L’art. 25 del decreto Ischia: condono tombale o aiuto ai terremotati?

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SOMMARIO: Premessa. 1. Il decreto-legge n. 109 del 2018 (“disposizioni urgenti per la città di Genova, la sicurezza della rete nazionale delle infrastrutture e dei trasporti, gli eventi sismici del 2016 e 2017, il lavoro e le altre emergenze”). 2. L’articolo 25. 3. I vincoli paesaggistici. 4. Il vincolo idrogeologico. 5. I limiti volumetrici. 6. Le vere ragioni della equiparazione del terzo condono al primo. 7. Il comma 1 bis dell’articolo 25. 8. Il secondo comma dell’articolo 25. 9. La questione contributiva. L’apparente “ossimoro” del terzo comma dell’articolo 25. 10. La natura eccezionale dell’articolo 25. 11. Conclusioni.

Premessa

L’abusivismo edilizio di Ischia, è un abusivismo peculiare.

“Non c’è quel non finito siciliano o calabrese con gli scheletri lasciati lì con il tondino di ferro. Non ci sono grandi colate di cemento. Quello dei privati è un abusivismo gentile, un abusivismo creativo, organico. Gli unici due ecomostri sono di Stato” (la caserma della Forestale nel bosco della Maddalena a Casamicciola Terme e quella dei Carabinieri al Capizzo a Forio, non lontano dai Giardini Poseidon, il parco termale più bello del mondo).

Il fenomeno, comunque, seppur “gentile”, al di là delle cause che possono averlo generato (spontaneismo edilizio, assenza di pianificazione urbanistica, bisogni della vita), non ammette scuse e va condannato senza appello.
D’altronde, secondo la prestigiosa rivista americana TRAVEL + LEISURE, l’isola più bella d’Europa per attrazioni, spiagge e paesaggi è proprio l’isola d’Ischia, la prima colonia greca dell’intero Mediterraneo occidentale, un inestimabile patrimonio dell’umanità che va tutelato e conservato per le generazioni future.

1. Il decreto-legge n. 109 del 2018 (“disposizioni urgenti per la città di Genova, la sicurezza della rete nazionale delle infrastrutture e dei trasporti, gli eventi sismici del 2016 e 2017, il lavoro e le altre emergenze”)

É stato convertito, con modifiche, nella legge n. 130 del 2018 (g.u., serie generale, n. 269 del 19 novembre 2018) ma, nell’accezione comune, è etichettato, a torto o a ragione, come decreto Ischia e, anche per brevità, così continuerò a chiamarlo nel prosieguo del presente articolo.
Per i sindaci del cratere e per il Governo in carica si tratta di una misura volta alla accelerazione dell’iter per la ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati dal sisma del 21 agosto 2017, nel mentre, per i critici, Legambiente su tutti, è il peggiore dei mali, una vendita delle indulgenze, per di più un vero e proprio condono tombale.

Va rilevato, innanzitutto, che l’espressione condono tombale non appartiene alla materia edilizia, come chiarito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 49 del 2006, nella quale viene evidenziato che tra i principi fondamentali dello Stato, cui le regioni devono attenersi, vi è anche quello della previsione del titolo abilitativo edilizio in sanatoria che può essere rilasciato solo al termine dello speciale procedimento disciplinato dalla normativa statale.
Nel richiamare tale principio, la Corte ha dichiarato l’illegittimità Costituzionale dell’articolo 26, comma 4, della legge della regione Emilia Romagna n. 23 del 2004, che aveva codificato una fattispecie di condono tombale, peraltro senza il sinallagma della monetizzazione, per le opere edilizie autorizzate e realizzate anteriormente alla legge n. 10 del 1977 “che presentino difformità esecutive”.
Dunque, secondo la Consulta, nessun perdono o condono calato dall’alto è ammissibile per qualsiasi tipologia di abuso edilizio.
Quali le conseguenze?
Perché l’articolo 25 non contrasta con i dicta della Consulta?

2. L’articolo 25

L’articolo 25 del decreto prevede che vengano definite le istanze pendenti relative agli immobili distrutti o danneggiati dal sisma del 21 agosto 2017, presentate ai sensi delle tre normative di condono succedutesi dal 1985 al 2003 (legge n. 47 del 1985 [Craxi-Nicolazzi], legge n. 724 del 1994 [primo Governo Berlusconi] e legge n. 326 del 2003 [secondo Governo Berlusconi]).
Per la definizione di tali istanze si precisa, tuttavia, che “trovano esclusiva applicazione le disposizioni di cui ai Capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47”.
Il provvedimento prevede, altresì, che la conclusione dei procedimenti avvenga entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione.

