L’attività discrezionale della p.a.

Come è noto, il potere amministrativo rinviene sempre il proprio fondamento nella legge. Ciò significa che questo, essendo subordinato al principio di legalità, non è mai completamente libero, risultando anzitutto vincolato nel fine, in quanto finalizzato al perseguimento dei fini pubblici prestabiliti.

Il concetto di discrezionalità amministrativa, pertanto, viene utilizzato nel diritto amministrativo essenzialmente per descrivere uno dei due possibili moduli di interazione tra l’azione pubblica e la legge. Difatti, allorquando la P.A. è priva di qualsiasi potere di autodeterminazione nella scelta più opportuna si parla di attività vincolata, e ciò proprio per descrivere quella situazione in cui è la legge stessa a determinare in modo puntuale il modus agendi dell’autorità pubblica.

Diversamente, invece, quando la legge si limita ad individuare l’interesse pubblico al cui soddisfacimento è tenuta la P.A., sorgono i presupposti per l’esercizio dell’attività discrezionale dell’Autorità pubblica, cui è rimessa la ricerca del modo migliore per il soddisfacimento dell’interesse pubblico positivamente determinato.

Ad avviso della consolidata dottrina, infatti, la discrezionalità amministrativa consiste nella facoltà di scelta tra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico stabilito dalla legge (Virga), o comunque nel potere di individuare, sulla base di una valutazione di opportunità, il modo migliore per perseguire un fine rispondente alla causa del potere esercitato.

In tal senso, è evidente che anche l’attività discrezionale – al pari dell’attività vincolata – non può mai essere libera, ossia stabilire essa stessa i fini da perseguire, dovendo essere funzionale all’ottimale perseguimento dell’interesse predeterminato dal legislatore. Ne consegue che la maggiore o minore libertà della Pubblica Amministrazione nell’espletamento della propria attività dipende dalla relazione esistente tra l’attività amministrativa e la legge.

Del resto, come è noto, l’attività amministrativa si differenzia dall’attività politica che – diversamente – è diretta alla fissazione degli obiettivi da perseguire in sede amministrativa e che, come tale, è svincolata da fini prefissati che non siano quelli posti dalla Carta costituzionale.

Inoltre, il tema della discrezionalità non deve essere confuso con quello del merito amministrativo che – pur attenendo, come la discrezionalità, all’esercizio del potere a monte –  se ne differenzia nettamente per la sua insindacabilità. Esso, infatti, riguarda le valutazioni in concreto perpetrate dalla P.A., l’opportunità del provvedimento stesso: ossia il nocciolo duro e insindacabile dell’attività amministrativa; diversamente, invece, dall’attività discrezionale e a quella vincolata rispetto alle quali il giudice vanta poteri via via più incisivi.

Oggetto della discrezionalità amministrativa

Ciò precisato, occorre delimitare l’oggetto della discrezionalità amministrativa, così precisando che la facoltà di scelta della P.A. può riguardare vari aspetti del suo operare.

In particolare, essa può riguardare l’an della emanazione di un provvedimento, ovvero il quando, sotto il profilo della individuazione del momento più opportuno dell’intervento programmato. Ancora, può concernere i due diversi aspetti del quomodo, che indica le modalità di esternazione del provvedimento e la facoltà di scegliere quali elementi accidentali inserirvi, ovvero del quid, ossia la determinazione del contenuto che in concreto si palesi più opportuno.

Di rado, la discrezionalità concerne tutti gli aspetti sopra citati e, anche qualora ciò accada, permane in capo alla P.A. il vincolo predeterminato di carattere funzionale in ordine al perseguimento dell’interesse pubblico, atteso che, diversamente, non si potrà più parlare di attività amministrativa discrezionale, bensì di “attività politica”.

Caratteri dell’attività discrezionale

Tanto chiarito, è bene precisare che la Pubblica Amministrazione, nell’esercizio di tale facoltà di scelta, non può prescindere da una comparazione di tutti gli interessi collegati, avendo il dovere di effettuare una ‘ponderazione comparativa’ dell’interesse primario da curare – che è l’interesse pubblico positivamente individuato – con tutti gli altri interessi secondari, che possono essere pubblici, collettivi e privati, cui il primo è collegato.

Classico esempio è costituito dal caso di un edificio di interesse storico od artistico, che si presenti pericolante: nell’esercizio dei suoi poteri di intervento d’urgenza, l’autorità deve tener conto di vari interessi, quali quello alla conservazione dell’edificio, quale valore culturale o turistico, quello all’abbattimento dello stesso per la tutela della pubblica incolumità, quello alla chiusura della zona al traffico cittadino; sicchè, essa opererà la scelta in funzione dell’interesse ritenuto prevalente.

