La normativa di riferimento
Le sentenze della Commissione Tributaria Provinciale possono essere impugnate con ricorso in appello innanzi alla Commissione Tributaria Regionale, nella cui circoscrizione ha sede la Commissione Provinciale che ha emesso la sentenza.
Il giudizio in appello viene regolato dalle stesse disposizioni che disciplinano il giudizio di primo grado in quanto compatibili, ossia l’art. 61 del D.Lgs. n. 546/1992.
L’atto di appello, come nel processo civile, va proposto nel termine di 60 giorni dall’avvenuta notifica della copia autentica della sentenza di primo grado; qualora la parte non abbia provveduto alla notifica, il termine previsto è di sei mesi, decorrenti dal deposito della sentenza.
L’appellante può chiedere alla CTR di sospendere, in tutto o in parte, l’esecutività della sentenza impugnata, se sussistono gravi e fondati motivi; il contribuente può, comunque, chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile.
Come in primo grado, il ricorso va notificato a tutte le controparti.
L’appellante deve provvedere a costituirsi in giudizio mediante il deposito delle controdeduzioni, le quali posso anche eventualmente contenere un appello incidentale, entro 60 giorni dalla ricezione della notifica del ricorso in appello (artt. 53 e 54).
L’oggetto del giudizio di appello è delimitato dall’atto di appello che deve individuare i capi della decisione di primo grado, per i quali s’ intende ottenere un nuovo giudizio; non sono ammesse domande ed eccezioni nuove, salvo quelle rilevabili d’ufficio. Per tale motivo, il petitum non potrà essere diverso o più ampio rispetto al ricorso di primo grado.
I motivi di appello nel giudizio tributario
La Suprema Corte, con sentenza n. 7671/2012 ha affermato che “l’indicazione dei motivi di appello nel processo tributario, ai sensi dell’art. 53 del D.Lgs. n. 546/1992, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione a sostegno del gravame, essendo, per contro, sufficiente un’esposizione chiara e univoca -sia pure sommaria- della domanda rivolta al giudice di appello e delle ragioni della doglianza. Ne discende che i motivi di appello ben possono essere ricavati, anche per implicito, dall’intero atto d’impugnazione considerato nel suo complesso”.
La sentenza di appello può avere contenuto di merito, qualora sostituisce quella di primo grado, o contenuto processuale o diritto, nel caso in cui dichiari l’inammissibilità dell’appello, l’estinzione del giudizio o la rimessione alla Commissione Provinciale che ha emesso la pronuncia di secondo grado, nei casi tassativi previsti dall’art. 59, D.Lgs. n. 546/1992, ossia:
- quando dichiara la competenza declinata o la giurisdizione negata al primo giudice;
- quando nel giudizio di primo grado il contraddittorio non è stato regolamene costituito o integrato;
- quando la sentenza di primo grado ha erroneamente dichiarato estinto il processo in sede di reclamo contro il provvedimento presidenziale;
- quando il Collegio della Commissione Tributaria Provinciale non era legittimamente composto;
- quando manca la sottoscrizione della sentenza di primo grado.
Il divieto d’introduzione di nuove prove in appello nel processo tributario
Nel regime antecedente l’entrata in vigore del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 non esisteva alcuna previsione legislativa limitativa dell’acquisizione di nuove prove in appello. L’art. 36 del D.p.r. n. 636/72, unica norma specifica in merito, si limitava a stabilire solamente che dinanzi alla commissione centrale potevano essere prodotti dalla difesa nuovi documenti, inerenti ai motivi dall’impugnazione, esclusivamente insieme al ricorso, al ricorso incidentale o alle deduzioni della parte resistente. Pertanto, una disciplina normativa che appariva concisa e permissiva induceva la dottrina prevalente a ritenere scontata l’ammissibilità di prove in sede di appello. Tale convinzione è, tra l’altro, confermata dal disposto dell’art. 79 del D.Lgs. n. 546/1992 che recita “Le disposizioni di cui agli articoli 57, comma 2, e 58, comma 1, non si applicano ai giudizi già pendenti in grado d’appello davanti alla commissione tributaria di secondo grado e a quelli iniziati davanti alla commissione tributaria regionale, se il primo grado si è svolto sotto la disciplina della legge anteriore”.