Per mettere a tacere coloro che avevano accusato il Governo di aver varato un condono tombale, è stato, poi, approvato, nell’iter di conversione, anche un emendamento che prevede l’obbligo, ai fini della definizione delle istanze di condono, di acquisire il preventivo parere favorevole da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico.
Infine, viene stabilito che “il procedimento per la concessione dei contributi sia subordinato all’accoglimento delle istanze” ma si specifica che tale contributo “non spetta per la parte relativa ad eventuali aumenti di volume oggetto del condono”.
Questo, in estrema sintesi, il contenuto dell’articolo 25.
Qualcuno, come l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi, ha addirittura sostenuto che l’articolo 25 consente di definire positivamente le oltre 27.000 richieste di condono edilizio presentate dagli abitanti di Ischia (secondo il dossier Mare Monstrum 2016 di Legambiente).

La norma è riferita ai soli “immobili distrutti o danneggiati dal sisma del 21 agosto 2017”, né potrebbe essere diversamente tenuto conto delle circoscritte finalità del provvedimento, adottato al solo scopo di far fronte alla situazione emergenziale in atto, la quale presuppone, nei comuni del cratere, la definizione delle domande di condono pendenti: ciò perché qualsiasi ipotesi di ricostruzione in sito o di delocalizzazione del patrimonio edilizio esistente presuppone la legittimità o la regolarizzazione postuma dello stesso.
La disposizione in esame, pertanto, non vale non soltanto per le altre domande di condono presentate per le costruzioni od opere eseguite senza titolo negli altri comuni dell’isola, ma anche per quelle relative a costruzioni realizzate all’interno dello stesso cratere dei comuni interessati (Casamicciola Terme, Lacco Ameno e Forio) che non siano state distrutte o danneggiate in conseguenza dell’evento tellurico.

Il vero nodo del contendere è, in ogni caso, l’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 25, laddove, come anticipato, è stabilito che, per la definizione delle istanze, “trovano esclusiva applicazione le disposizioni di cui ai Capi IV e V.

Va subito evidenziato, in proposito, che tale norma presenta un contenuto del tutto analogo a quello dell’articolo 39, comma 1, della legge n. 724 del 1994, secondo cui, appunto, “le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28-2-1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 dicembre 1993, e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale, un ampliamento superiore a 750 metri cubi (…)”.
Per ragioni non solo di ordine sistematico il rinvio alla legge n. 47 del 1985 è contenuto anche nella legge n. 326 del 2003.

L’articolo 32, comma 25, di tale legge rinvia, infatti, espressamente alle disposizioni dei “capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni”.

La norma in questione è stata, inoltre, ritenuta costituzionalmente legittima dalla Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 196 del 2004, ha avuto modo di chiarire che il nuovo condono << si ricollega sotto molteplici aspetti ai precedenti condoni edilizi che si sono succeduti dall’inizio degli anni ottanta: ciò è reso del tutto palese dai molteplici rinvii contenuti nell’art. 32 alle norme concernenti i precedenti condoni, ma soprattutto dal comma 25 dell’art. 32, il quale espressamente rinvia alle disposizioni dei “capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni”, disponendo che tale normativa, come ulteriormente modificata dal medesimo art. 32, si applica “alle opere abusive” cui la nuova legislazione appunto si riferisce. Attraverso questa tecnica normativa, consistente nel rinvio alle disposizioni dell’istituto del condono edilizio come configurato in precedenza, si ha una esplicita saldatura fra il nuovo condono ed il testo risultante dai due precedenti condoni edilizi di tipo straordinario, cui si apportano solo alcune limitate innovazioni >>.
L’esigenza di uniformare i procedimenti è, dunque, espressione di una tecnica legislativa ritenuta insindacabile dalla stessa Corte Costituzionale.
Vi sono però anche altre ragioni di ordine pratico che illustrerò di qui a poco.

3. I vincoli paesaggistici

Il WWF, nello scorso mese di ottobre, ha lamentato che l’iniziativa governativa non sarebbe finalizzata alla accelerazione delle istanze di sanatoria pendenti ma consentirebbe “di definirle tutte eludendo i vincoli paesaggistici sulla base del condono tombale del 1985 e non sulla base dei due successivi condoni edilizi del 1994 e del 2003 che, invece, escludevano la sanatoria di opere abusive in aree, come i comuni di Casamicciola Terme, Forio d’Ischia e Lacco Ameno, sottoposte a vincolo”.

