L’art. 9 Cedu e libertà di religione: aspetti eziologici e di formulazione

L’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sancisce incontrovertibilmente – nel suo primo paragrafo – che ogni persona ha il diritto «alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione», oltreché stabilisce il diritto di «cambiare religione o credo» e di manifestare tali convinzioni «individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti». A ciò si aggiunge, nel secondo paragrafo, che le manifestazioni succitate non possono essere «oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui»[1]. Pertanto, letto l’art. 9 assieme all’art. 11 CEDU si pone indubbiamente il riconoscimento della libertà di associazione e correlatamente la considerazione che il medesimo articolo vada a rintracciare come titolari della situazione convenzionalmente protetta sia gli individui che le comunità religiose (quest’ultima da intendersi nella sua espressione di professione collettiva, nell’alveo di una dimensione associativa).

Una genesi di tale articolo che delinea una linearità nella stesura del primo comma che ricalca, quasi letteralmente, l’art. 18 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo; mentre per il secondo comma si giunse con maggiore lentezza. Una lieve tortuosità, quindi, scaturita dai rappresentanti di Turchia e Svezia; i cui ordinamenti contenevano delle indubbie restrizioni al libero esercizio della religione, propugnandone una formulazione che potesse essere conforme ai loro dettati costituzionali. Tale linea di pensiero, però, non ebbe modo di concretizzarsi a fronte di una formulazione finale che evitava di inserire nel corpo degli articoli un’esplicita richiesta di inserimento di una clausola di conformità; rinviando al momento della ratifica l’eventuale dichiarazione di riserve dirette a conservare le limitazioni tradizionali al diritto di libertà religiosa.

Un iter che generò una serie di navette tra il Comitato di esperti dei diritti dell’uomo ed il Comitato dei Ministri, create in particolar modo dagli strali di legislazioni nazionali risalenti ad un’epoca segnata dal conflitto fra le diverse confessioni religiose. Una conflittualità venuta meno con il sopraggiungere dello Stato Moderno, a causa dell’estromissione dalla sfera pubblica dello scontro interreligioso. Deduttivamente, l’eventuale e perdurante sussistenza di una qualsivoglia conflittualità su basi religiose avrebbe contraddetto – nella sua intensità – l’art. 13, e cioè che i diritti e le libertà convenzionali devono essere garantiti a tutti, impedendo che l’appartenenza religiosa possa essere un fattore di disuguaglianza giuridica e di discriminazioni positive o negative.

Una linea che emerse anche in occasione della firma del Trattato di Roma del 4 novembre 1950, nel quale i quattordici Stati si impegnarono ad improntare i loro ordinamenti al rispetto dei diritti umani, con il fine di «riconoscere il principio della preminenza del Diritto ed il principio secondo il quale ogni persona soggetta alla [loro] giurisdizione deve godere dei diritti e delle libertà fondamentali».

Pertanto, la reale valenza dell’articolo può essere ulteriormente approfondita attraverso l’utilizzo di un apposito stile redazionale. Specificatamente, erano due gli stili redazionali di maggior uso: il primo che si definisce “francese”, perché risale alle dichiarazioni dei diritti della fine del settecento e privilegia un’enunciazione in formule concise e di alto valore morale; il secondo, tipico dei sistemi di common law, propende sulla descrizione analitica di singoli atti.

La scelta redazionale, però, non è una mera questione estetica o per meglio dire di drafting; bensì afferisce alla funzione degli istituti delegati di assicurare il rispetto dei diritti convenzionali e della loro più generale possibilità di agire con maggiore o minore latitudine a seconda che i diritti siano solo enumerati o siano dettagliatamente precisati.

Nel primo caso, è necessario uno sforzo definitorio che definisca in modo dettagliato il contenuto; mentre, nel secondo caso vi è la possibilità di incentrarsi maggiormente sulla sussistenza o meni della violazione statale.

Dunque, se la prima via era stata prescelta dalla Dichiarazione, la quale conteneva affermazioni di principio sulla libertà religiosa; mentre la seconda via fu in larga misura seguita dai redattori della Convenzione. Difatti, appare evidente che l’art. 9 sia stato redatto con la volontà di precisare le condizioni ed i modi con i quali è lecito restringere le (sole) «manifestazioni» di tale libertà.

Parimenti, è degno di nota che l’art. 9 riporti l’inciso «in una società democratica» a riguardo delle eventuali misure limitative della libertà di manifestare il proprio credo e dunque sull’assunto che tali misure non solo possono ma devono essere adottate; ove si presentino necessarie per salvaguardare i sommi valori di pluralismo e di tolleranza (raccordandosi, difatti, al tipo di società delineata nel preambolo della Convenzione). Tale inciso si lega inscindibilmente al terzo comma dell’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici firmato a New York il 16 febbraio 1966 che, pure, analogamente, richiede lo strumento legislativo con lo scopo di statuire misure restrittive della libertà religiosa. Però, la scelta di non inserire tale inciso è stata con molta probabilità dettata dall’esigenza di allargare la platea degli Stati aderenti, la quale sarebbe stata nettamente ridotta dall’aggiunta del termine “democratica” e dall’affermazione dell’indispensabilità di quest’ultimo[2].

In sintesi e con il mero intento di porre uno spunto di riflessione prassico, emergerebbero due questioni di forte attualità: l’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici e l’esibizione degli stessi da parte delle persone nei luoghi pubblici. In tal caso tali tematiche, seppur distinte nel concetto, risultano connesse, appunto, al più ampio diritto di libertà religiosa e precisamente la prima al contenuto negativo della libertà di religione (l’esposizione di simboli religiosi non deve violare il rispetto della libertà religiosa, in ossequio al principio di laicità); mentre al seconda è legata al contenuto positivo della libertà di religione (l’esibizione dei simboli religiosi è pieno esercizio di libertà religiosa, contemperata dall’aspetto negativo della medesima libertà).

Nonostante tale analisi, solo in apparenza lineare e lapalissiana, e i numerosi interventi giurisprudenziali in materia, emerge l’inidoneità dei medesimi interventi a fornire soluzioni a problemi che dovrebbero essere risolti dal Legislatore; il quale dovrebbe sancire un contemperamento tra le due “anime” del diritto alla libertà di religione sino a giungere ad una disciplina congiunta delle due tematiche succitate.

[1] Si riporta di seguito il testo dell’art. 9, nella sua versione ufficiale francese.

  1. Toute personne a droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion ; ce droit implique la liberté de changer de religion ou de conviction, ainsi que la liberté de manifester sa religion ou sa conviction individuellement ou collectivement, en public ou en privé, par le culte, l’enseignement, les pratiques et l’accomplissement des rites.
  2. La liberté de manifester sa religion ou ses convictions ne peut faire l’objet d’autres restrictions que celles qui, prévues par la loi, constituent des mesures nécessaires, dans une société démocratique, à la sécurité publique, à la protection de l’ordre, de la santé ou de la morale publiques, ou à la protection des droits et libertés d’autrui. 

[2] Cfr. Aa. Vv., Libertà religiosa e laicità. Profili di diritto costituzionale, G. Rolla (a cura di), Jovene Editore, Napoli 2009, p.3 e ss.

Dott. Martina Luigi Piero

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