Art. 28, funzionale alla tutela dei diritti sindacali
L’art. 28 della Legge 300 del 1970, meglio conosciuta come “Statuto dei Lavoratori” reprime la condotta antisindacale del datore di lavoro. E’ unanimemente riconosciuta come una norma cardine, in quanto rende effettiva la tutela dei diritti sindacali affermati in altre disposizioni, costituendo nel complesso normativo, un tassello importante ai fini del perseguimento dei principi riconosciuti anche nella Carta Costituzionale e, precisamente, dagli artt. 39 (libertà dell’attività sindacale) e 40 (diritto di sciopero).
La norma è inserita nel titolo IV dello Statuto medesimo, intitolato “Disposizioni varie e generali”, ed anche l’inserimento, decisamente non casuale, all’interno del corpo organico di questo provvedimento legislativo aiuta, assieme ad altri elementi, a comprendere la natura e la ratio della disposizione stessa.
Non può anzitutto leggersi come una mera casualità la circostanza per cui questa norma sia collocata come norma introduttiva del menzionato titolo IV. Essa, infatti, non contiene affermazioni di principio o di specifici diritti sindacali, al contrario si pone come norma di chiusura e, per certi versi, anche e soprattutto di copertura dei diritti affermati nelle altre disposizioni dello Statuto. La previsione di una procedura diretta, efficace e tempestiva, difendendo l’esercizio dei diritti sindacali dalla eventuale condotta ostativa ed impeditiva del datore di lavoro, rende effettivi i diritti sanciti negli altri titoli dello Statuto. La presente procedura costituisce uno scudo protettivo senza il quale i diritti sindacali, rimarrebbero mere affermazioni di principio.
Definizione di condotta antisindacale
A questo punto è bene osservare come anche la natura e la struttura di questa normativa sia funzionale alla tutela dei diritti sindacali. La condotta antisindacale viene definita dal legislatore, scientemente, in maniera indeterminata; il testo dell’art. 28 fa riferimento, infatti, a “quei comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero”. E’ evidente che la definizione non individua specifiche fattispecie comportamentali, ma, in maniera più ampia, ogni comportamento diretto alla lesione dell’attività sindacale.
In merito è stato acutamente affermato in dottrina come anche la scelta lessicale sia indicativa; a ben vedere, infatti, il termine “comportamenti”, indicati unicamente per la loro direzione, appare scevro da qualsivoglia qualificazione giuridica, e potrà ricomprendere, con riguardo al profilo oggettivo, tanto gli atti materiali che gli atti giuridici, sia le condotte commissive che quelle omissive.
In dottrina si è affermato come la scelta del legislatore sia stata quella di dare una definizione non analitica, bensì teleologica della condotta prevista e sanzionata, in maniera da comprendere ogni comportamento che abbia la finalità di comprimere la libertà sindacale. La consapevolezza che, nella realtà concreta delle dinamiche dell’azienda, la tipologia di comportamenti che possono minare il libero esercizio delle libertà sindacali è potenzialmente illimitata, ed anche la più scrupolosa previsione di un numerus clausus di fattispecie ne avrebbe lasciato scoperte alcune, ha indotto il legislatore a scegliere una norma aperta.
La norma, come affermato efficacemente dalla Corte di Cassazione con la sentenza del giorno 8 maggio 1992, n. 5454, individua una fattispecie tipizzata sotto il profilo dei beni protetti ma non sotto il profilo dei comportamenti lesivi dei beni medesimi.
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