L’affermazione, al pari di altre doglianze provenienti da più parti e di contenuto analogo, non solo è infondata ma denota scarsa conoscenza delle norme, essendo risaputo che la prima, organica disciplina dei vincoli è contenuta proprio nella legge n. 47 del 1985 (v. articoli 32 [vincoli di inedificabilità relativa] e 33 [vincoli di inedificabilità assoluta]), cui si ricollegano, come si è visto, anche le successive leggi di condono.
É noto, altresì, che la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa solo qualora si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta (come quelli imposti, ad es., a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali, a protezione del nastro stradale fuori dai centri abitati, a tutela della fascia di rispetto cimiteriale o degli interessi della difesa militare) e non anche nella diversa ipotesi di un vincolo di inedificabilità relativa, ossia di un vincolo superabile mediante un giudizio a posteriori di compatibilità paesaggistica.

In caso di vincolo relativo “sopravvenuto”, la disciplina applicabile, secondo la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr., fra le tante, Sez. VI, sentenza 18 gennaio 2018, n. 283), “è proprio quella dell’articolo 32 della legge n. 47/85 (così anche Cons. Stato, A.P., 22 luglio 1999, n. 20), dovendo l’amministrazione operare in concreto una verifica di compatibilità tra l’opera realizzata e lo specifico valore oggetto di tutela”.
Con una recentissima decisione (Sez. VI, sentenza 15 novembre 2018, n. 6615), sempre il Consiglio di Stato ha affermato, in particolare, che, “nel caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione, l’Amministrazione competente ad esaminare l’istanza di condono proposta ai sensi delle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994 deve acquisire il parere della Autorità preposta alla tutela del vincolo sopravvenuto, la quale deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi (Adunanza Plenaria, 22 luglio 1999, n. 20)”.

4. Il vincolo idrogeologico

Alle critiche del WWF si è, poi, associata Legambiente, la quale ha sostenuto che – fra i vincoli sopravvenuti maggiormente limitativi – vi sarebbe anche quello idrogeologico, imposto in epoca successiva alla entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, sicché il rinvio a tale normativa consentirebbe, con ogni evidenza, di bypassarne gli effetti con conseguente, grave compromissione del pubblico interesse in un territorio peraltro fragile e notevolmente a rischio.
Anche tale affermazione è priva di fondamento, in quanto il vincolo idrogeologico è stato codificato in epoca di gran lunga antecedente alla entrata in vigore della legge sul primo condono.

L’unico riferimento normativo a livello statale in tema di vincolo idrogeologico è, infatti, rappresentato dal Regio Decreto Lgs. n. 3267 del 30 dicembre 1923 (“Riordinamento e riforma in materia di boschi e terreni montani”), il quale, all’art. 1, sottopone a “vincolo per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di utilizzazione contrastanti con le norme di cui agli artt. 7, 8 e 9 (dissodamenti, cambiamenti di coltura ed esercizio del pascolo), possono, con danno pubblico, subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque”.

Lo scopo principale del vincolo idrogeologico, che ha natura di vincolo “conformativo” della proprietà privata finalizzato a tutelare l’interesse pubblico, è – come è noto – quello di preservare l’ambiente fisico e quindi di garantire che tutti gli interventi che vanno ad interagire con il territorio non compromettano la stabilità dello stesso, né inneschino fenomeni erosivi, ecc., con possibilità di danno pubblico, specialmente nelle aree collinari e montane.

Il vincolo idrogeologico, peraltro, contrariamente a quanto si possa pensare, non è un vincolo di inedificabilità assoluta e, pertanto, non preclude la possibilità di intervenire sul territorio, ma subordina gli interventi in queste aree all’ottenimento della specifica autorizzazione di cui all’art. 7 del Regio Decreto Lgs. n. 3267 cit., oggi di competenza del comune, in Campania, in virtù di quanto stabilito dall’articolo 1, comma 100, della legge regionale del 7 agosto 2014, n. 100 (cfr., sul punto, T.A.R. Toscana, Firenze, Sez. I, 1° luglio 2014, n. 1150; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I ter, 30 settembre 2010, n. 32618; Consiglio di Stato, Sez. V, 24 settembre 2009, n. 43731; Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 novembre 2008, n. 5467).

5. I limiti volumetrici

Il vicedirettore di un autorevole quotidiano nazionale, in un proprio editoriale dal titolo “il condono allargato per Ischia”, ha ipotizzato che il rinvio alla più permissiva legge di condono del 1985 troverebbe giustificazione nella esigenza di eludere i limiti volumetrici.
<< Nell’articolo 25 c’è scritto, infatti, che “per la definizione delle istanze trovano esclusiva applicazione le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47”.
E perché applicare alle domande per i condoni Berlusconi del 1994 e del 2003 “esclusivamente” i parametri del condono Craxi del 1985? Forse perché quelli consentirebbero di regolarizzare abusi superiori rispetto a quelli ammessi dai condoni successivi? E perché non c’è scritto che cosa ne sarà delle domande di sanatoria che non dovessero essere accolte?