Alla luce di quanto detto, va colta l’apporto innovativo dell’art. 58 del D.Lgs. n. 546/92, a norma del quale “Il giudice d’appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile. E’ fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.
La ratio dell’art. 58 risponde alla generale esigenza legislativa di introdurre nel contenzioso tributario un giudizio di secondo grado ad istruttoria c.d. “chiusa”, parimenti al processo civile.
L’intentio legis di evitare ampliamenti del thema decidendum, già espresso nel precedente art. 57 in ordine alle domande e alle eccezioni, nell’art. 58 viene applicata all’ambito squisitamente probatorio.
La norma richiama, infatti, l’analoga disposizione contenuta nell’art. 345 c.p.c. secondo cui “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.
Allo stesso tempo, però, predetta norma se ne discosta perché, a differenza del processo civile, ove l’ammissibilità di nuove prove è subordinata alla loro indispensabilità per la definizione della causa, nel processo tributario è sufficiente una semplice necessarietà dei medesimi. Da ciò ne discende che la disciplina del processo tributario ha una valenza preclusiva assai più ridotta di quella processualcivilistica.
Questo divario viene sostanzialmente ridimensionato nel processo tributario dall’assenza di tutte le prove orali, ossia della prova testimoniale, dell’interrogatorio e del giuramento, e dal potere della parte di produrre nuovi documenti anche in appello. Tali elementi finiscono per ridurre la preclusione di prove nuove ai soli accertamenti attribuiti al giudice dall’art. 7 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.
In riferimento alla possibilità, in sede di contenzioso tributario, di produrre nuova documentazione in appello, si sottolinea che questo deve avvenire nei termini perentori previsti dal D.Lgs. n. 546/92, ossia fino a 20 giorni liberi prima della data di udienza; se il termine in discorso non viene rispettato, stante la sua natura perentoria che non dà luogo a decadenza, il giudice di appello non potrà basare il proprio convincimento sul documento che è stato tardivamente presentato (Corte di Cassazione, Sez. Trib., sent. n. 2787 dell’08/02/2006).
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Il revirement della Suprema Corte sulla produzione di nuovi documenti in appello (Cass. n. 26522/2017)
Assai incisiva nella materia del contenzioso tributario si rivela la disposizione del secondo comma dell’art. 58, che espressamente fa salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti, indipendentemente dall’impossibilità dell’interessato di produrlo in prima istanza per causa a lui non imputabile, requisito richiesto dall’art. 345 ultimo comma c.p.c.
Si tratta di un’eccezione al comma precedente, la cui rilevanza è tutt’altro che secondaria, ove si consideri che in una materia come quella tributaria, in assenza di prove orali, quella documentale è la prova per eccellenza. E’, anzi, legittimo affermare che il comma 2 dell’art. 58 vanifica in parte il comma precedente, reintroducendo di fatto nel procedimento gran parte di quei mezzi probatori che sembravano essere stati esclusi.
La Suprema Corte, con la recente sentenza n. 26522/2017 ha mutato il pacifico orientamento circa l’ammissibilità della produzione di documenti nuovi nel giudizio di appello. Tale questione è stata introdotta a seguito d’impugnazione della sentenza che decide sull’opposizione a cartella di pagamento relativa a crediti di natura non tributaria, nell’ipotesi in cui tali documenti risultino indispensabili per dissipare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia giudiziale oggetto di gravame.
La giurisprudenza di legittimità, a Sezioni Unite, con sentenza del 4 maggio 2017, n. 10790, aveva ammesso un temperamento alla preclusione nella produzione di documenti nuovi nel giudizio di secondo grado, qualora il giudice li avesse reputati necessari per chiarire lo stato di incertezza sui fatti controversi.
La sentenza in esame, invece, si discosta da quanto precedentemente stabilito, esponendo tre argomentazioni di carattere diverso.
