, anche che “l’appellabilità del decreto monocratico del Presidente del TAR va considerata ammissibile esclusivamente quando vi siano eccezionali ragioni d’urgenza, tali da rendere irreversibile – per il caso di mancata emanazione di una misura monocratica in sede d’appello – la situazione di fatto, a causa del tempo che intercorre tra la data di emanazione del decreto appellato e la data nella quale è fissata la camera di consiglio per l’esame della domanda cautelare, da parte del TAR in sede collegiale”. Sulla funzione dell’appello, limitata ad evitare l’irreversibilità della situazione di fatto sottoposta a giudizio il decreto insiste particolarmente, ribadendo che il giudice dell’appello “emette una misura che ha unicamente la finalità di evitare che una situazione di fatto diventi irreversibile”. A questo fine, valutata la situazione, l’appello è stato ammesso ed accolto.
Di questo decreto interessa richiamare l’attenzione sulla consapevolezza con cui viene sottolineata la “indefettibilità della tutela cautelare nel corso di qualsiasi fase e grado del processo”. Una indefettibilità la cui estensione a qualsiasi fase e grado del giudizio sembra, però, persino esagerata, a mio avviso, se si considera che, alla luce della bozza di ricostruzione dell’iter processuale fatta nel decreto stesso, il processo cautelare, nel caso di interventi monocratici, potrebbe comportare, quando i tempi lo consentissero e fossero compatibili con l’urgenza della situazione e la particolarità del caso lo richiedesse, ben quattro o cinque decisioni[9]. Decisamente un po’ troppo per la sola cautela.
[8] Decreti 25 agosto 2017 n. 3408; 30 agosto 2017 n. 3418 e 3418; 1 settembre 2017 n. 3538.
[9] Nel decreto si legge, infatti, che “il Presidente della Sezione del Consiglio di Stato, se ritiene di accogliere l’appello e di riformare il decreto impugnato, emette una misura che ha unicamente la finalità di evitare che una situazione di fatto diventi irreversibile, e che comunque perde effetti quando il TAR esamina la domanda cautelare nella ordinaria sede collegiale: il TAR, ove ritenga di non condividere il decreto reso in sede d’appello (pur se ‘confermato’ dall’ordinanza del Consiglio di Stato in sede collegiale nella relativa peculiare fase incidentale), decide la domanda cautelare posta al suo esame, con la pienezza dei propri poteri”. Se si pensa che a quest’ultima decisione, poi, può pur sempre seguire il normale appello al Consiglio di Stato, è chiaro che – urgenza permettendo – si perverrebbe ad un quinto giudizio cautelare finale in sede di appello. Il che conferma l’opportunità che le procedure processuali vengano stabilite dal legislatore, nell’interesse e per la tranquillità per tutti.
8. Considerazioni conclusive
– La giurisprudenza sopra esaminata non sembra fornire argomenti decisivi a sostenere l’ammissibilità dell’appello contro i decreti cautelari monocratici nel processo amministrativo, significativo sembrando solo il consapevole richiamo all’adunanza plenaria n. 1/1978 contenuto nel quarto dei decreti presi in esame, decisione che però non sembra poter essere estesa “de plano” anche ai decreti cautelari monocratici. Non sembra pertanto inutile tentare di portare un piccolo contributo a questo dibattito giurisprudenziale sul processo cautelare monocratico, nonostante la veramente rara eccezionalità delle situazioni coinvolte in questi problemi e la destinazione di questi provvedimenti ad avere una brevissima durata, di per sé pressoché preclusiva dell’appello medesimo, ma non per questo meno rilevanti ai fini della tutela degli interessi in gioco. Volendo rimanere rigorosamente ancorati al diritto positivo, dirò subito che poche sono le norme utili cui rifarsi per affrontare il problema dell’ammissibilità dell’appello.
La legge istitutiva dei TAR aveva previsto solo ordinanze cautelari collegiali, senza nulla disporre in merito alla loro appellabilità o meno. La giurisprudenza amministrativa le aveva rese appellabili e l’unico tentativo legislativo di limitarne l’appellabilità in alcune materie era stato dichiarato dalla Corte costituzionalmente illegittimo.
