Tribunale di Genova Ordinanza 2 aprile 2014
Giudice Basilico.Ric.XX;Res.YY cooperativa Srl
Lavoro cooperativo-Tutela reintegratoria-Tutela risarcitoria-Condizioni di applicabilità.Nuovo art.18 –Insussistenza del fatto contestato- Nozione
Nel vigente assetto normativo interno all’art. 18 St., l’esistenza del rapporto associativo condiziona soltanto l’applicazione della tutela ripristinatoria; quella di natura economica, garantita dalle disposizioni dei commi quinto, sesto e – in parte qua- settimo, opera invece indipendentemente dalla prima.
Nella definizione del concetto espresso dalla norma dell’art. 18, quarto comma, deve assegnarsi all’enunciato “fatto contestato” una portata non solo limitata alla materialità della condotta e dell’evento, ma estesa anche agli altri elementi che ne connotano la rilevanza disciplinare: l’antigiuridicità, l’attitudine lesiva degli interessi aziendali, l’elemento soggettivo; conseguentemente, si ha insussistenza del fatto contestato sia quando la condotta non è stata posta in essere dal lavoratore sia quando, ad esempio, essa è scriminata da circostanze esimenti o risulti priva di offensività giuridica o ancora manchi della necessaria adesione psicologica; né basta la divergenza della fattispecie accertata dall’addebito in un singolo elemento per negarne l’antigiuridicità e la rilevanza disciplinare; al contrario, una volta che sia dimostrata l’illiceità o l’illegittimità della condotta e la contestazione disciplinare risulti sufficiente a consentire al lavoratore di fare valere le proprie difese, non v’è motivo per escludere automaticamente l’esistenza del giustificato motivo o della giusta causa del recesso.
( massima redazionale)
TESTO DELLA ORDINANZA
Il Giudice
sciogliendo la riserva, ha emesso la seguente ordinanza.
Con ricorso depositato 1’11.10.2013 XX ha contestato la validità e la legittimità del licenziamento per giusta causa che gli è stato intimato il 3.5.2013 da YY cooperativa società a r.l. per ragioni di carattere disciplinare. Nella circostanza è stata disposta anche la sua esclusione da socia, per gli stessi motivi.
La ricorrente ha contestato l’esistenza effettiva del vincolo associativo e la conseguente irrilevanza della delibera di esclusione ai fini del suo diritto alla reintegra nel posto di lavoro, con riferimento al disposto vigente dell’art. 2 l. 142/2001.
Il rapporto associativo.
In generale, in materia di società cooperative di produzione e lavoro, “ove la delibera di esclusione del socio si fondi esclusivamente sull’intimato licenziamento per giusta causa, trova applicazione, in forza del rinvio operato dall’ art. 2 della legge n. 142 del 2001, l’ art. 18 dello statuto dei lavoratori; ne consegue che, l’illegittimità del licenziamento comporta anche quella della delibera di esclusione del socio e il ripristino del rapporto associativo” [Cass., sez. lav., 6 agosto 2012, n. 14143].
Sulla base di questa lettura della norma di legge, pertanto, la perdita della qualità di socia della ricorrente non sarebbe di ostacolo al godimento della tutela reintegratoria, unica riconosciuta dal testo previgente dell’art. 18 1. 300/70. Questa conclusione si presta a perplessità soprattutto nei casi in cui non sia stata impugnata, insieme col licenziamento, la delibera di esclusione. E’ peraltro discutibile il fatto che i limiti tracciati dalla norma dell’art. 1, comma 47, 1. 92/2012 consentano attualmente di proporre un’azione inerente la legittimità della delibera di esclusione in questa fase della controversia sul licenziamento.
In ogni caso, la contestazione sul rapporto associativo grava la convenuta di provarne la genuinità [Cass., sez. lav., 8 febbraio 2011, n. 3043].
La ricorrente ha asserito di essere mai stata messa in condizione di partecipare alle assemblee sociali ed agli altri incontri partecipati dagli associati, di non avere avuto lo statuto né il regolamento interno della cooperativa, di non avere mai ricevuto utili o dividendi. La convenuta non ha contestato queste singole circostanze. Nella propria memoria di costituzione si è limitata a qualificare come genuina l’associazione della ricorrente.