In primo luogo, la Suprema Corte contesta l’applicabilità del principio precedentemente statuito per quanto concerne le controversie insorte dopo la riformulazione dell’articolo 345 c.p.c., avvenuta con D.L. n. 83/2012; la giurisprudenza di legittimità basa tale tesi partendo dall’assunto che la giurisprudenza precedente si fondava sulla disciplina ante riforma, mentre la motivazione addotta dalla sentenza n. 26522/2017 si basa sul tenore letterale della norma, la quale ora include solamente la “causa non imputabile alla parte” come possibile causa di ammissibilità di documenti nuovi in appello. A ulteriore conferma di ciò, c’è la ratio sottesa alla riforma dell’articolo 345 c.p.c., che consiste nel ribadire e rafforzare la natura dell’appello come mera revisio prioris instantiae e non come iudicium novum.
In secondo luogo, il Supremo Consesso evidenzia che, nonostante la produzione di documenti nuovi in appello non risulti lesiva del diritto di difesa ex articolo 24 Cost., giova rammentare che il legislatore non ha fatto assurgere tale parametro a requisito di ammissibilità della nuova produzione documentale nel giudizio di secondo grado.
L’ultima motivazione addotta dalla Suprema Corte riguarda il rapporto tra l’irrigidimento del divieto di prove nuove con la necessità di evitare una scollatura tra la verità materiale e quella processuale. Secondo l’iter logico espresso nella sentenza in analisi, “la naturale propensione del processo all’accertamento della verità dei fatti va coniugata con il regime delle preclusioni, che numerose operano nel rito civile. Sicché la soppressione dell’ipotesi della “prova indispensabile”, quale eccezione al divieto dei nova in appello, si traduce semplicemente nell’accentuazione dell’onere di tempestiva attivazione del convenuto”.
Sulla base di tali affermazioni, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: nel giudizio di appello, la nuova formulazione dell’articolo 345 c.p.c., pone il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova e di produzione di nuovi documenti, a prescindere che abbiano o meno quel carattere di “indispensabilità”, il quale costituiva criterio selettivo nella versione precedente della norma stessa.
Dall’altra parte, quanto finora esposto, non trova applicazione nell’ambito del processo tributario: l’articolo 58 D.Lgs. n. 546/1992 contempla specificamente la produzione di documenti nuovi in appello, così risultando nettamente più permissivo rispetto all’articolo 345 c.p.c.. Tale orientamento è stato recentemente avvalorato anche dalla Corte Costituzionale, con sentenza del 14 luglio 2017, n. 199, nella quale essa afferma che la facoltà di produrre per la prima volta in appello documenti non integra una violazione del diritto di difesa, che risulta enunciato e tutelato dall’articolo 24 Cost. Di tale sentenza si darà spiegazione nel paragrafo che segue.
I nuovi documenti nell’appello del processo tributario sono sempre ammessi (Corte Cost. n.199/2017)
La Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla Commissione Tributaria Regionale di Napoli, in riferimento al co.2 dell’articolo 58 del D.Lgs n. 546/1992, il cui contenuto dispone che, nel giudizio di appello davanti le Commissioni tributarie, “è fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti“.
La norma in questione è stata pacificamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che non sussistono limitazioni alla produzione in appello di qualsiasi documento, anche se già disponibile in precedenza e anche se la parte che lo produce non si è costituita nel primo grado del giudizio.
Inoltre, dal dato normativo si evince che nel processo tributario non trova applicazione, in particolare per il comma 2 dell’art. 58 del Dlgs n. 546/1992, il disposto dell’articolo 345 c.p.c. che statuisce una specifica preclusione in base alla quale nel processo civile la mancata produzione dei documenti in primo grado ne impedisce la produzione nel grado di appello, salva la dimostrazione della causa non imputabile alla parte. Per la Suprema Corte, l’articolo 58, comma 2, configurandosi quale “norma speciale, dettata dal legislatore per il processo tributario, risulta prevalente.
L’ordinanza di rimessione
I giudici a quo hanno ritenuto d’ufficio di dover sottoporre al vaglio della Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale del comma 2 dell’articolo 58 del Dlgs n. 546/1992 in relazione al comma 1 della medesima disposizione, che disciplina le nuove prove in appello, per contrasto “con gli articoli 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, nonché con criteri di razionalità e con i principi generali dell’ordinamento“.
La Commissione Tributaria ha evidenziato, in primis, come la “rigida interpretazione letterale” data dalla giurisprudenza di legittimità a tale disposizione consenta nella prassi alla parte di produrre, nel grado di appello, qualsiasi documento, inclusi quelli già nella sua disponibilità all’epoca del precedente grado di giudizio, non prodotti perfino “per mera inerzia“.
