Per quello che interessa in questa sede, l’oggetto della domanda ha due distinti contenuti, il provvedimento giurisdizionale che l’attore chiede al Giudice di emettere (cd. petitum immediato), e il bene della vita di cui si chiede l’attribuzione (cd. petitum mediato).
Quando l’oggetto della domanda e, in particolare, il bene di cui si chiede il riconoscimento, è una somma di denaro la stessa, generalmente, viene quantificata con l’indicazione del quantum effettivamente richiesto.
Ciò posto occorre valutare se, qualora vi sia incertezza sull’esatta determinazione del quantum ovvero lo stesso risulti indeterminato o generico, la domanda giudiziale possa ritenersi nulla.
La giurisprudenza si è più volte espressa sul punto e, in particolare, una recente sentenza tornata a pronunciarsi sull’argomento, ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 164, IV co, Cpc, la citazione deve considerarsi nulla solo se è omesso o risulta assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda, requisito stabilito dal n. 3) del III co. dell’art. 163 Cpc ovvero se manca l’esposizione dei fatti prefigurata al n. 4) del III co. dell’art. 163 Cpc.
A tal proposito, la Corte di Cassazione, debitamente spiega <<che la declaratoria di nullità della citazione per omissione o assoluta incertezza del petitum postula una valutazione da compiersi caso per caso, nel rispetto di alcuni criteri di ordine generale, occorrendo, da un canto, tener conto che l’identificazione dell’oggetto della domanda va operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, dall’altro, che l’oggetto deve risultare “assolutamente” incerto; in particolare, quest’ultimo elemento deve essere vagliato in coerenza con la ragione ispiratrice della norma che impone all’attore di specificare sin dall’atto introduttivo, a pena di nullità, l’oggetto della sua domanda, ragione che, principalmente, risiede nell’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora che di offrire al Giudice l’immediata contezza del thema decidendum); con la conseguenza che non potrà prescindersi, nel valutare il grado di incertezza della domanda, dalla natura del relativo oggetto e dalla relazione in cui, con esso, si trovi eventualmente la controparte (se tale, cioè, da consentire, comunque, un’agevole individuazione di quanto l’attore richiede e delle ragioni per cui lo fa, o se, viceversa, tale da rendere effettivamente difficile, in difetto di maggiori specificazioni, l’approntamento di una precisa linea di difesa)>> (Cass. n. 1681/2015).
In altri termini, la nullità della domanda sussiste solo quando – a seguito dell’indagine del Giudice che, peraltro, non deve essere limitata alla parte di essa destinata a contenere le conclusioni, ma va estesa anche alla parte espositiva – l’individuazione del petitum non sia possibile neppure attraverso il predetto esame complessivo dell’atto introduttivo del giudizio.
Venendo ai giorni nostri, con due sentenze pubblicate il medesimo giorno, la Corte di Cassazione ha avuto modo di affrontare due questioni abbastanza ricorrenti nella prassi giudiziaria.
La prima atteneva ad una richiesta di <<condanna a corrispondere le somme di cui (il convenuto) fosse risultato debitore>>, per il quale davanti al Giudice di legittimità, veniva contestata la violazione e falsa applicazione dell’art. 163, comma 2, n. 3) e n. 4) Cpc e, in particolare, <<della genericità e indeterminatezza della domanda che non sarebbe stata meglio definita neanche in sede di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, avendo parte attrice semplicemente concluso “come da atto di costituzione in atti”, né in comparsa conclusionale, avendo meramente confermato le precisate conclusioni>>.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22371, pubblicata in data 26.09.2017, dopo aver premesso come risulta incensurabile nel giudizio di legittimità, l’interpretazione della domanda giudiziale, siccome accertamento riservato al Giudice di merito, non sindacabile se motivato in maniera congrua e adeguata, precisa come <<ai fini di una corretta interpretazione della domanda, il Giudice di primo grado è tenuto a interpretare le conclusioni contenute nell’atto di citazione, alle quali si è riportato l’attore in sede di precisazione delle conclusioni, tenendo conto della volontà della parte quale emergente non solo dalla formulazione letterale delle conclusioni assunte nella citazione, ma anche dall’intero complesso dell’atto che le contiene, tenendo conto non solo delle deduzioni e delle conclusioni inizialmente tratte nell’atto introduttivo, ma anche della condotta processuale delle parti, nonché delle precisazioni e specificazioni intervenute in corso di causa>>.
Ciò posto, precisa come <<l’onere di determinazione dell’oggetto della domanda è validamente assolto anche quando l’attore ometta di indicare esattamente la somma pretesa dal convenuto, a condizione che abbia però indicato i titoli posti a fondamento della propria pretesa, ponendo in tal modo il convenuto in condizione di formulare le proprie difese>>.