Nell’interrogatorio libero costei ha riconosciuto la propria sottoscrizione in calce ai moduli precompilati di domanda di ammissione a socia del 26.6.211 [all. 3-4 mem.]; ha però negato che lo statuto sociale ed il regolamento interno – di cui avrebbe “preso conoscenza” stando agli atti – le siano stati consegnati, aggiungendo di non ricordare di averli visti.
Nel primo di questi due documenti si dà atto della sottoscrizione da parte della ricorrente di due quote di capitale nominale, a titolo di conferimento, e dell’impegno della società al rimborso “previa richiesta scritta, dopo l’approvazione del bilancio dell’esercizio in cui il rapporto sociale si interrompe”. Il 14.5.2013 la ricorrente ha impugnato lettera di licenziamento e delibera di esclusione da socia, rivendicando ogni spettanza anche a titolo risarcitorio. Ad oggi non consta che le sia stato corrisposto il TFR né restituita la quota di conferimento.
Nei limiti consentiti dalla prima fase del rito dell’art. 1 legge 92/2012 il rapporto associativo risulta privo dei tratti essenziali che lo rendono genuino: non è contestato il fatto che ella non abbia mai partecipato a riunioni e, tanto meno, alle assemblee, di persona o per delega; lo stesso vale per la ripartizione dei dividendi; al riguardo, non sono dati i criteri seguiti nella gestione sociale per il conseguimento dello scopo mutualistico (art. 2545 c.c.).
Queste violazioni sono di ostacolo al coinvolgimento del socio lavoratore nella vita dell’ente. Senza tale coinvolgimento egli non può vivere con consapevolezza la qualità stessa di socio e tanto meno può, di conseguenza, rendersi partecipe delle sorti del suo andamento economico. Di queste carenze dà conferma il fatto che la cooperativa, non avendo restituito la quota di conferimento, neppure abbia indicato tempi e modi con cui intenderebbe provvedervi, fermo restando che eventuali condizioni sospensive alla liquidazione si porrebbero in contrasto col disposto dell’art. 2535, terzo comma, c.c. .
La convenuta ha così mancato di fornire prova adeguata del fatto che le prestazioni assegnate alla ricorrente si siano svolte in conformità con gli scopi istituzionali, mutualistici della società. Le sue dimensioni, il numero dei soci pari ad alcune migliaia – su cui la difesa resistente si è soffermata anche nella discussione orale della causa – non sono motivo di per sé solo sufficiente a contraddire questa conclusione. Il rilievo economico e dimensionale della società portano se mai a presumere che essa sia dotata di prassi e meccanismi ormai consolidati per favorire la partecipazione del personale alle proprie vicende. Di conseguenza, dovrebbe esserne ancora più agevole la dimostrazione.
Per effetto dell’indimostrata genuinità del rapporto associativo, si rende possibile sindacare la domanda per l’applicazione dell’art. 18, quarto comma, 1. 300/70 (nel testo modificato dall’art. 1 1.92/2012).
Va ricordato che l’art. 21. l. 42/2001 fa rinvio al testo previgente dello stesso art. 18, norma che prevedeva la reintegra nel posto di lavoro come sola conseguenza della declaratoria d’illegittimità del licenziamento. Con tale rinvio il legislatore aveva inteso evidentemente configurare una speciale relazione di pregiudizialità tra i due diversi rapporti contrattuali delineati con l’art. 1, terzo comma, l. 142/2001.
Soltanto rispetto all’esercizio del diritto alla reintegra il venire meno del rapporto associativo aveva efficacia ostativa; non poteva invece esservi pregiudizialità tra la conservazione della qualità di socio e l’eventuale diritto del lavoratore al risarcimento del danno. Non a caso la norma non opera analogo rinvio alla norma dell’art. 8 1. 604/66.
Tutto ciò induce a ritenere che, nel vigente assetto normativo interno all’art. 18 St., l’esistenza del rapporto associativo condizioni soltanto l’applicazione della tutela ripristinatoria; quella di natura economica, garantita dalle disposizioni dei commi quinto, sesto e – in parte qua- settimo, opera invece indipendentemente dalla prima.
L’addebito disciplinare.
E’ pacifico tra le parti il fatto che la ricorrente, assunta il 7.6.2011 ed inquadrata nel livello B1 CCNL per le cooperative sociali, abbia sempre lavorato come assistente agli anziani nella residenza protetta San Benigno di Genova, in cui la cooperativa forniva i servizi assistenziali, infermieristici e riabilitativi per gli ospiti della struttura.