Secondo la CTR l’interpretazione del comma 2 dell’articolo 58 non risulta coerente con il disposto normativo che, al primo comma, riprende “pedissequamente il disposto dell’articolo 345 c.p.c.” , ossia che non possono essere prodotti nuovi mezzi di prova in appello, salvo che non siano ritenuti indispensabili o che la parte non dimostri di non aver potuto proporli o produrli in primo grado per causa a essa non imputabile; al secondo comma, invece, sembra “far salva indiscriminatamente la possibilità di produzione in secondo grado di nuovi documenti“.
Infatti, così interpretando predetta norma, verrebbe vanificato il rispetto del diritto di difesa, poiché “una produzione documentale nuova in appello, pur se possibile in primo grado e non avvenuta per mera inerzia della parte interessata, potrebbe essere voluta ad arte per impedire al controsoggetto processuale la proposizione di motivi aggiunti in primo grado e quindi il pieno esercizio del diritto di difesa (…)“. Né varrebbe opporre “che una tale facoltà sarebbe pur sempre salva all’esito della produzione in appello, dal momento che, per com’è evidente, la controparte del producente avrebbe, pur sempre e per sempre, perso – senza quindi possibilità di reviviscenze di sorta – un grado di giudizio utile alla sua difesa (…)“.
Per di più, secondo i giudici a quo, consentire la produzione documentale in appello senza limiti frustrerebbe la preclusione dettata dall’articolo 32, n. Dlgs 546/1992, che dispone che le parti, in ossequio al rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, possono depositare documenti fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione, rendendola sempre sanabile. Peraltro, tale sanatoria opererebbe “in modo del tutto incondizionato, senza cioè alcun limite legato a un previo giudizio di eventuale indispensabilità dell’acquisizione, con violazione dell’articolo 3 della Costituzione”.
In conclusione, la CTR, nell’ordinanza di rimessione, propone una possibile lettura della norma che impedirebbe di dichiararne l’incostituzionalità nel suo complesso, ovvero intendere per documenti “nuovi” solo i documenti ulteriori rispetto a quelli già acquisiti, come nel caso in cui sussista la necessità di integrarli o anche di produrli per la prima volta in relazione alla sopravvenienza di argomentazioni fattuali o giuridiche esposte nella sentenza impugnata oppure nel gravame, o ancora, al limite, in ogni altro caso in cui non si sia già consumato il diritto della parte di produrli.
La decisione della Consulta
La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 58, comma 2, “sia in sé sia in relazione al comma 1 di essa norma“, sollevata in riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché ai “criteri di razionalità” e ai “principi generali dell’ordinamento“, mentre ha dichiarato non fondata, con riferimento a tutti i parametri evocati, quella sollevata “sia in sé sia in relazione al comma 1 di essa norma“, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione.
Il giudice delle Leggi ha, in primo luogo, esaminato l’eccezione sollevata circa la disparità di trattamento tra le parti del giudizio, sostenuta sulla base di un presunto “sbilanciamento a favore di quella facultata a produrre per la prima volta in appello documenti già in suo possesso nel grado anteriore“. Al tal proposito, la Consulta ha ritenuto sufficiente rilevare che tale sbilanciamento non sussiste poiché tale facoltà è comunque riconosciuta a entrambe le parti del giudizio.
In secondo luogo, la Corte Costituzionale ha esaminato i profili di legittimità costituzionale legati alla differente disciplina delle nuove prove e della produzione documentale nell’ambito del processo civile e di quello tributario, rafforzando il principio secondo cui non esiste un principio costituzionale di necessaria uniformità tra i diversi tipi di processo e, precisamente, non esiste “un principio di uniformità del processo tributario e di quello civile” (Cass. ordinanze n. 316/2008, n. 303/2002, n. 330/2000, n. 329/2000, n. 8/1999).