Nel caso di specie, la richiesta di pagamento delle somme di cui il convenuto fosse risultato debitore all’esito del rendiconto, non è stata ritenuta motivo di nullità dell’atto introduttivo e, pertanto, alcuna violazione dell’art. 163 Cpc, ma neppure lesione del principio del contraddittorio, ci sarebbe stata, anche in virtù delle difese approntate dalla controparte.
L’altro caso, deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 22330, pubblicata sempre in data 26.09.2017, atteneva ad una richiesta di risarcimento danni specificata nel suo ammontare, ma contenente anche la clausola <<ovvero quella somma che verrà determinata e quantificata nel corso del giudizio, o ritenuta di giustizia… >>.
All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale liquidava una somma maggiore rispetto a quella specificamente indicata nella domanda introduttiva ma, sul gravame proposto, la Corte d’Appello riduceva l’importo nei limiti della domanda, ritenendo come il primo Giudice fosse incorso nel vizio di ultrapetizione.
Sul ricorso per cassazione, il Giudice di legittimità evidenzia come <<in materia di interpretazione della domanda e delle clausole comunemente utilizzate negli atti processuali, dirette a non precludere pronunce attributive di un “quantum” maggiore di quello indicato in domanda, questa Corte ha individuato un preciso “discrimen” tra quelle clausole cui deve riconoscersi un significato giuridicamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto della lite -in ordine al quale deve essere verificata la corrispondenza del bene attribuito rispetto a quello che la parte aveva chiesto ed invece quelle clausole inidonee a definire l’oggetto della pretesa, in quanto espressione di una mera formula stilistica e che non intendono incidere sui limiti quantitativi del “petitum”>>.
Ciò posto, nell’accogliere il ricorso del danneggiato, la Corte precisa come <<nella originaria incertezza sulla esatta determinabilità del “quantum”, la indicazione di un importo chiesto a titolo risarcitorio, se accompagnata dalla formula “o la somma maggiore o minore ovvero altra somma ritenuta di giustizia”, viene di regola a manifestare in senso ottativo la volontà della parte diretta ad ottenere quella somma che risulterà spettante all’esito del giudizio, senza porre limitazioni al potere liquidatorio del Giudice>>.
Pertanto, la richiesta di liquidazione del danno con formule di salvaguardia del tipo “secondo quanto sarà ritenuto di giustizia” o “eventuale maggiore misura”, non pone limitazioni al potere del Giudice, il quale all’esito della fase istruttoria, ben potrà liquidare un importo maggiore rispetto a quello specificamente richiesto, a condizione però che, una volta che l’istruttoria ha accertato il dovuto, la stessa venga riformulata in sede di precisazione delle conclusioni, altrimenti si risolverebbe in una mera clausola di stile (cfr.: Cass. n. 6350/2010. Inoltre si veda: Cass. n. 12724/2016, per cui, <<la formula “somma maggiore o minore ritenuta dovuta” o altra equivalente, che accompagna le conclusioni con cui una parte chiede la condanna al pagamento di un certo importo, non costituisce una clausola meramente di stile quando vi sia una ragionevole incertezza sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, mentre tale principio non si applica se, all’esito dell’istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l’atto introduttivo e la formula ivi riprodotta, perché l’omessa indicazione del maggiore importo accertato evidenzia la natura meramente di stile dell’espressione utilizzata>>).
Nel caso concreto, tuttavia, la voce di danno implicava l’applicazione del criterio di liquidazione equitativa ex art. 2056 c.c., <<pertanto, il ricorso alla clausola di salvaguardia della liquidazione del danno nella “eventuale maggiore misura” rispetto alla somma indicata in citazione, trovava quindi piena giustificazione proprio nella palesata originaria ed oggettiva incertezza determinativa del “quantum” da commisurarsi al danno non patrimoniale… incertezza originaria, peraltro, non è venuta meno a seguito della istruttoria che, quanto al danno non patrimoniale da perdita della relazione parentale, consente di individuare ed accertare i fatti rilevanti ai fini della applicazione dei criteri di “aestimatio” del danno, ma non fornisce anche specifiche indicazioni sulla quantificazione dello stesso>>, pertanto, nello specifico caso, la Corte ha ritenuto che anche il reiterare la clausola di salvaguardia in sede di precisazioni delle conclusioni in primo grado, <<manteneva la sua originaria giustificazione volta a consentire al Giudice di procedere alla valutazione estimatoria senza apposizione di vincoli limitativi>>.
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