Nella lettera del 26.3.2013 le è stato contestato che, mentre era impegnata nel turno notturno (21-7), “intorno alle ore 06.12, si è illegittimamente avvicinata in modo irruento all’ospite S.M. per potergli proibire l’estrazione del collutorio dal carrello della Struttura e intenzionalmente ha spinto l’anziano provocandogli una grave caduta. A seguito di ciò è stato necessario il trasporto in Pronto Soccorso dove è stata diagnosticata una frattura al femore destro e il ricovero ospedaliero” [all. 10 ric.].
Nella lettera di giustificazione – così come in causa – la ricorrente non ha negato l’episodio, ma ha affermato di essersi solo avvicinata all’ospite, identificato in S. M., e che questi, vedendola improvvisamente sopraggiungere da dietro di sé, sarebbe caduto “forse spaventato perché poco cosciente”.
In realtà, quanto successo fino al momento della caduta é pacifico tra le parti ed é in buona parte documentato dal filmato della telecamera installata nel refettorio, di cui si è acquisita copia: la ricorrente si trovava ad uno dei tavoli intenta a piegare dei tovaglioli insieme con la collega M. K.; le due hanno notato sopraggiungere al fondo del corridoio l’anziano ospite ******** ed avvicinarsi al carrello dei medicinali, distante circa 10-15 metri da loro, dove ha iniziato ad armeggiare con la boccetta del liquido colluttorio; notato che stava per travasarlo in altro contenitore, la ricorrente si è alzata dirigendosi verso di lui e, constatato che non rispondeva ai suoi richiami, ha percorso gli ultimi metri di corsa nel tentativo di prevenire il travaso.
Al suo sopraggiungere,S.M. è caduto al suolo.
Nell’interrogatorio libero reso al Tribunale la ricorrente ha raccontato che ” S.M. cadde prima ancora che io potessi raggiungerlo .. voltandosi verso di me perse l’equilibrio cadendo al suolo. Preciso che dove si trovava il pavimento non era perfettamente piatto .. Al momento della sua caduta mi trovavo a meno di un metro di distanza da S.M. che cercai di trattenere”.
La telecamera si trovava installata sul lato del refettorio opposto a quello in cui è avvenuta la caduta, sicché la ripresa filmata non documenta con chiarezza la fase finale dell’episodio: vi si nota comunque la ricorrente allungare il braccio destro in direzione dell’ospite una volta giunta nei suoi pressi e questi improvvisamente cadere; in quel momento M.K., che seguiva la scena da seduta, ha avuto un evidente moto di sorpresa, drizzandosi e portando le mani all’altezza del volto; si è poi diretta verso i due, mentre la ricorrente già era china ad aiutare S.M. a terra.
Chiamata a testimoniare sul fatto,M.K. lo ha raccontato nei termini anzidetti, confermando anche che S.M. non aveva potuto udire i richiami della collega poiché affetto da sordità. In ordine alla causa della caduta ha precisato che, poiché “mi dava le spalle non vidi se ella lo abbia colpito con una mano, un braccio o altra parte del corpo. La vidi andare addosso a lui .. A quanto vidi la ricorrente andò a colpire S.M. involontariamente non riuscendo a fermarsi nello slancio”.
La ricostruzione dell’unica persona che abbia assistito all’episodio ha così confermato quanto dal filmato già si ricava in termini d’impressione: l’anziano ospite della struttura è caduto non per la sorpresa data dal sopraggiungere inatteso della ricorrente, ma per un urto causato dalla sua foga. Nel prosieguo della deposizione M..K. ha ribadito che questo lo ha fatto cadere all’indietro, dopo che egli aveva avuto tempo di girarsi.
Nella sua materialità, la condotta contestata alla ricorrente ha avuto così riscontro probatorio. Non risulta, invece, che la spinta o comunque l’urto siano stati intenzionali: l’ha negato la testimone – che ha chiarito come lo scontro sia stato involontario – e non si vede d’altronde quale motivo potesse avere la ricorrente per volere provocare la caduta dell’ospite. Non si ha notizia di contrasti precedenti tra i due e M.K. stessa li ha negati. L’immediato soccorso prestato dalla ricorrente, inoltre, non si concilia con l’intenzionalità. Il fatto deve pertanto addebitarsi a colpa, per imprudenza e per violazione delle più elementari regole di attenzione verso una persona evidentemente fragile, almeno per l’età avanzata. La cautela dovuta verso S.M. è dimostrata anche dalla scheda di osservazione, da cui emerge che il giorno precedente egli già aveva subito una caduta, perdendo l’equilibrio [all. 12 alla memoria di costituzione].