Ora, è pur vero che la legge n. 47 del 1985 non ha condizionato la sanatoria all’osservanza di alcun limite volumetrico, nel mentre le due normative di condono successive hanno stabilito che non è possibile ottenerla se l’abuso supera il 30% della volumetria originaria o, comunque, il limite dimensionale quantitativo di 750 metri cubi.
Tuttavia, ritengo che l’assenza di ogni riferimento nella legge n. 47 del 1985 ai limiti volumetrici sia un falso problema, dal momento che, con l’art. 39 della legge n. 724 del 1994, le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47 del 1985 sono state modificate ed ulteriormente integrate.
Lo stesso articolo 39 prevede, infatti, al comma 18, che “il presente articolo sostituisce le norme in materia incompatibili, salvo le disposizioni riferite ai termini di versamento dell’oblazione, degli oneri di concessione e di presentazione delle domande, che si intendono come modificative di quelle sopra indicate”.
E di certo la mancata previsione di limiti volumetrici nella Craxi-Nicolazzi è incompatibile con la normativa sopravvenuta.

D’altronde, tale normativa, come chiarito dalla Corte Costituzionale (v. sentenza n. 302 del 1996 e ordinanza n. 395 del 1996), ha privilegiato una interpretazione “di sistema” delle disposizioni in materia di condono, sottolineando la natura di limite assoluto ed inderogabile propria della previsione massima di cubatura di 750 mc., che funge, altresì, da norma di chiusura, in aggiunta al limite di incremento volumetrico del 30 per cento, nella ipotesi di ampliamento di fabbricati preesistenti.

Secondo il Consiglio di Stato, inoltre, “costituisce diritto vivente l’affermazione che, nel procedimento relativo al rilascio di un titolo edilizio, la situazione normativa vigente alla data di presentazione della domanda, in ragione del generale principio tempus regit actum, non rappresenta un vincolo per l’Amministrazione.
Le norme coeve alla domanda, infatti, non possono ritenersi “cristallizzate” fino alla determinazione finale sulla stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 5854/2011).
In sostanza, la domanda di concessione edilizia (oggi permesso di costruire) deve essere valutata alla luce della normativa vigente al momento in cui l’Amministrazione comunale provvede su di essa e non all’epoca della presentazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 3186/2013; n. 5822/2013)” (così Cons. Stato, Sez. IV, 14 novembre 2017, n. 5231).

La risposta all’interrogativo finale (“e perché non c’è scritto che cosa ne sarà delle domande di sanatoria che non dovessero essere accolte?) è scontata!
Nell’articolo 25 nulla si dice della sorte delle istanze di condono non accolte per il semplice fatto che, già nella legge n. 47 del 1985, all’articolo 40, è espressamente previsto che, qualora le istanze, per la rilevanza delle omissioni o delle inesattezze riscontrate, debbano ritenersi dolosamente infedeli, trovano, comunque, applicazione le sanzioni di cui al capo I (art. 7, come sostituito dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, che fa riferimento alla sanzione della demolizione, a quella amministrativa pecuniaria, all’acquisizione in caso di inottemperanza, ecc.).

6. Le vere ragioni della equiparazione del terzo condono al primo

Un focus sui dati reali forniti dagli uffici tecnici dei tre comuni interessati sugli immobili distrutti o danneggiati dall’evento sismico e soprattutto sulla normativa di riferimento e sul numero delle istanze di condono presentate aiuta – senz’altro – ad inquadrare meglio il problema e a comprendere le vere ragioni che hanno indotto il legislatore a “saldare” il terzo condono al primo.
Nel solo comune di Casamicciola Terme, il più colpito, sono 5 gli edifici crollati e realizzati in epoca antecedente al 1942 (dunque legittimi ab origine anche perché il vincolo paesaggistico sull’intero territorio comunale è stato imposto solo nel 1958, come per ogni altro comune dell’isola, fatta eccezione per quello di Ischia assoggettato a vincolo nel 1952).
Gli immobili con esito E-EF, cioè totalmente inagibili, sono 560.
Gli immobili con esito B-BF, cioè inagibili ma con danni lievi, sono 200.
Gli immobili con esito C-CF, cioè parzialmente inagibili, sono 35.
In totale gli immobili danneggiati sono 795, in parte legittimi sin dall’origine e in parte interessati da più istanze di condono.
Quelle presentate ai sensi della legge n. 47/85 sono 141.
Quelle presentate ai sensi della legge n. 724/94 sono 109.
Quelle presentate ai sensi della legge n. 326/03 sono appena 107, di cui 24 riferite a nuove costruzioni e 41 ad ampliamenti.