I decreti cautelari monocratici che possono essere richiesti dopo il deposito del ricorso hanno, invece, una storia differente ed autonoma. Previsti per la prima volta dalla legge n. 205/2000 e riconfermati dall’art. 56 del c. p. a. senza sostanziali modifiche che potessero essere considerate rilevanti quanto alla loro appellabilità, non sono mai stati dichiarati dal legislatore né appellabili, né inappellabili.
I decreti cautelari monocratici “ante causam”, introdotti dall’art. 61 c. p. a., sono stati invece dichiarati dal legislatore inappellabili sia in caso di loro accoglimento, sia in caso di loro rigetto. Non risulta che l’inappellabilità di questi ultimi abbia formato oggetto di contestazione davanti alla Corte costituzionale.
La vigente normativa cautelare, nonostante i ripetuti interventi legislativi e giurisprudenziali suindicati, non può dirsi ancora completa. L’appello contro le sospensive previsto dall’art. 62 del c. p. a., il solo del quale qui ci si occupa, è ammesso soltanto contro le ordinanze e cioè contro i provvedimenti collegiali che concludono in primo grado i procedimenti cautelari. Una interpretazione letterale non consentirebbe di estendere ai decreti le norme previste per le ordinanze. D’altra parte il legislatore ha espressamente escluso l’appello solo contro i decreti monocratici “ante causam”, per cui l’estensione di tale normativa ai decreti monocratici emessi in corso di causa incontrerebbe a sua volta anch’essa un ostacolo letterale.
L’interprete che ritenesse rientrare nei suoi compiti il superamento del vuoto normativo derivante dalle norme suddette si troverebbe quindi nella condizione di dovere individuare mediante una interpretazione sistematica di per sé sempre opinabile l’esistenza di uno strumento di difesa come l’appello creandone anche il rito. In concreto con l’ammissione dell’appellabilità si concederebbe l’accesso ad un rimedio inesistente sul piano del diritto positivo e contemporaneamente si accollerebbe al cittadino interessato una possibilità di impugnazione di cui questi non è in grado di valutare non tanto la fondatezza e le forme quanto e soprattutto nemmeno l’esistenza stessa, che rimarrebbe rimessa all’interpretazione da parte del giudice di norme assolutamente generiche fra le cui pieghe si nasconderebbe un modo di accedere alla giustizia che buon senso vorrebbe fosse esplicito e chiaro e non mascherato in contesti normativi non espressamente finalizzati a regolamentare lo strumento processuale in questione.
E’ vero che è stato detto che il diritto va “inventato, nel senso di invenire, ossia trovare, va cercato e trovato nelle trame dell’esperienza, sia quando la regola manca, sia quando la regola troppo vecchia o troppo generica non si presta a ordinare i fatti”[10], ma richiedere il rispetto di un “chiare loqui” da parte del legislatore che metta tutti in condizioni di conoscere a priori gli strumenti di difesa predisposti a favore dei cittadini sembra il minimo che si possa chiedere alle norme processuali. E’ ben vero anche che l’appellabilità delle ordinanze cautelari di sospensione dei provvedimenti amministrativi impugnati è già stata introdotta in passato dalla citata giurisprudenza amministrativa con una operazione interpretativa astrattamente riproponibile per i decreti cautelari monocratici. E’ anche vero, però, che sia quando tale interpretazione è stata recepita relativamente alle ordinanze cautelari collegiali con la legge n. 205/2000, sia quando è stata ribadita dal legislatore con l’approvazione del c. p. a. il legislatore nulla ha detto quanto all’appellabilità dei decreti monocratici proprio in un momento in cui sembrava intenzionato a fare chiarezza in materia processuale e specificamente in materia di doppio grado di giurisdizione. Un silenzio cui è difficile dare una interpretazione e che nessuno dei quattro decreti in esame ha nemmeno tentato di dare, né quando si è ritenuto di ammettere l’appello, né quando lo si è dichiarato inammissibile. Tutto si è limitato infatti ad un cenno fugace all’esistenza della sentenza n. 1/1978 dell’adunanza plenaria, comparso solo nel decreto n. 5971/2018, quasi essa ammettesse non solo l’appello contro le ordinanze, ma il doppio grado di giudizio verso qualsiasi atto.