La diversità dell’elemento soggettivo accertato (la colpa), rispetto a quello contestato disciplinarmente (il dolo), ha indotto la difesa attrice a negare l’esistenza della giusta causa del licenziamento, ravvisando un caso di “insussistenza del fatto contestato”, previsto dall’art. 18, quarto comma, 1. 300/70 (come modificato dall’art. 1 l.92/2012).
La tesi non è condivisibile. Nella definizione del concetto espresso dalla norma dell’art. 18, quarto comma, va assumendo prevalenza e si fa preferire la lettura che assegna al “fatto contestato” una portata non solo limitata alla materialità della condotta e dell’evento, ma estesa anche agli altri elementi che ne connotano la rilevanza disciplinare: l’antigiuridicità, l’attitudine lesiva degli interessi aziendali, l’elemento soggettivo. Conseguentemente, si ha insussistenza del fatto contestato sia quando la condotta non è stata posta in essere dal lavoratore sia quando, ad esempio, essa è scriminata da circostanze esimenti o risulti priva di offensività giuridica o ancora manchi della necessaria adesione psicologica.
Gli effetti dell’accertamento nell’applicazione dell’art. 18 St.
Nel caso in esame il fatto contestato è completo in ciascuna delle sue componenti: la caduta dell’ospite è stata provocata da una spinta determinata da irruenza, ma pur sempre illegittima; il ridimensionamento dell’elemento psicologico da intenzionalità a colpa non fa venire meno la valenza disciplinare della condotta. Pertanto non è sostenibile il difetto della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo per insussistenza del fatto contestato.
La soluzione proposta dalla difesa attrice esaspera i concetti propri della tesi dottrinale del cd. “fatto giuridico”, fino a pervenire a risultati irrazionali: si pensi alla contestazione della lesione provocata dal lavoratore licenziato al datore di lavoro da alcuni colpi di arma da fuoco, che trovi nel processo dimostrazione solo sotto il profilo del tentativo, qualora risulti provato che la vittima sia stata solo sfiorata dai proiettili diretti a lui. In questo caso il fatto sarebbe diverso nella sua materialità e perciò, portando ad estreme conseguenze la tesi, si perverrebbe all’annullamento del licenziamento ai sensi dell’art 18, quarto comma. L’evidente irragionevolezza della conclusione sta nella considerazione per cui non basta la divergenza della fattispecie accertata dall’addebito in un singolo elemento per negarne l’antigiuridicità e la rilevanza disciplinare. Al contrario, una volta che sia dimostrata l’illiceità o l’illegittimità della condotta e la contestazione disciplinare risulti sufficiente a consentire al lavoratore di fare valere le proprie difese, non v’è motivo per escludere tomaticamente l’esistenza del giustificato motivo o della giusta causa del recesso.
ll codice disciplinare incluso nel CCNL applicato al contratto tra le parti prevede anzi, all’art. 42, il licenziamento senza preavviso per la “grave negligenza nell’esecuzione dei lavori o di ordini che implichino pregiudizio all’incolumità delle persone ..” [al]. 4 ric.]. Il precetto è senz’altro riferibile al caso in esame, potendosi assimilare alla negligenza l’imprudenza e l’inosservanza delle regole di cautela nel trattamento degli anziani in cui è incorsa la ricorrente.
E’ dunque da escludersi che il fatto contestato alla ricorrente rientri tra le condotte punibili con sanzione conservativa in base al contratto collettivo, secondo la previsione posta dall’art 18, quarto comma, St. come ipotesi alternativa di annullamento del licenziamento.
Questa verifica non esaurisce tuttavia i compiti del Tribunale. Infatti, “La valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore deve essere in ogni caso effettuata attraverso un accertamento in concreto da parte del giudice del merito della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione, anche quando si riscontri la astratta corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorrendo sempre che la condotta sanzionata sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 cod. civ.” [Cass., sez. lav., 4 marzo 2013, n. 5280. Nello stesso senso, tra le altre, Cass., sez. lav., 19 agosto 2004, n. 16260, e 24 ottobre 2000, n. 13983].
