Cassazione, Civile, Sez. 3 Sent. Num. 6593 Anno 2019
Precedenti giurisprudenziali: Cass. n. 18392/2017 e Cass. n. 29315/2017
Fatto
Dopo la morte del padre a seguito di un’operazione al cuore di valvuloplastica mitrale, la figlia, congiuntamente alla madre, si era rivolta al giudice di primo grado per vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente al decesso del parente, causato dall’imperizia dei medici della struttura sanitaria dove il paziente era stato ricoverato per sottoporsi all’intervento.
Secondo la tesi attorea, infatti, esisteva un nesso di causalità tra il decesso del parente e il comportamento tenuto dai medici, rei di aver tenuto una condotta negligente ed imperita.
Il Tribunale di primo grado non aveva ravvisato alcuna colpa nella condotta dei sanitari, ed aveva perciò deciso la causa in senso favorevole alla parte convenuta, escludendo che il decesso del paziente era addebitabile ad una negligenza dell’operato dei medici. E dello stesso avviso era stata successivamente la Corte d’appello che, invocata dalla figlia del defunto, dopo aver esaminato la perizia del consulente tecnico nominato dalla stessa Corte, si è espressa escludendo che il decesso del paziente potesse ricondursi ad un comportamento colposo del personale sanitario dell’ospedale ove lo stesso era stato ricoverato per sottoporsi all’intervento.
I Giudici di secondo grado, in continuità con la decisione del Tribunale, avevano escluso la responsabilità dei medici addebitando la responsabilità del decesso del paziente a complicanze note in relazione all’intervento. Tali complicanze quali ad esempio l’embolia polmonare, l’anuria, l’infarto intestinale, lo shock settico, seppur potevano essere considerati prevedibili, non erano certamente prevenibili. In tal modo la Corte d’Appello aveva escluso la sussistenza di comportamenti imperiti o negligenti da parte dei sanitari, sia in fase di accertamenti pre-operatori, che in fase di trattamento chirurgico e gestione del paziente dopo l’intervento.
La figlia del paziente, vendendosi nuovamente soccombente, non soddisfatta della decisone presa dai Giudici, ritenendo legittima la sua richiesta di risarcimento danni ha proposto ricorso per Cassazione con ben otto motivi di ricorso, di cui tre riferiti al nesso causale.
In particolare con il primo motivo la parte ricorrente lamentava che il Giudice di secondo grado aveva erroneamente considerato corretta l’applicazione dei principi giuridici in materia di responsabilità contrattuale medica fatta dal Tribunale, secondo cui graverebbe sul paziente, cioè sul creditore, e non sul danneggiante la prova del nesso causale.
Con il quinto motivo la ricorrente contestava la decisione della Corte d’Appello nella parte in cui aveva escluso il nesso causale giuridico tra l’inadempimento sanitario (riconosciute anche dalle consulenze tecniche) e le lesioni mortali del paziente.
Con il settimo motivo la ricorrete lamentava il fatto che la Corte d’Appello aveva negato il nesso causale giuridico tra l’inadempimento sanitario e le chances terapeutiche. Sulla base di questa doglianza chiedeva altresì di rinviare la decisione ad altra Corte d’appello così che possa valutare la percentuale di sopravvivenza, guarigione o miglioramento in caso di tempestiva e corretta gestione, anche chirurgica, delle complicanze postoperatorie, riconoscendo e quantificando in tal modo il relativo ristoro del danno da perdita di chances terapeutiche.
Con il sesto motivo la ricorrente lamentava il fatto che la Corte d’Appello non avesse ritenuto inidoneo il consenso informato presentato dalla struttura sanitaria, e conseguentemente avesse escluso la responsabilità di quest’ultima nonostante che il consenso informato mancasse di quei requisiti necessari, chiarezza ed esaustività sui rischi e sulle alternative terapeutiche. La ricorrente aveva, infatti, descritto il modulo di consenso informato come un mero prestampato valido per qualsiasi intervento al cuore, mancando di puntualizzare le percentuali di rischio specifico di morbilità e mortalità in relazione sia al paziente sia all’intervento di valvuloplastica mitrale, mancando di illustrare anche le concrete alternative terapeutiche.
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La decisione della Corte di Cassazione
I Giudici di legittimità interrogati sulla legittimità della pretesa risarcitoria a seguito della morte di un familiare, addebitabile, secondo parte ricorrente, all’imperizia dei medici della struttura sanitaria ove lo sesso era stato ricoverato per sottoporsi all’operazione di valvuloplastica mitrale, si è espressa in senso sfavorevole alla parte ricorrente rigettando il ricorso.
In ordine al primo motivo di ricorso di cui si è fatto cenno sopra – errata valutazione dell’esistenza di un onere probatorio del nesso causale sul creditore anziché sul danneggiante – la Corte si è espressa ritenendo il motivo privo di interesse. Pur ribadendo le consolidate pronunce in tema di nesso casuale, per cui anche in ambito di responsabilità professionale sanitaria, la previsione dell’art. 1218 cod. civ. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui si domanda il risarcimento, evidenzia che nella sua decisione la Corte territoriale aveva escluso a monte che vi era stato un inadempimento da parte dei sanitari della struttura ospedaliera, negando il presupposto stesso della responsabilità contrattuale della struttura, senza necessità, dunque, di affrontare il profilo del nesso causale fra la condotta sanitaria e il decesso del paziente.
In riferimento al quinto e settimo motivo di ricorso – esclusione nesso causale giuridico tra inadempimento sanitario e le lesioni mortali, ed esclusione nesso causale tra l’inadempimento sanitario e chances terapeutiche – la Corte di Cassazione si è espressa riconoscendo la bontà della decisione dei Giudici di secondo grado secondo cui l’accertamento dell’assenza di responsabilità della struttura sanitaria nella produzione dell’evento letale rendeva superflua l’analisi del nesso di causalità tra l’operato dei sanitari e l’evento stesso. Allo stesso modo l’assenza di un profilo di condotta colposa dei medici non consentiva di prendere in considerazione la possibilità di soluzioni alternative che avrebbero consentito un prolungamento o un miglioramento delle qualità della vita del paziente. Infatti, anche il danno da perdita di chances terapeutiche presuppone l’esistenza di una condotta colposa – commissiva od omissiva- che integri la causa del pregiudizio.
Infine, rispetto all’ultimo motivo di ricorso preso in esame in questa sede – inidoneità del consenso informato – la Corte si è espressa circa l’inammissibilità dello stesso rilevando la mancata produzione in giudizio del documento. Infatti, la Corte ha evidenziato che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere di trascrivere il contenuto del documento, in modo da consentire alla Corte stessa di apprezzarne le lamentate genericità e incompletezza, tenuto conto della decisione della Corte territoriale, che aveva avuto modo di apprezzare il linguaggio chiaro e tecnico del documento, contenente una dettagliata descrizione delle varie problematiche connesse alla specifica tipologia dell’intervento, un’esposizione efficace, che utilizza espressioni e descrizioni comprensibili da chiunque.
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