Nel comune di Lacco Ameno, invece, gli immobili danneggiati sono 270.
Di questi, 122 sono interessati da domande di condono pendenti, di cui 81 ai sensi della legge n. 47 del 1985, 51 ai sensi della legge n. 724 del 1994 e 14 ai sensi della legge n. 326 del 2003.
Anche qui gli immobili danneggiati sono interessati da più istanze di condono (18 da primo e secondo, 2 da primo e terzo, 1 da secondo e terzo e 3 da tutti e tre).
Infine, nel comune di Forio, meno colpito rispetto ai primi due, gli immobili danneggiati di proprietà privata sono 63, nel mentre quelli pubblici sono 19.
Quelli interessati da domande di condono ai sensi della legge n. 47/85 ed inagibili, in tutto o in parte, sono 11.
Quelli oggetto di domande di condono ai sensi della legge n. 724/94 sono 41 e quelli oggetto di domande di condono ai sensi della legge n. 326/03 sono soltanto 4.
Anche a Forio la maggior parte degli edifici privati è interessata da più domande di condono riferite a normative diverse.

É evidente che tale singolare situazione, caratterizzata da confusione di domande di condono e da regole diverse per il loro esame sia in ordine alle condizioni di accoglibilità che ai procedimenti da osservare, avrebbe reso impossibile o quantomeno molto improbabile qualsiasi tentativo di ricostruzione o delocalizzazione.
E tanto anche alla luce della inequivoca definizione data al termine “edificio” dall’All.to 1 al D.P.C.M. del 5 maggio 2011, secondo cui per “edificio” deve intendersi, appunto, “una unità strutturale cielo terra individuabile per caratteristiche tipologiche e quindi distinguibile dagli edifici adiacenti per tali caratteristiche e anche per differenza di altezza e/o età di costruzione e/o piani sfalsati (…)”.

Ciò senza considerare che la coesistenza in un solo immobile di diverse parti assoggettate, in mancanza dell’art. 25, a regimi diversi, avrebbe anche innescato inevitabili contenziosi, dal momento che la giurisprudenza amministrativa ha precisato che la realizzazione di opere in ampliamento, in mancanza di una espressa norma di divieto, non può da sola giustificare il diniego del condono, occorrendo verificare se esse abbiano inciso in modo radicale sui beni oggetto di domanda, così impedendo all’amministrazione di effettuare la propria valutazione (Cons. Stato, Sez. VI, 14 agosto 2015, n. 3943).

Perché allora il rinvio proprio alla legge n. 47/85?

Per gli immobili realizzati in zona vincolata il condono 2003 si atteggia ad un accertamento di conformità, non essendo ammissibile la sanatoria di opere contrastanti con le norme urbanistiche e le prescrizioni degli strumenti urbanistici.

Più specificamente, si è ritenuto in giurisprudenza (cfr., fra le tante, T.A.R. Campania Napoli, Sez. VII, 14 ottobre 2011, 1439, e 10 dicembre 2009, n. 8608) che “l’art. 32, comma 27, lett. d), del d.l. n. 269 del 2003 è previsione normativa che esclude dalla sanatoria le opere abusive realizzate su aree caratterizzate da determinate tipologie di vincoli con la novità sostanziale costituita dall’inserimento, in tale previsione, del requisito della conformità urbanistica all’interno della fattispecie del condono edilizio, che dà vita ad un meccanismo di sanatoria che si avvicina fortemente all’istituto dell’accertamento di conformità previsto dall’art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, piuttosto che ai meccanismi previsti dalle due precedenti leggi sul condono edilizio”.
Così facendo, però, il legislatore ha ristretto fortemente l’area di condonabilità e tale scelta, in astratto, può anche starci, trovando giustificazione nella esigenza di modulare al ribasso l’ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità degli abusi sanabili.
Tuttavia, a conti fatti, si è trattato di una scelta scellerata in quanto lo Stato ha incamerato milioni di euro a titolo di oblazione ma la legge è rimasta sostanzialmente inapplicata.

Ciò perché molti comuni, soprattutto al sud (ed anche ad Ischia), sono sprovvisti di strumentazione urbanistica, sicché manca il parametro “tipico” per la valutazione richiesta, che è cosa ben diversa dalla normativa applicabile in via residuale.
Laddove, invece, i comuni siano dotati di piani regolatori, questi sono obsoleti ed inadeguati e, per di più, in contrasto con le prescrizioni del piano paesistico che, nella gerarchia delle fonti, si atteggia a strumento sovraordinato rispetto ad essi.