E’ stato detto che la valutazione di proporzionalità della sanzione al fatto, valutato nella sua concretezza, è inscindibilmente connessa al sindacato giudiziale sul corretto esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, poiché il giudice deve provvedere al bilanciamento tra l’interesse di questi, tutelato dall’art. 41 Cost. con quello del lavoratore, che trova nell’art. 4 Cost. specifica protezione [cfr. Cass., sez. lav., 4 dicembre 2002, n. 17208]. Pertanto il giudizio di proporzione non può ritenersi soppresso dallo schema di sanzioni “a cascata” che deriva dalle nuove disposizioni dell’art. 18 1. 300/70, le quali conservano nella norma dell’art. 2106 c.c. un’inevitabile fonte di riferimento applicativo.
In questa valutazione rientra l’interesse che ha mosso la ricorrente nell’azione verso l’ospite: è stato un interesse non egoistico, ma diretto a salvaguardare, seppure con modalità inconsulte, la salute altrui e le esigenze di servizio, giacché l’appropriazione del colluttorio avrebbe potuto pregiudicare la prima e si poneva in contrasto con le regole che impedivano agli ospiti della struttura di manipolare i farmaci e gli altri oggetti presenti sul carrello.
Ciò premesso, va considerato che tutte le altre condotte che le parti collettive hanno ritenuto dovere essere sanzionate, a titolo esemplificativo, col licenziamento sono dolose. Per altro verso, lo stesso codice disciplinare ha ritenuto passibili di sanzioni conservative, come la sospensione dal servizio, comportamenti comunque gravi: ad esempio, “presentarsi al lavoro e prestare servizio in stato di ubriachezza o di alterazione derivante dall’uso di sostanze stupefacenti” e, soprattutto, “atti o molestie anche di carattere sessuale che siano lesivi della dignità della persona”.
E’ del tutto opinabile che, rispetto a quest’ultima fattispecie, la lesione causata dalla ricorrente all’anziano ospite, per un urto involontario determinato da un eccesso di foga, configuri una condotta connotata da maggiore gravità. In linea di principio è anzi da ritenersi il contrario, tanto più considerando che la ricorrente ha prestato immediato soccorso alla sua vittima e che questa ha subito un danno temporaneo.
Queste considerazioni inducono a valutare eccessivo il licenziamento irrogato alla ricorrente, nonostante la condotta che vi è stata posta a base sia stata commessa e che non rientri astrattamente tra quelle punibili con sanzione conservativa.
Si versa dunque nell’ipotesi disciplinata dal quinto comma dell’art. 18 l.300/70. Pertanto il licenziamento non può essere annullato ed alla ricorrente spetta la sola indennità risarcitoria onnicomprensiva entro i limiti edittali prestabiliti.
Questa conclusione esonera il Tribunale dall’indagine sui vizi formali e procedimentali sollevati in ricorso, i quali avrebbero eventualmente effetto ai fini del riconoscimento della sola tutela risarcitoria, deteriore, offerta dall’art. 18, sesto comma.
Nella gradazione dell’indennità vanno considerati l’anzianità di servizio inferiore a due anni, le considerevoli dimensioni dell’impresa convenuta – quasi 3.000 soci, una vasta diffusione nel centro-nord Italia ed un fatturato prossimo a cento milioni di euro [all. 2 ric.] – ed il comportamento delle parti: da quest’ultimo punto di vista rilevano il grave pericolo corso dall’ospite della struttura per via della condotta della ricorrente, da un lato,e la trattenuta indebita ad oggi delle quote di conferimento e del TFR da parte della convenuta, dall’altro.
Tutto ciò porta a ritenere equo l’indennizzo commisurato al valore intermedio tra il minimo ed il massimo stabilito dal legislatore e perciò pari a 18 mensilità del’ultima retribuzione globale di fatto.
Prendendo a base di calcolo l’ultima retribuzione lorda [all. 7 ric.], la convenuta deve essere pertanto condannata a corrispondere alla ricorrente il complessivo importo di € 29.303,43 (€ 1502,74 x 13 : 12 x 18). Su questa vanno applicati rivalutazione monetaria e interessi legali, a seguito della sentenza del 23 ottobre 2000, n. 459, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 22 comma trentasei 1. 724/94. Gli interessi devono calcolarsi sul capitale rivalutato annualmente, secondo il più recente orientamento della Corte Suprema [Cass., sez. un., 29 gennaio 2001, n. 38].
L’accoglimento solo parziale delle domande attrici giustifica la compensazione delle spese di lite nella misura del 50%. La frazione residua, che si liquida come da dispositivo e si distrae a favore del difensore, dichiaratosene anticipatore, è a carico della convenuta, in parte soccombente.