Solo per effetto della ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario, si ritiene possibile conseguire il fine prefissato dal legislatore con il minor sacrificio possibile di tutte le altre posizioni che con esso vengano in qualche modo ad interferire (c.d. principio del minimo mezzo).

Così argomentando, si mette in evidenza che l’attività discrezionale della P.A. consta di due momenti fondamentali:

  • il momento del giudizio, che si concreta nell’individuazione e nell’analisi dei fatti e degli interessi (quello primario e quelli secondari), sulla base di un’istruttoria per la decisione;
  • e quello della scelta (o della volontà), che è quello in cui l’amministrazione, alla luce delle risultanze del giudizio, adotta la soluzione che ritiene più opportuna e conveniente per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico primario.

Tanto nella fase del giudizio, quanto in quella della scelta, l’attività discrezionale della P.A. è guidata dalle regole che la L. n. 241/90 ha posto a fondamento del procedimento amministrativo.

Nel momento del giudizio, infatti, acquista particolare pregnanza la regola stabilita dall’art. 7 della L. n. 241/90, relativamente alla partecipazione al procedimento amministrativo sia dei soggetti privati, sia dei soggetti pubblici: con lo strumento della partecipazione, il privato e le altre pubbliche amministrazioni hanno la possibilità di evidenziare la rilevanza di interessi antagonisti e concorrenti rispetto a quello primario e la sussistenza di soluzioni alternative idonee ad evitare il sacrificio degli interessi del privato nel procedimento amministrativo.

Invero, l’istituto della partecipazione del privato al procedimento pubblico ha subìto un ridimensionamento per effetto della innovativa disposizione recata dall’art. 21 octies, secondo comma, L. n. 241/90, come modificato dalla L. n. 15/05: infatti, alla luce della novella legislativa, una violazione della norma che regola la partecipazione al procedimento dei soggetti interessati non conduce più, secondo l’art. 21-octies, ad una caducazione del provvedimento finale quante volte l’apporto collaborativo dei privati non sarebbe stato in grado di condizionare l’esito dell’emanando provvedimento discrezionale.

Quanto al momento della scelta, invece, assume un ruolo decisivo l’obbligo di motivazione del provvedimento, previsto dall’art. 3 della L. n. 241/90: la motivazione del provvedimento amministrativo discrezionale rappresenta l’unico strumento idoneo ad esplicitare la ponderazione degli interessi svolta dall’Amministrazione e la ragione che ha condotto quest’ultima ad una data soluzione, di cui è espressione il provvedimento finale.

Mettendo in evidenza questo ultimo aspetto, la giurisprudenza ha chiarito che “proprio per dimostrare che l’attività autoritativa sia stata legittimamente esercitata, è necessaria la motivazione del provvedimento, la quale non è altro che l’esplicitazione di come si è svolta l’attività istruttoria e del perché un interesse (quasi sempre l’interesse pubblico) è stato, nella necessaria valutazione di comparazione ponderata, ritenuto prevalente sugli altri interessi (normalmente privati) che sono confluiti nel procedimento”(Cons. Stato, sez. IV, 7 maggio 2007, n. 1971).

In ogni caso, l’attività discrezionale deve essere svolta nel rispetto tanto delle regole di legittimità – ossia delle regole giuridiche che disciplinano l’esercizio del potere e la cui violazione rende il provvedimento illegittimo, e quindi sindacabile dall’Autorità giudiziaria Amministrativa – quanto delle regole di merito, ossia quelle regole metagiuridiche di buona amministrazione normalmente non soggette ad un sindacato giurisdizionale intrinseco che consente al Giudice Amministrativo di sostituirsi alla P.A.

Discrezionalità e giurisdizione

La discrezionalità ha sempre giocato un ruolo decisivo in ordine al problema del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Tradizionalmente, si individuava nella dicotomia attività vincolata–attività discrezionale il criterio per la distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo e, quindi, per l’individuazione del giudice competente a risolvere un’eventuale controversia.

In tal senso, si riteneva che a fronte di un atto vincolato vi fosse una posizione di diritto soggettivo e che, a fronte di un atto discrezionale, si prospettasse una posizione di interesse legittimo.

Al di là della querelle in ordine alla possibilità di ricostruire l’intero nostro sistema di riparto della giurisdizione sulla distinzione tra attività discrezionale e attività vincolata della p.a. – ricostruzione non accolta da gran parte della dottrina (Caringella, De Nictolis, Garofoli, Poli) – la giurisprudenza maggioritaria sembra aver superato il sopra citato orientamento.