Recita, infatti, l’art. 145, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 che “i comuni, le città metropolitane, le province e gli enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, secondo le procedure previste dalla legge regionale, entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre due anni dalla loro approvazione”.
La disposizione del comma 27 è, in ogni caso, anche illogica in quanto analoghe norme sulla sanabilità legata all’accertamento di conformità urbanistica erano – a ben vedere – già presenti nel sistema in via ordinaria e non era il caso di replicarle in una normativa di condono che è, per sua natura, straordinaria.

Mi riferisco, in particolare, come già ricordato dal T.A.R., all’articolo 36 del testo unico dell’edilizia e, prima ancora, all’articolo 13 della legge n. 47/85, norme che condizionano entrambe la sanabilità al positivo accertamento della conformità urbanistica (“doppia conformità” per l’esattezza).
Senonché tali norme sono relative ad abusi “formali”, cioè ad opere che potevano, comunque, ottenere dal comune il permesso di costruire, qualora richiesto prima della loro esecuzione.
Viceversa, il condono si riferisce principalmente (e storicamente) agli abusi sostanziali.

Ne deriva che prevedere, nel terzo condono, l’obbligo della conformità urbanistica per questi abusi sostanziali ha rappresentato, a mio avviso, una ingiustificata compressione di aspettative giuridicamente tutelate sulla base di un acritico “copia e incolla” di principi e disposizioni concepiti per fattispecie completamente diverse e di non agevole applicazione per gli immobili ricadenti in aree assoggettate a vincolo paesaggistico.
Per concludere sul punto, mediante il rinvio, con l’articolo 25, al primo condono, è stato eliminato l’unico, vero ostacolo, inutilmente vessatorio, alla definizione delle istanze più recenti.

7. Comma 1 bis dell’articolo 25

Tale disposizione, aggiunta in sede di conversione al testo originario del provvedimento, prevede quanto segue.
“Per le istanze presentate ai sensi del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, le procedure di cui al comma 1 sono definite previo rilascio del parere favorevole da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Per tutte le istanze di cui al comma 1 trova comunque applicazione l’articolo 32, commi 17 e 27, lettera a), del medesimo decreto-legge n. 269 del 2003”.
Trattasi, come è agevole rilevare, di norma ripetitiva di quanto già rispettivamente stabilito, in materia, sia dalla legge n. 47 del 1985 che dalla legge n. 326 del 2003.

Infatti, quanto all’obbligo di far precedere l’esame delle istanze dal parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, lo stesso era già previsto dall’articolo 32, comma 1, della legge n. 47 del 1985, per il quale, “fatte salve le fattispecie previste dall’articolo 33, il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.

In ordine, invece, alla previsione del comma 17, lettera a), dell’articolo 32 del d.l. n. 269 del 2003, secondo cui ”le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora (…) siano state eseguite dal proprietario o avente causa condannato con sentenza definitiva, per i delitti di cui all’articolo 416-bis, 648-bis e 648-ter del codice penale o da terzi per suo conto”, il legislatore ha ritenuto, con tutta evidenza – ed aggiungo giustamente – di estenderne gli effetti anche alle istanze di condono presentate ai sensi delle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994.

8. Il secondo comma dell’articolo 25

Nella sua versione finale, tale comma così recita.
“I comuni di cui all’articolo 17, comma 1, provvedono, anche mediante l’indizione di apposite conferenze di servizi, ad assicurare la conclusione dei procedimenti volti all’esame delle predette istanze di condono, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro lo stesso termine, le autorità competenti provvedono al rilascio del parere di cui all’articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326”.

Quanto alla conferenza dei servizi, si tratta di un modulo procedimentale di semplificazione per la definizione delle istanze che era già previsto dall’articolo 32 del d.l. n. 269 del 2003.
Tale modulo procedimentale – come sottolineato nella circolare attuativa del Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio n. 4 del 3 dicembre 2018 – consiste nella valutazione complessiva e sincronica degli interessi pubblici coinvolti e consente di decidere anche in caso di mancata manifestazione espressa da parte di una delle amministrazioni partecipanti.
Quindi, niente di nuovo anche sotto tale profilo al netto del rilievo che attualmente, come chiarito anche dal Ministero dei Beni Culturali (Mibac) nella nota n. 23231/2018 dello scorso 28 settembre, redatta in risposta ad un quesito di un comune del Lazio, il mancato intervento della Soprintendenza in sede di conferenza di servizi non si qualifica come “assenza-assenso”, laddove il comune abbia già formulato il proprio parere negativo in ordine alla sanabilità delle opere.