Invero, l’ordinamento giuridico italiano riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore in ordine alla conformazione dei singoli istituti processuali, fermo restando il limite della manifesta irragionevolezza di una disciplina che comporti un’ingiustificabile compressione del diritto di agire. A tal riguardo, l’articolo 24 della Costituzione “non impone l’assoluta uniformità dei modi e dei mezzi della tutela giurisdizionale: ciò che conta è che non vengano imposti oneri tali, o non vengano prescritte modalità tali, da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (Cass. n. 121/2016 e n. 44/2016; ordinanza n. 386/2004)”.
Alla luce dei summenzionati principi, la Consulta ha sottolineato che non vi è compressione dell’esercizio del diritto di difesa: la previsione che un’attività probatoria, rimasta preclusa nel giudizio di primo grado, possa essere esperita in appello non è di per sé irragionevole, poiché “il regime delle preclusioni in tema di attività probatoria (come la produzione di un documento) mira a scongiurare che i tempi della sua effettuazione siano procrastinati per prolungare il giudizio, mentre la previsione della producibilità in secondo grado costituisce un temperamento disposto dal legislatore sulla base di una scelta discrezionale, come tale insindacabile (ordinanza n. 401/2000)“.
Infine, la Corte Costituzionale ha ritenuto priva di rilievo la eccepita violazione del citato articolo 24 della Costituzione per la asserita “perdita di un grado di giudizio“, posto che, secondo l’orientamento più volte espresso dalla Consulta, la garanzia del doppio grado di giurisdizione non gode, di per sé, di copertura costituzionale.
L’appello è inammissibile senza la presenza del difensore (Cass. S.U. n. 29919 del 13/12/2017)
Il principio di diritto
Le Sezioni Unite, con sentenza n. 29919, depositata in data 13 dicembre 2017, hanno stabilito che l’appello è inammissibile se la parte privata, superando il previsto valore della lite, non si munisce di difensore e, a tal fine, non è necessario che i giudici di secondo grado ammoniscano preventivamente il contribuente a provvedere in tal senso se di tale obbligo il contribuente era già stato edotto in primo grado.
Il caso
L’Agenzia delle Entrate notificava ad una società un accertamento che veniva impugnato innanzi alla competente CTP. Il ricorso era sottoscritto dal rappresentante legale della società e non dal difensore abilitato, nonostante la controversia fosse di valore superiore a 2582,28 euro.
L’Agenzia delle Entrate eccepiva l’inammissibilità del ricorso. LA CTP rigettava la richiesta dell’ufficio in quanto, nelle more, la società aveva provveduto a conferire incarico a un difensore abilitato, depositando il relativo atto di conferimento; altresì, la CTP rigettava nel merito l’impugnazione della contribuente.
La società proponeva appello avverso tale decisione e, anche in questa circostanza, proponeva il gravame senza difensore abilitato.
La CTR riteneva l’appello inammissibile perché, tra l’altro, era stato sottoscritto personalmente dal legale rappresentante senza l’ausilio di difensore. A seguito della dichiarazione dell’inammissibilità dell’appello, la contribuente ricorreva in Cassazione.
La sentenza
La sezione tributaria della Cassazione trasmetteva la causa al primo Presidente, per assegnarla alle Sezioni Unite poiché rilevava una questione di massima importanza: se nel processo tributario, avente ad oggetto controversie pari o superiori a 2582,28 euro, l’inammissibilità del ricorso proposto direttamente dalla parte senza assistenza tecnica – da dichiararsi solo in seguito all’ordine del giudice di munirsi del difensore – trovi applicazione anche al giudizio di secondo grado.
E’ ben noto che la questione relativa all’inammissibilità del ricorso sottoscritto solo dalla parte è stata risolta in passato dalla Corte di Cassazione, in coerenza con quanto indicato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 189/2000, nel senso che l’inammissibilità del ricorso opera solo a seguito di inottemperanza all’ordinanza del giudice di munirsi di assistenza tecnica in un termine perentorio.
La Suprema Corte, invece, con la recente sentenza n. 29919/2017 si è occupata di un’altra questione, ancora controversa, quale l’ammissibilità o meno dell’atto di appello sottoscritto dal contribuente in spregio dell’obbligo di patrocinio, cioè nelle ipotesi in cui il valore della lite superava il valore di € 2.582,98, indicato dall’ art. 12, co. 2 e 5, D.Lgs. n. 546/1992 vigente ratione temporis e ora analogamente fissato in € 3.000 dall’attuale testo dell’art. 12 (co. 2).
