L’autonomia dell’istanza di fallimento rispetto alla risoluzione del concordato preventivo

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L’omologazione del concordato preventivo rende improcedibili le istanze di fallimento originariamente presentate. A volte, tuttavia, accade che il debitore non sia più in grado di adempiere regolarmente le obbligazioni assunte con la proposta di concordato, con la conseguenza che lo stato di insolvenza può presentarsi nuovamente sotto diversa forma. Tale circostanza può riscontrarsi sia laddove il debitore non sia riuscito a realizzare ricavi sufficienti per eseguire il piano in continuità aziendale, sia qualora la liquidazione dei beni offerti al ceto creditorio non abbia consentito il raggiungimento della percentuali di soddisfacimento assicurate nel piano concordatario. In tali ipotesi, l’inadempimento del patto concordatario è soggetto alle comuni regole in tema di responsabilità e, pertanto, legittima i creditori ad agire nei confronti del proprio debitore, potendo anche chiederne il fallimento omisso medio.

Indice:

  1. I fatti di causa
  2. L’interpretazione delle S.U. della Cassazione
  3. Conclusioni

I fatti di causa

La Curatela fallimentare ha proposto due motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n.394/16, comunicata il 16 dicembre 2016, con la quale la Corte d’Appello di Campobasso, in accoglimento del reclamo proposto ex art. 18 l.fall. dalla società debitrice – già ammessa a procedura di concordato preventivo in continuità aziendale, omologato nel 2013 – ha revocato la sentenza n.12/2016 con cui il Tribunale di Campobasso ne aveva dichiarato, su istanza del Pubblico Ministero, il fallimento.

Ha in particolare osservato la Corte d’Appello che: “Il Tribunale aveva ritenuto che la società si trovasse in stato di insolvenza a seguito dell’incapacità di far fronte alle obbligazioni derivanti dal concordato preventivo omologato (a sua volta derivante dall’evidente incapienza dell’attivo concordatario realizzato e realizzabile), senza tuttavia porsi il problema della necessità della preliminare risoluzione del concordato in corso di esecuzione, così come prevista dall’art. 186 l.fall.”.

Diversamente da quanto accadeva nell’assetto normativo precedente al d.lgs. 5/06 ed al d.lgs. 169/07 – allorquando il concordato preventivo inadempiuto doveva essere dichiarato risolto dal Tribunale d’ufficio o su iniziativa del commissario giudiziale ex art. 137, richiamato dall’art. 186 l.fall. – nella disciplina successiva, qui applicabile, il concordato preventivo inadempiuto non poteva essere risolto se non su iniziativa dei creditori e, senza previa soluzione, non poteva essere dichiarato direttamente il fallimento del debitore in applicazione dei presupposti generali di cui agli art. 5 e 6 l.fall.

A detta della Corte di Appello ammettere la possibilità di dichiarazione di fallimento senza previa risoluzione del concordato preventivo omologato comportava la sostanziale elusione (su istanza di un creditore o, come nella specie, del Pubblico Ministero) degli effetti negoziali di quest’ultima procedura, così come prodottosi all’esito di una decisione maggioritaria e vincolante per l’intero ceto creditorio. In questo senso doveva intendersi quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n.9935/15, secondo cui: “l’omologazione del concordato rende improcedibili le istanze di fallimento già presentate e rimuove lo stato di insolvenza, rendendo possibile la presentazione di nuove istanze solo per fatti sopravvenuti o per la risoluzione o l’annullamento del concordato”, mentre nessun elemento di segno contrario poteva trarsi dalla sentenza della Corte Costituzionale n.106/04, in quanto emanata prima della riforma normativa, appunto allorquando era previsto che il concordato doveva essere dichiarato risolto dal Tribunale ancor prima (come sarebbe stato poi stabilito) che su ricorso dei creditori;

Sempre a detta della Corte di Appello molisana si sarebbe avuto un esito diverso se qualora la curatela avesse dato prova (il che non era avvenuto) della chiusura della fase esecutiva del concordato e della dichiarazione, da parte del giudice delegato, dell’impossibilità del suo regolare adempimento.

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L’interpretazione delle S.U. della Cassazione

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con l’attesa pronuncia del 14 febbraio 2022, n. 4696, si è, finalmente, espressa sulla possibilità per il debitore concordatario di essere dichiarato fallito nell’ipotesi di inadempimento di un concordato preventivo omologato, senza l’obbligo di una preventiva dichiarazione di risoluzione dello stesso.

Infatti, a detta degli ermellini: “nella disciplina della Legge Fallimentare risultante dalle modificazioni apportate dal D.Lgs. n. 5 del 2006 e dal D. Lgs. n. 169 del 2007, il debitore ammesso al concordato preventivo omologato che si dimostri insolvente nel pagamento dei debiti concordatari può essere dichiarato fallito, su istanza dei creditori, del P.M. o sua propria, anche prima ed indipendentemente dalla risoluzione del concordato L. Fall., ex art. 186”.

Il thema in esame non riveste carattere di novità assoluta, in quanto, la Cassazione si era espressa in merito con due ordinanze del 2017 (n. 17703/17 e n. 29632/17) a mezzo delle quali aveva statuito che la dichiarazione di fallimento sarebbe potuta intervenire nei casi in cui il creditore istante avesse fatto valere il proprio credito non nella misura originaria, ma in quella falcidiata con la proposta concordataria omologata.