Secondo il Ministero, infatti, l’istituto giuridico del silenzio-assenso (art.17-bis legge 241/1990), all’interno del procedimento di autorizzazione paesaggistica (articolo 146 d.lgs. 42/2004), è limitato alla sola ipotesi di proposta favorevole da parte dell’amministrazione procedente che – in caso di subdelega – è il comune.
Qualora quest’ultimo abbia espresso parere negativo, è da escludere l’esigenza di un “doppio controllo”, ossia la necessità di una seconda valutazione rimessa alla Soprintendenza, essendo peraltro difficile ipotizzare che quest’ultima, titolare della funzione di difesa estrema del vincolo, possa esprimersi favorevolmente.
Se, in definitiva, il comune “dice no”, il silenzio-assenso della Soprintendenza si allinea al parere negativo dell’amministrazione locale, configurandosi come “assenso” alla posizione negativa del comune.
Per quanto attiene, invece, al termine di sei mesi previsto per la definizione delle istanze, tale termine, pur dovendosi considerare ordinatorio e non già perentorio, non essendo prevista alcuna sanzione laddove dovesse essere superato per una ragione o per un’altra, appare perfettamente in linea con la giurisprudenza della Corte Edu formatasi in materia.

Particolarmente illuminante, in proposito, è la sentenza ”Paudicio” della Corte Europea del 24 maggio 2007 (ricorso n. 77606/01) che ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 CEDU (protezione della proprietà), nonché per violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, CEDU (diritto ad un equo processo) per il danno subito da un cittadino di Afragola dalla mancata esecuzione di una demolizione, pur oggetto di sentenza di condanna irrevocabile, di opere realizzate da terzi su di un fondo limitrofo a causa della pendenza da più di dodici anni di una istanza di condono ”senza che alcuna autorità si fosse pronunciata al riguardo“.

Si consideri, inoltre, che, in Campania, il legislatore regionale aveva già in precedenza stabilito che le domande presentate ai sensi delle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994 ed ancora pendenti, dovessero essere definite dai comuni entro il 31 dicembre 2006 (articolo 9 della l.r. n. 10 del 2004).

Il comma 2 dell’articolo 25 persegue, dunque, una finalità acceleratoria di procedimenti pendenti da più di 33 anni in relazione al primo condono, da circa 24 anni in relazione al secondo e da oltre 15 anni in relazione al terzo.
La seconda parte della norma in questione, che prevede l’obbligo di esprimere il parere paesaggistico nello stesso termine di sei mesi previsto per la definizione delle istanze, richiama nella sua interezza l’articolo 32 del d.l. n. 269 del 2003 e non l’articolo 32 della legge n. 47 del 1985.
Tale richiamo alla norma del 2003 ha indotto qualcuno a ritenere che il comma 27, lettera d), dell’articolo 32 del terzo condono, uscito per la porta, sarebbe, poi, rientrato per la finestra.
In disparte la considerazione che la norma si riferisce testualmente al parere e al termine entro il quale lo stesso deve essere reso, ciò che più vale a sgomberare il campo da qualsiasi equivoco interpretativo è il fatto che l’articolo 32, comma 43, del d.l. n. 269 del 2003 ha integralmente sostituito il vecchio articolo 32 della legge n. 47 del 1985, come si ricava proprio dall’incipit della norma.
Il legislatore dell’articolo 25 ben conosceva tale disposizione e bene ha fatto, dunque, a non richiamare l’articolo 32 della legge n. 47 del 1985, ormai sostituito.

9. La questione contributiva

L’apparente “ossimoro” del terzo comma dell’articolo 25
Il comma 3 dell’articolo 25 prevede nella sua prima parte che “il procedimento per la concessione dei contributi di cui al presente capo è sospeso nelle more dell’esame delle istanze di condono e la loro erogazione è subordinata all’accoglimento di dette istanze”.
La seconda parte della norma prevede, invece, che “il contributo non spetta per gli aumenti di volume oggetto del condono”.
La disposizione nel suo complesso è, in apparenza, contraddittoria in quanto il primo comma dell’articolo 25, nel circoscrivere l’ambito di applicazione della nuova misura agli immobili distrutti o danneggiati dall’evento sismico, richiama implicitamente la nozione di “ingombro volumetrico” (inteso come conformazione planovolumetrica della costruzione con relativo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale), nel mentre la seconda parte del comma terzo fa espresso riferimento al concetto di “aumento di volume”.
L’apparente contraddizione sta nel fatto che anche gli aumenti di volume equivalgono, in ogni caso, a nuove costruzioni.
Così, infatti, si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. II civ., nella sentenza n. 4255 pubblicata il 17 febbraio 2017, con la quale ha chiarito che “si verte in ipotesi di nuova costruzione quando la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, comporti aumento della volumetria (Cass., Sez. Un., n. 21578 del 2011)”.
In realtà, ad un più approfondito esame della norma nella sua interezza, non si ravvisa alcuna contraddizione e la scelta del legislatore appare logica e costituzionalmente orientata.
Il contributo, secondo la ratio legis, spetta, infatti, per il corpo di fabbrica preesistente sia esso legittimo sin dall’origine o, viceversa, abusivo ma oggetto di domanda di condono successivamente accolta, come precisato nella prima parte della disposizione in esame.
Il contributo, al contrario, non spetta in caso di nuova costruzione aggiuntiva o, come si legge testualmente nella norma, “per gli aumenti di volume oggetto del condono”.
É evidente allora che il legislatore abbia inteso l’aumento di volume, anche se condonato, come una superfetazione voluttuaria rispetto al preesistente corpo di fabbrica, sì da escludere per esso qualsiasi effetto premiale in termini di indennizzo per la ricostruzione.
In parole povere il concetto dovrebbe essere il seguente.
“Per la casa che ti serve per soddisfare i tuoi bisogni abitativi ti do il contributo, per gli ampliamenti ti do il condono se ti spetta ma non anche il contributo”.
Il ragionamento non fa una grinza, non potendosi sindacare la scelta del legislatore di limitare il ristoro economico soltanto allo stretto necessario, escludendo tale ristoro per tutto ciò che va oltre la soluzione del problema dell’emergenza abitativa.