Precisamente, le Sezioni Unite hanno di nuovo affrontato la questione inerente alle conseguenze, a carico del contribuente, del difetto di assistenza tecnica del giudizio tributario quando tale patrocinio è invece obbligatorio, cioè nelle controversie superiori al limite oggi indicato nell’art. 12, co. 2, D.Lgs. n. 546/1992; l’art. 12 di tale decreto rappresenta la disposizione che riconosce un’abilitazione di carattere processuale di portata generale che va oltre la categoria degli avvocati, tant’è che essa si estende anche a dottori e ragionieri commercialisti iscritti nei relativi albi, consentendo altresì una legittimazione difensiva limitata a determinate materie per una serie di altre categorie di soggetti, in conformità e nei precisi confini della competenza professionale fissata dalla legge per tali professionisti.
La questione de qua, sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, riguardava la possibilità della Commissione Tributaria Regionale adìta di pronunciare tale vizio, senza il previo invito alla parte a munirsi di detta assistenza; la necessità di ammonire la parte sull’obbligo del patrocinio difensivo anche nel grado di appello era invocata sulla base del combinato disposto di cui agli artt. 53 e 61, D.Lgs. n. 546/1992; il primo articolo rinvia all’art. 18, co. 3 del predetto decreto, in materia di sottoscrizione dell’atto introduttivo, che a sua volta rinvia all’art. 12 ove l’interpretazione costituzionalmente adeguata di queste ultime due norme, fornita dalla Consulta con ordinanza 189/2000, comporta che l’inammissibilità del ricorso da parte della Commissione Tributaria Provinciale è dichiarata in conseguenza, non della mera mancata sottoscrizione da parte di un difensore abilitato, ma soltanto dell’omessa esecuzione dell’ordine del giudice alla parte di munirsi dell’assistenza tecnica.
La Consulta, nella storica sentenza n. 189/2000, riteneva non fondata – in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 12, co. 5, e 18, co. 3 e co. 4 del D.Lgs. n. 546/1992, (vigente ratione temporis); il Giudice delle Leggi riteneva che – conformemente ai criteri della Legge Delega n. 413/1991 – nei giudizi, eccedenti il limite ex art. 12 citato, dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale l’inammissibilità del ricorso doveva intendersi riferita soltanto all’ipotesi in cui fosse rimasto ineseguito l’ordine di tale Giudice, rivolto alle parti, diverse dall’Amministrazione, di munirsi, nel termine fissato, di assistenza tecnica conferendo incarico ad un difensore abilitato, consentendosi così in ogni altro caso, la proponibilità diretta dei ricorsi ad opera delle parti interessate.
La giurisprudenza di legittimità operava una distinzione nell’applicazione di tale principio della Corte Costituzionale sopra delineato, sostenendo che l’intimazione di provvedere al patrocinio difensivo poteva essere impartito soltanto nel giudizio di primo grado all’atto dell’impugnazione dell’atto impositivo, ma non nel caso di appello alla sentenza di prime cure.
Dall’altra parte, la presenza di espressioni di segno contrario (Cass. n. 21459/2009) – principalmente fondate sull’asserzione che la pronuncia della Corte Costituzionale dovesse essere letta anche per i casi di difetto di assistenza in appello – induceva la Quinta Sezione della Corte di Cassazione a sottoporre il contrasto al vaglio delle Sezioni Unite (Ordinanza n. 10080 del 21.4.2017).
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 29919 del 13.12.2017, hanno provveduto a dirimere il conflitto giurisprudenziale osservando che l’iter logico seguito per sostenere l’inammissibilità tout court di tale ordine nel giudizio di appello, non appare risolutivo e può essere superato con un’interpretazione costituzionalmente orientata a tutela del diritto di difesa.