L’indirizzo giurisprudenziale formatosi non trovava però riscontro in parte della dottrina[1] e, in alcuni casi, dalla giurisprudenza di merito, secondo le quali la possibilità di fallimento “omisso medio” avrebbe trovato un ostacolo insormontabile nella specialità della disciplina concordataria rispetto a quella della procedura concorsuale maggiore in quanto l’effetto negoziale  vincolante per tutti i creditori anteriori al deposito del ricorso per concordato preventivo, determinando il ritorno in bonis del debitore, impedirebbe la possibilità di dichiarare il fallimento prima della risoluzione del concordato ex art. 186 L.F.

La Suprema Corte, con la pronuncia del 14.02.2022, ha confermato l’indirizzo interpretativo del 2017 (sopra citato), affermando come anche il richiamo alla connotazione squisitamente negoziale dell’istituto del concordato preventivo non sarebbe sufficiente a giustificare le tesi dottrinali formatesi nel tempo.

A detta della Cassazione, infatti, anche se le riforme degli anni duemila hanno accentuato il carattere disponibile dell’istituto, è altrettanto vero che la prevalenza dell’elemento negoziale non può non risultare dirimente quando emerga che il concordato omologato non appare più attuabile poiché il debitore non può più compiutamente adempierlo, trovandosi in una situazione del tutto assimilabile a quella di insolvenza.

Nel caso in esame, il rapporto tra risoluzione e fallimento muove dal contesto della post-omologazione, tenuto ben presente che, con il decreto di omologazione la procedura di concordato preventivo – semplicemente – “si chiude” (cfr. art. 181 L. Fall.).

La Suprema Corte osserva che l’avvenuta omologazione, la chiusura della procedura concordataria e l’accesso del debitore alla fase squisitamente esecutiva del piano concordatario comportano l’applicazione non già delle regole di coordinamento delle disposizioni fallimentari, ma dei principi generali di responsabilità che includono l’obbligo di valutare se dalla non corretta esecuzione dell’accordo omologato possano trarsi elementi di insolvenza e, quindi, si debba procedere alla dichiarazione di fallimento.

A detta degli Ermellini, pertanto, non è dato comprendere il motivo per il quale se i creditori anteriori riacquistano piena legittimazione ad agire contro il debitore per ottenere l’esecuzione del patto concordatario, non lo possano fare con tutti i mezzi consentiti dalla legge, ivi compresa l’istanza di fallimento.

Proseguendo, gli Ermellini sottolineano che, anche laddove l’iniziativa fallimentare possa, talvolta, apparire inutile ed antieconomica, in ogni caso occorre valutare l’interesse dei creditori a bloccare l’assunzione di nuove obbligazioni da parte del debitore, poiché le suddette obbligazioni godrebbero necessariamente del rango prededuttivo nel fallimento successivo, aggravando le passività ed impedendo, di fatto, l’adempimento corretto di quanto proposto nel piano.

L’impossibilità di esecuzione del concordato può qualificarsi come “una “seconda” insolvenza, rimanendo l’insolvenza quella stessa che ha dato inizio alla procedura concordataria e che, all’esito di questa, si manifesta in forma addirittura aggravata dall’incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni pur nelle più favorevoli modalità ed entità concordate. Ciò, a maggior ragione, in considerazione del fatto che l’omologazione non comporta di per sé novazione dell’obbligazione anteriore, quanto soltanto il diverso e più circoscritto effetto della parziale inesigibilità del credito”.

Degna di nota, infine, appare la posizione assunta dalla Cassazione in merito alla pretesa di rinvenire nel Codice della Crisi e dell’Insolvenza norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare, oggi ancora vigente.

Ad oggi, infatti, il C.C.I.I., non è ancora entrato in vigore e, di conseguenza, non è può applicarsi al caso de quo. La Suprema Corte, richiamando la sentenza n. 12476/20, ha ribadito il principio secondo cui il ricorso alle norme del CCII come fonte interpretativa può sì ammettersi “solo se si possa configurare un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”, circostanza non sussistente nell’ipotesi in esame.

Sulla base delle argomentazioni sopra richiamate, la Suprema Corte giunge all’enunciazione del principio di diritto sopra richiamato, secondo cui, in linea di principio, la possibilità di dichiarare il fallimento, anche senza risoluzione o annullamento, non subisce alcuna restrizione, in ragione della eterogeneità delle offerte concordatarie oggi consentite dall’ordinamento.

Neppure il ricorso alla via interpretativa, fondata su quanto previsto nel C.C.I.I, consentirebbe, dunque, di introdurre nell’ordinamento una condizione di procedibilità che, per le ragioni indicate, non è ad oggi rinvenibile.

Conclusioni

Durante la pendenza della procedura di concordato preventivo e sino all’omologazione il creditore può presentare istanza di fallimento solo nei casi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180, legge fall. e cioè rispettivamente quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato. Dopo l’omologazione del concordato il creditore, lo stesso debitore o il P.M. può presentare istanza di fallimento in caso di inadempimento o mancata attuazione del piano, a prescindere dalla richiesta di risoluzione o annullamento del concordato.

Se il fallimento è stato dichiarato entro l’anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento del piano concordatario, il creditore può chiedere l’ammissione del proprio credito allo stato passivo dell’intero credito. Se, invece, il fallimento è stato dichiarato dopo l’anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento del piano concordatario, il creditore può chiedere l’ammissione allo stato passivo del proprio credito nella misura falcidiata dal concordato.

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Note:

[1] Cfr. N. Lucarelli, “Fallimento omisso medio inamissibile” in Altalex, 01.03.2019.

Sentenza collegata

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Avv. Nicola Lucarelli

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