In particolare, è stato rilevato che:

  • mentre a fronte di un atto discrezionale dell’Amministrazione si profila normalmente una posizione di interesse legittimo, sempre che non sussista una situazione di carenza di potere;
  • in caso di atto costituente esercizio di un potere vincolato, la posizione è di diritto soggettivo solo nell’ipotesi in cui la legge imponga all’attività amministrativa un vincolo a tutela diretta e specifica di un interesse privato;

viceversa, ove il vincolo sia dettato per il soddisfacimento dell’interesse pubblico, l’atto amministrativo vincolato rappresenta comunque esercizio del potere amministrativo conferito dalla legge per il perseguimento di detto interesse e, quindi, ha la capacità di degradare posizioni di diritto soggettivo in interesse legittimo (Così, Cons. Stato, Ad Plen., 24 maggio 2007,  n. 7).

Un indirizzo interpretativo, questo, da cui si può dedurre che la distinzione tra attività vincolata ed attività discrezionale non risolve in modo sicuro il problema del riparto della giurisdizione tra G.O. e G.A., dal momento che la soluzione a tale problema viene sempre offerta dalla distinzione tra carenza di potere e cattivo uso del potere stesso.

Tuttavia, è bene osservare come il ‘tradizionale’ criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla distinzione attività vincolata-attività discrezionale della p.a. continui a trovare applicazione, in alcuni modelli di sentenze, come ‘regola operazionale’ di riparto, soprattutto in relazione ad alcune fattispecie quali, in particolare, il potere della P.A. di imporre prestazioni patrimoniali a privati (c.d. potere impositivo), le obbligazioni pubbliche aventi ad oggetto somme di denaro erogate a vario titolo in favore dei privato; la materia dell’iscrizione agli albi professionali (Cfr. Cass. civ., sez. Un., Ordinanza 19 aprile 2017, n. 9862).

In effetti, l’esame della giurisprudenza più recente in materia di riparto della giurisdizione, evidenzia una certa utilizzazione della distinzione tra attività discrezionale e vincolata della P.A. soprattutto in ipotesi “di nicchia” non agevolmente risolvibili sulla base dei criteri di riparto più utilizzati elaborati con riferimento alle materie di più frequente esame da parte della giurisprudenza (ad esempio, con riferimento all’applicazione dello sconto obbligatorio sul prezzo dei farmaci previsto dall’art. 13, 1° comma lett. a) del d.l. 28 aprile 2009, n. 39, convertito in l. 24 giugno 2009, n. 77).

Il sindacato giurisdizionale sull’attività discrezionale

Tanto chiarito in tema di riparto, occorre ricordare come il sindacato del G.A. nei confronti dell’azione amministrativa assuma una diversa intensità in funzione del tipo di attività (vincolata o discrezionale) che la P.A. pone concretamente in essere.

Come è noto, infatti:

  • in caso di attività vincolata, al G.A. è consentito verificare, oltre che la legittimità dell’atto, anche la fondatezza della pretesa che il privato vanta nei confronti dell’Amministrazione. Ed invero, dal momento che la P.A. è tenuta al rispetto di un precetto legislativo “vincolante” che fissa compiutamente il modus agendi della stessa Autorità amministrativa, il G.A. può spingere la propria indagine sino a verificare se, applicando il precetto legislativo vincolante, l’istanza pretensiva o la posizione oppositiva del privato sia fondata o meno.
  • Viceversa, nel caso di attività discrezionale, la valutazione del “merito” dell’azione amministrativa è interamente rimessa alla stessa P.A. In questo caso, perciò, il G.A. non ha il potere di sindacare la fondatezza della pretesa che il privato vanta nei confronti dell’Autorità, dovendo il sindacato giurisdizionale attenersi alla valutazione dei meri profili di legittimità dell’azione pubblica.

Come prima anticipato, infatti, l’attività discrezionale della P.A. deve svolgersi nel rispetto sia delle regole di legittimità che di quelle di merito. E poiché di regola, le valutazioni di merito rappresentano la sfera libera dell’azione amministrativa, afferendo alle scelte di opportunità e convenienza riservate unicamente all’Amministrazione, esse sono sottratte al sindacato del Giudice Amministrativo salve le ipotesi tipiche ed eccezionali di giurisdizione di merito.

Pertanto, conformemente a tale impostazione il Legislatore ammette che solo la P.A., in seguito ad una rivalutazione dell’opportunità e della convenienza di un atto amministrativo precedentemente emanato, possa rimuovere lo stesso in sede di autotutela o di tutela giustiziale.