A me sembra che più significativo sarebbe stato, forse, richiamarsi alla sentenza 1 febbraio 1982 n. 8 della Corte costituzionale, che ha esteso la garanzia costituzionale al doppio grado di giudizio per il processo amministrativo sia di merito che cautelare in quanto relativo ad una giurisdizione “che verte particolarmente nella sfera del pubblico interesse e rende, quindi, opportuno il riesame delle pronunce dei tribunali di primo grado da parte del Consiglio di Stato, che trovasi al vertice del complesso degli organi costituenti la giurisdizione stessa”.
Personalmente, però, sarei stato molto perplesso se estendere in via interpretativa il doppio grado di giudizio ammesso per le ordinanze cautelari collegiali anche ai decreti cautelari monocratici, trattandosi di una regola del processo che deve essere stabilita mediante una esplicita scelta del legislatore piuttosto che affidata ad una generica interpretazione giurisprudenziale sempre opinabile e suscettibile di revisione.
Rispetto alle risalenti pronunce amministrative e costituzionali esistono, infatti, attualmente elementi di diversità e sono intervenuti elementi di novità suscettibili di condurre a modifiche interpretative rispetto alla formula ampia e generica usata dalla Corte costituzionale. Penso in primo luogo alla durata temporale degli effetti delle ordinanze collegiali di sospensione rispetto a quelli estremamente più ridotti dei decreti monocratici, che la Corte ovviamente non poteva nemmeno considerare perché i decreti monocratici ancora non erano stati previsti dal legislatore.
In secondo luogo non va trascurata, a mio avviso, la rilevanza che ora potrebbe assumere la ormai acquisita regola della responsabilità per la lesione degli interessi legittimi. Essa ben potrebbe indurre a limitare l’ammissibilità dell’appello nelle sempre eccezionali situazioni di ricorso alla tutela monocratica a quei casi nei quali si configurino per una delle parti situazioni di insanabile irreversibilità, rispetto alla quale nemmeno il risarcimento sarebbe concretamente utile. Il motivo fondamentale sul quale credo di poter fondare i miei dubbi sulla generalizzazione della appellabilità dei decreti cautelari monocratici riguarda la irreversibilità del danno che potrebbe derivare o essere consolidata dal decreto pronunciato in primo grado, nel senso che solo una irreversibilità che per la qualità o la quantità del danno rendesse radicalmente inutile la sentenza potrebbe rendere necessario un nuovo giudizio monocratico d’appello in sede cautelare[11].
Per giungere, però, ad una conclusione del genere occorre procedere ad una serie di valutazioni sul merito legislativo e ad una lettura sufficientemente libera delle norme generali del processo amministrativo che sembra difficile consentire all’interpretazione del giudice amministrativo, lettura che permetta una più ponderata valutazione ed un più meditato bilanciamento di opposti interessi, che la decisione cautelare può collocare in definitiva alternativa fra di loro. Per questo credo che sarebbe stato forse opportuno provocare un intervento della Corte costituzionale, che avrebbe avuto più dell’ordinario interprete un ampio potere per una sentenza interpretativa che compensasse le distratte lacune dei testi legislativi, esplicitando l’esistenza di un appello ed individuando i limiti di esso, già tanto colorato, almeno logicamente, di eccezionalità.
[10] Così Grossi, Sulla odierna “incertezza” del diritto, Napoli, 2015. 1 e ss.
[11] La rilevanza della possibile irreversibilità degli effetti di una sospensiva concessa o negata è più volte sottolineata nel decreto n. 5971/18.
Aggiungo che non credo si possa dubitare che, seppure è vero che giuridicamente tutti i danni sono risarcibili, esistono situazioni di fatto che il denaro non può restaurare se non in maniera del tutto vagamente simbolica e che quindi meritano un doppio grado di giudizio anche nell’eccezionale giudizio monocratico.
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