P.Q.M.
visto l’art. 1 legge 92/2012,
a) condanna YY cooperativa società a r.l, in persona del legale rappresentante pro-tempore, a corrispondere alla ricorrente XX l’importo di € 29.303,43 ad indennizzo per il licenziamento intimato il 3.5.2013, con gli interessi legali, sull’importo capitale da rivalutarsi anno per anno, da quella data e sino al saldo;
b) respinge per il resto il ricorso;
c) condanna la convenuta a rifondere la ricorrente delle spese del procedimento nella misura del 50%, misura liquidata in complessivi € 2.250,00, oltre a IVA e cpa, con distrazione a favore dell’avv. F. B.;
d) compensa tra le parti la frazione residua delle spese.
***** mo *********
Nota a Tribunale di Genova Ordinanza 2 aprile 2014, Giud.Basilico
L’ordinanza in commento affronta alcune problematiche molto importanti attinenti ad alcuni aspetti della legge n.92/2012,c.d. Riforma For nero:
(1) circa l’ambito di applicazione, con riferimento al lavoro cooperativo, del comma 47 dell’art.1 della predetta legge n.92/2012 il Tribunale enuncia:< e’ peraltro discutibile il fatto che i limiti tracciati dalla norma dell’art. 1, comma 47, 1. 92/2012 consentano attualmente di proporre un’azione inerente la legittimità della delibera di esclusione in questa fase della controversia sul licenziamento.>;
(2) sempre con riferimento al lavoro cooperativo ha riconosciuto rilevante la pregiudiziale della <genuinità del rapporto associativo> ma soltanto ai fini della valutazione circa l’applicabilità della tutela ripristinatoria :< va ricordato-nota il Giudice – che l’art. 2 1.142/2001 fa rinvio al testo previgente dello stesso art. 18, norma che prevedeva la reintegra nel posto di lavoro come sola conseguenza della declaratoria d’illegittimità del licenziamento. Con tale rinvio il legislatore aveva inteso evidentemente configurare una speciale relazione di pregiudizialità tra i due diversi rapporti contrattuali delineati con l’art. 1, terzo comma, 1. 142/2001. >;
(3) sul controverso tema della diversità tra <fatto contestato> contenuto nella nor ma dell’art.18,quarto comma , novellato, e del fatto accertato, con la possibilità di ravvisare in tale diversità la <insussistenza del fatto>, tra la due posizioni interpretative che si contendono il campo, quella del cd. <fatto giuridico > e quella del < fatto materiale > [ -v. per tutti **** “Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra reintegra e tutela indennitaria” in Ridl 2013 ,II :< “il fatto” cui fa riferimento il nuovo art. 18, co . 7, St. lav. non coincide col fatto giuridico, ovvero col presupposto stesso del giustificato motivo oggettivo, bensì col fatto materiale, cioè con le circostanze tecnico-organizzative comunicate al lavoratore (o, in caso di omessa motivazione, indicate in giudizio nella memoria di costituzione) sulle quali si fonda il licenziamento >] *
Il Tribunale di Genova prende posizione ricorrendo ad una esemplificazione tra due ipotesi diverse solo per la diversità dell’elemento soggettivo; che si configura nell’un caso come <dolo> e nell’altro caso< come colpa> :< si pensi alla contestazione della lesione provocata dal lavoratore licenziato al datore di lavoro da alcuni colpi di arma da fuoco, che trovi nel processo dimostrazione solo sotto il profilo del tentativo, qualora risulti provato che la vittima sia stata solo sfiorata dai proiettili diretti a lui. In questo caso il fatto sarebbe diverso nella sua materialità e perciò, portando ad estreme conseguenze la tesi, si perverrebbe all’annullamento del licenziamento ai sensi dell’art 18, quarto comma. L’evidente irragionevolezza della conclusione sta nella considerazione per cui non basta la divergenza della fattispecie accertata dall’addebito in un singolo elemento per negarne l’antigiuridicità e la rilevanza disciplinare.>.
*abbiamo ritenuto di citare sul punto tale Autore per la perspicuità e autorevolezza anche se lo stesso premette che <sembra debba essere evitata l’equiparazione con l’espressione, pur simile, utilizzata con riguardo al licenziamento per ragioni soggettive>,il che peraltro è tutt’ora in discussione.
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