Viceversa, al G.A. è sempre consentito sindacare la legittimità dell’azione amministrativa, al fine di verificare sia il rispetto delle regole stabilite specificamente dalla norma attributiva del potere discrezionale, sia la conformità dell’azione pubblica ai principi che governano, in generale, l’esercizio del potere pubblico (così come ricavabili tanto dalla Costituzione, quanto dalle diverse disposizione con cui il Legislatore ordinario ha inteso disciplinare l’azione amministrativa, fra le quali riveste particolare importanza la L. n. 241/90).

Ne consegue che l’accertamento del corretto perseguimento dell’interesse pubblico può avvenire solo attraverso un sindacato estrinseco che consente di verificare il rispetto dei parametri di legittimità. Al riguardo, infatti, l’area delle valutazioni insindacabili è stata progressivamente ridotta:

  • sia ad opera dal legislatore che, con la Legge n. 241/90, ha codificato i principi di economia ed efficacia trasferendo gli stessi dal novero delle regole meta-giuridiche a quelle delle norme di legge la cui violazione determina eccesso di potere e/o violazione di legge;
  • sia ad opera della giurisprudenza che ha sottratto al merito alcuni ambiti come la discrezionalità tecnica (cfr. infra).

Differenza tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica

Per molto tempo la discrezionalità tecnica è stata assimilata alla discrezionalità amministrativa, ritenendosi che questa fosse espressione delle scelte di opportunità e convenienza rese dall’Amministrazione nell’esercizio del potere conferitole dalla legge.

In tal senso, si sosteneva che la discrezionalità tecnica afferisse al merito dell’azione amministrativa, sicché se ne ricavava una sostanziale insindacabilità giurisdizionale di tutti gli atti adottati dalla P.A. nell’esercizio della discrezionalità tecnica, ritenendo, dunque, che il controllo giurisdizionale dovesse essere limitato all’ambito estrinseco della logicità-ragionevolezza delle decisioni amministrative.

Conseguentemente, si riteneva che il G.A. potesse solamente rilevare quei vizi di legittimità che si manifestavano per il tramite delle figure dell’eccesso di potere.

Tale assimilazione, a ben vedere, prendeva le mosse dal concetto di ‘riserva’ in favore della P.A. che impediva al giudice amministrativo di sostituirsi all’amministrazione al fine di verificare il corretto esercizio del potere.

Ed invero, secondo l’impostazione classica, la discrezionalità tecnica – al pari di quella amministrativa – postulando apprezzamenti che la legge riserva alla sola P.A, era anch’essa da ritenersi espressione di un potere autoritativo riservato alla P.A.

I due concetti, invece, sono assai diversi.

Ed invero, ricorre la discrezionalità tecnica quando l’esame di fatti o di situazioni rilevanti per l’esercizio del potere pubblico necessiti del ricorso a cognizioni tecniche o scientifiche di carattere specialistico.  Pertanto, nell’esercizio della discrezionalità tecnica la P.A. compie una valutazione di fatti alla stregua di canoni scientifici e tecnici, senza svolgere alcuna comparazione tra l’interesse pubblico primario e gli interessi secondari al fine di individuare la soluzione più opportuna per l’interesse da perseguire (come invece avviene in caso di discrezionalità amministrativa c.d. “pura”).

Cosicchè, una volta accertata la situazione nel senso voluto dalla norma, la P.A. è tenuta al comportamento previsto.

Esempi di discrezionalità tecnica sono costituiti dalla verifica del grado di preparazione di un candidato ad un concorso, oppure dall’accertamento del grado epidemico di una malattia, oppure, ancora, dalla valutazione del pregio artistico di un monumento o di un’opera cinematografica.

Tra la “discrezionalità amministrativa” e la “discrezionalità tecnica”, perciò, vi è una diversità concettuale di fondo:

  • mentre la discrezionalità amministrativa consta sia del momento del giudizio (nel quale si acquisiscono e si esaminano i fatti), che del momento della scelta (nel quale si compie una sintesi degli interessi in gioco e si determina la soluzione più opportuna);
  • la discrezionalità tecnica, viceversa, contiene il solo profilo del giudizio, risolvendosi soltanto in una analisi di fatti, sia pure complessi, ma non di interessi.

Chiarito questo aspetto, non si dubita più che il G.A. possa conoscere direttamente e pienamente i fatti posti a base della decisione finale potendo valutare la correttezza intrinseca dei giudizi tecnici.