Inoltre, il Supremo Consesso ha precisato che “l’ordine impartito dal giudice al contribuente, nel giudizio di primo grado, di munirsi di assistenza tecnica – nel caso in cui lo stesso contribuente non si sia avvalso dell’assistenza di un difensore abilitato per proporre l’impugnazione dell’atto impositivo – ancorché astrattamente ammissibile anche in grado di appello, non deve essere reiterata, con conseguente inammissibilità dell’appello per la mancanza di “ius postulandi”. L’impugnazione è parimenti inammissibile se la parte, sfornita in grado di appello della necessaria assistenza tecnica, sia stata comunque resa edotta dall’eccezione di controparte, nel giudizio davanti alla Commissione Tributaria provinciale, della necessità dell’assistenza tecnica necessaria, non dovendo tale invito essere reiterato dalla commissione tributaria regionale”.
Infatti, secondo la Suprema Corte, se la parte è stata resa edotta, mediante invito della Commissione Tributaria, della necessità che la controversia, a prescindere dal suo svolgimento in uno o in due gradi di merito, richiede l’assistenza tecnica, non vi è ragione che lo stesso invito venga reiterato dalla Commissione Tributaria Regionale.
Le Sezioni Unite, in tale sede, ritengono opportuno precisare, altresì, che ciò vale anche per quel contribuente che in primo grado abbia provveduto a nominare il difensore senza l’ordine del giudice e sulla scorta dell’eccezione sollevata dall’ufficio all’atto delle controdeduzioni poiché “in tale evenienza va anche esclusa alcuna violazione del diritto di difesa in quanto il contribuente è già stato reso edotto, o a seguito di ordine del giudice o di eccezione di parte, della mancanza della necessaria difesa tecnica in primo grado e il perdurare della situazione anche in grado di appello va addebitata a comportamento negligente della parte, con conseguente inammissibilità della impugnazione proposta senza avvalersi della necessaria assistenza tecnica. La mancanza di alcun pregiudizio all’effettività della tutela giurisdizionale non consente di affermare che l’inammissibilità della impugnazione, in tal caso, costituirebbe una sanzione irragionevole in quanto la preventiva conoscenza dell’obbligo dell’assistenza tecnica e della sanzione derivante dalla sua inosservanza consentono di ritenere che la parte, in quanto consapevole delle regole del processo, fosse in realtà in condizione di ottenere l’effettiva tutela giurisdizionale dei propri diritti”.
Inoltre, in tale arresto, la Suprema Corte ha sottolineato che la reiterazione dell’invito, da parte del giudice di appello a munirsi dell’assistenza tecnica ad una parte che è già stata destinataria di un analogo invito da parte del giudice di primo grado, è contrastante con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto comporterebbe l’inevitabile rinvio della trattazione della controversia per ovviare alla mancata diligenza della parte , con un allungamento dei tempi di definizione della stessa non giustificato dall’esigenza di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale.
In conclusione, nel primo caso, il giudice di appello, poiché il contribuente è stato già informato nel corso del primo grado di doversi avvalere della difesa tecnica, non ha alcun obbligo di ammonirlo ed invitarlo a nominare il difensore; il giudice d’appello, pertanto, può dichiarare l’inammissibilità, essendo il contribuente a conoscenza sin dal primo grado di tale obbligo.
Nel caso in cui, invece, tale evenienza si verifichi per la prima volta in appello, l’ordine di munirsi di assistenza tecnica per proporre l’impugnazione della sentenza di primo grado deve essere impartito dal giudice di appello, in quanto la parte potrebbe effettivamente non conoscere l’obbligo di assistenza tecnica e, quindi, non in condizione di ottenere la concreta tutela giurisdizionale dei propri diritti.
La sentenza di appello: la motivazione è illegittima se costituita da un mero rinvio a quella di primo grado (Cass. ordinanza n. 3999 del 19 febbraio 2018)
Il principio di diritto
La Suprema Corte, con ordinanza n. 3999 del 19 febbraio 2018, ha statuito come illegittima la sentenza del giudice d’appello nella quale si effettua un mero rinvio alla motivazione della decisione di primo grado, ritenendola condivisibile. Questo mero rinvio non consente, infatti, né di individuare il thema decidendum, né di verificare se la condivisione di quanto deciso dai primi giudici sia avvenuta effettivamente a seguito di un’analisi dei motivi di appello, ritenuti poi infondati.
Il caso
L’Ufficio notificava ad una società un avviso di accertamento ai fini IRES, IVA ed IRAP, basato sull’applicazione degli studi di settore.