10. La natura eccezionale dell’articolo 25

L’articolo 25 non è una comune norma ordinaria.
É una norma che è corretto, a mio avviso, definire norma eccezionale, piuttosto che norma speciale, in quanto finalizzata a fronteggiare le conseguenze di un evento sismico che, come è noto, ha interessato un consistente patrimonio edilizio, in parte distrutto, in parte danneggiato, oggetto di domande di condono edilizio il cui esame è assolutamente propedeutico a qualsiasi attività di ricostruzione.
La norma dell’art. 25 è, dunque, una disposizione di legge eccezionale anche se in tutte le ordinanze commissariali e disposizioni di legge succedutesi nel tempo la normativa post-sisma viene, in modo poco appropriato, definita normativa speciale e non eccezionale.
Invero, in linea con quanto previsto dall’art. 14 delle Preleggi, sono eccezionali le leggi che si definiscono tali in quanto adottate in situazioni eccezionali, quali, ad es., guerre, epidemie, terremoti, etc., e che per questo contengono disposizioni da non confondere con le leggi speciali che si applicano a materie specifiche (si pensi alla legge sulla caccia).
Le norme eccezionali sono norme che rappresentano, come è noto, un’eccezione rispetto ai principi generali dell’ordinamento giuridico per il soddisfacimento di esigenze lecite (v. ad es., la legge “annonaria” che in Italia ha regolamentato la distribuzione ed il prezzo delle derrate alimentari durante la seconda guerra mondiale).
Parlare di legge eccezionale in materia di eventi sismici sta anche a significare che tutto si può fare, se davvero lo si vuole, senza violare il principio di legalità e la stessa Costituzione.
Una volta tanto, lo strumento giuridico per porre un freno ai lacciuoli della burocrazia che spesso complica l’attività amministrativa e rende difficile la vita ai cittadini esiste e se ne può fare legittimo uso.
L’articolo 25 del decreto risponde proprio a tale finalità!

11. Conclusioni
Un editoriale a firma di John Hooper pubblicato di recente sull’importante quotidiano britannico The Guardian spiega che la risposta alla domanda sul perché la tangenziale di Genova non è mai stata costruita è radicata nella storia dell’Italia del XX secolo.
Dopo la caduta della dittatura fascista di Mussolini – scrive Hooper – “gli italiani hanno creato un ordine democratico in cui nessuna persona può esercitare il potere assoluto. Il risultato è stato un sistema bizantino di controlli e contrappesi che rende quasi impossibile eseguire le cose rapidamente o in modo decisivo”.
Ora, io non dico che dobbiamo guardare alla Spagna dell’edilizia facile e monetizzata per dare soluzione ai nostri problemi perché noi siamo “il bel paese” e la bellezza non ha prezzo.
Tuttavia, in Spagna nessuno si è scandalizzato per il maxi-condono della Sagrada Familia, costruita senza i necessari permessi.
A centotrentasei anni dalla posa della prima pietra, la cattedrale di Gaudì è stata sanata – in questo caso sì – con un vero e proprio condono tombale mediante pagamento di una sanzione di 36 milioni di euro al comune di Barcellona per la regolarizzazione retroattiva del progetto.
Qualcuno dirà che era un’opera d’arte e che l’arte tutto giustifica.
Tuttavia, non la pensava così il grande scrittore inglese George Orwell che definì la Sagrada Familia come “uno dei più orribili edifici del mondo” e sperò che venisse distrutto durante la Guerra Civile Spagnola.

Avv. ROBERTO DI MEGLIO

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