L’applicazione più stringente del principio della piena tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della P.A. ha determinato un controllo più ampio sui giudizi tecnico-valutativi posti in essere dai pubblici poteri al fine di consentire al giudice, in quanto peritus peritorum, una cognizione estesa al fatto e alla correttezza del procedimento seguito dall’amministrazione nell’emanazione del provvedimento.

Tale impostazione è peraltro avvalorata dalla introduzione, nell’ambito del processo amministrativo di legittimità, della Consulenza Tecnica Preventiva, ossia di uno strumento fondamentale per consentire al Giudice di verificare la correttezza dell’operato della P.A. sotto il profilo del procedimento e degli esiti, potendo ripetere le operazioni e sottoporle ad indagini, la cui assenza, in passato ha costituito un forte argomento a sostegno dell’inammissibilità del sindacato intrinseco.

Tuttavia, riconosciuto il sindacato sulla discrezionalità tecnica, la giurisprudenza si è interrogata sul tipo di controllo, forte o debole, che poteva essere effettuato dal giudice amministrativo.

Al riguardo, la giurisprudenza prevalente si è orientata nel senso dell’inammissibilità di un sindacato di tipo forte, in quanto il compito del giudice nel valutare la legittimità del provvedimento amministrativo sarebbe esclusivamente di verificare se tale atto sia espressione di un potere esercitato in modo conforme alla norma che lo attribuisce. In tal senso, si ritiene che il controllo giudiziale intrinseco su provvedimenti espressione di discrezionalità tecnica dell’amministrazione,  debba essere di tipo ‘debole’.

Così, una volta accertati i fatti e verificato l’iter logico-valutativo posto in essere dalla pubblica amministrazione, sulla base di regole tecniche e di buona azione amministrativa, il giudice, se ritiene tali valutazioni corrette, ragionevoli, proporzionate ed attendibili, non deve esprimere propri convincimenti o compiere autonome scelte.

Come è noto, infatti, non è consentito all’autorità giudiziaria di sostituirsi ad un potere già esercitato, potendo questa “ solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della conformità a parametri tecnici, che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato” (Cfr. Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 1274/2010).

La tesi del sindacato “debole” ha trovato pieno accoglimento da parte della giurisprudenza. Il Consiglio di Stato ha affermato, al riguardo, che “(…)al giudice non è certamente concesso un potere di sostituzione del proprio giudizio a quello dell’amministrazione (…). Ne segue, altresì, che il provvedimento deve reputarsi legittimo quando il giudizio tecnico (di applicazione del concetto giuridico indeterminato), anche a prescindere dalla intrinseca e sicura esattezza, è obiettivamente attendibile: ossia quando in una ragionevole percentuale di casi conduce ad un risultato corretto” (Cons. Stato, sent. 829/2006).

Tanto chiarito, occorre precisare alcuni ulteriori concetti.

Ed invero, può altresì accadere che, dopo l’analisi dei fatti condotta nell’esercizio della discrezionalità tecnica, la P.A. rimanga libera di individuare il provvedimento più opportuno per il perseguimento dell’interesse pubblico.

In tale ipotesi, si sostiene che alla discrezionalità tecnica si accompagni la discrezionalità amministrativa, dando luogo alla c.d. “discrezionalità mista”, intesa concettualmente come la sintesi dei due momenti discrezionali che caratterizzano l’intera azione amministrativa. Costituiscono esempi di tale potere l’accertamento del pericolo di crollo di un edificio, che è presupposto per l’adozione di vari provvedimenti di edilità, oppure l’accertamento del grado epidemico di un’infezione bovina, sulla base del quale possono essere ordinati l’abbattimento o l’isolamento dei capi infetti.

Quando, invece, l’accertamento di una situazione di fatto, cui la legge ricollega determinate conseguenze, richiede l’applicazione di norme rigide, le quali  non consentano di ravvisare soluzioni differenti o margini di variabilità nelle relative valutazioni, la PA pone in essere un semplice accertamento tecnico.

L’accertamento tecnico, pertanto, comporta l’applicazione di regole con elevato margine di certezza, e – dunque – si differenzia rispetto alla discrezionalità tecnica difettando dell’elemento dell’opinabilità delle regole applicate. In tal senso, infatti, l’accertamento è sempre stato ritenuto sindacabile da parte del Giudice Ordinario perché non si tratta di esercizio del potere amministrativo, ma dell’esame di fatti semplici, incapace di innescare l’affievolimento della posizione di diritto soggettivo ad interesse legittimo. Esempi di tale tipo di valutazioni sono dati dalle verifica del grado alcolico di un liquore, dall’accertamento della composizione chimica di una data sostanza o dalle misurazioni.

 

Avv. Cusumano Celine

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