La contribuente impugnava l’atto impositivo e risultava vittoriosa sia in primo grado che in appello. Precisamente, la CTR riteneva illegittima la pretesa dell’Amministrazione Finanziaria concordando con la decisione della CTP.
L’Agenzia censurava la decisione del giudice di secondo grado dolendosi dell’assenza di una specifica motivazione, consistendo la stessa in una mera condivisione del contenuto della pronuncia di primo grado. Inoltre, l’Amministrazione si lamentava dell’assenza di valutazione sulla fondatezza o meno dell’avviso di accertamento, tenendo conto degli elementi forniti nel corso del giudizio, sia da parte del Fisco che della contribuente.
La sentenza
La Corte di Cassazione, con predetta ordinanza, ha ritenuto fondati i motivi di ricorso dell’Ufficio.
In particolare, è stata censurata l’assenza di una effettiva motivazione da parte della CTR, la quale ha emesso una sentenza con motivazione insufficiente e non adeguata; l’Amministrazione, in sede di appello aveva, difatti, sviluppato specifici motivi in merito all’applicazione nella specie di un determinato cluster di uno studio di settore, ai quali la CTR non ha fornito alcuna risposta, se non con un generico richiamo a quanto deciso dai primi giudici.
Nell’ambito del procedimento tributario è infatti nulla, per violazione degli articoli 36 e 61, D.Lgs. n. 546/1992 e 118 disp. att. c.p.c., la sentenza di appello se completamente carente dell’esplicazione delle censure indicate da parte appellante alla sentenza della CTP, ovvero delle considerazioni che hanno portato la CTR a disattenderle.
Per tale motivo, non è possibile una mera motivazione per relationem costituita dalla semplice adesione alla sentenza di primo grado; in tal situazione, infatti, da una parte non è possibile individuare le ragioni poste a base della decisione, dall’altra non si può comprendere se la condivisione della motivazione impugnata sia stata o meno raggiunta attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di appello.
Per le ragioni innanzi esposte, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’Ufficio e ha cassato con rinvio della pronuncia della CTR.
E’ ammissibile il ricorso in appello con il deposito dell’avviso di ricevimento (Cass. n. 9938/2018)
Il principio di diritto
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9938 del 20 aprile 2018, ha chiarito che, in caso di notifica a mezzo posta raccomandata, ai fini della prova della tempestività della costituzione in giudizio del ricorrente o appellante, deve ritenersi valido il deposito dell’avviso di ricevimento in luogo della ricevuta di spedizione.
Il caso
La ricorrente Agenzia delle Entrate ha dedotto che la CTR avrebbe dovuto rilevare che non si era verificata alcuna decadenza nella proposizione del gravame dal timbro di ricezione dell’ufficio postale apposto sulla distinta di accettazione delle raccomandate, tra le quali quella relativa alla notifica del ricorso in appello nei confronti della S.r.l., da cui emergeva che la data di consegna all’ufficio postale dell’atto da notificare era quella del 18 novembre 2013, epoca alla quale non era ancora spirato il termine per la proposizione del ricorso in appello avverso la sentenza di primo grado non notificata.
La sentenza
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate con il quale impugnava la sentenza della CTR che ha dichiarato inammissibile il suo appello proposto nei confronti della società S.r.l. contro la decisione di primo grado della CTP; con tale decisione, la CTP ha accolto il della contribuente avverso cartella di pagamento per IVA, notificatale sul presupposto della ritenuta solidarietà passiva con la scissa S.r.l.
Nella motivazione della sentenza la Suprema Corte ha richiamato il seguente principio di diritto “Nel processo tributario, non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso (o dell’appello), che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente (o l’appellante), al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell’avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario. Solo in tal caso, infatti, l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione; invece, in loro mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso (o dell’appello), unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto (o della sentenza)”(Cass.S.U. nn.13452 e 13453 del 29 maggio 2017).
Pertanto, benché la costituzione dell’appellante sia nei termini, la documentazione prodotta non è sufficiente a dimostrare, secondo il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite e innanzi richiamato, la prova della consegna del ricorso in appello per la notifica entro il termine ultimo stabilito, a pena di decadenza dalla proposizione dell’appello avverso la sentenza di primo grado.
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