Lavoro delle donne detenute

 

Il riconoscimento dei diritti delle donne si rivela particolarmente importante in relazione a situazioni di particolare fragilità in cui le stesse possono trovarsi; ad esempio, nel caso delle donne detenute in carcere che intendano svolgere un’attività lavorativa.

Orbene, offrire alle donne detenute la possibilità di svolgere un lavoro significa permettere loro non solo di acquisire nuove competenze professionali ma anche, e soprattutto, di accendere in loro la concreta speranza di potersi reintegrare nella società, una volta terminata l’esperienza carceraria, soddisfacendo, in tal modo, la finalità rieducativa e risocializzante della pena e riducendo la possibilità di recidiva.

La lotta alle disuguaglianze di genere si pone in linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu (per lo Sviluppo Sostenibile)[1], con i principi dell’ordinamento dell’Unione Europea e con quelli dell’ordinamento italiano e, in particolare, da ultimo, con quanto previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.[2]

Per tale ragione, nella presente trattazione, affronteremo l’argomento del lavoro delle donne detenute, attraverso l’analisi della normativa costituzionale e dell’Ordinamento penitenziario e relativo Regolamento di esecuzione in materia, al fine di verificare se la suddetta normativa sia idonea a facilitare l’inclusione sociale delle detenute.

 Lavoro delle detenute nella Costituzione italiana

Il Regio Decreto n. 787/1931 considerava il lavoro come parte integrante della pena; lo svolgimento dell’attività lavorativa era, pertanto, obbligatorio e non era previsto che vi fosse una proporzione tra quantità e qualità di essa rispetto alla retribuzione, né era garantita una tutela assicurativa e previdenziale.

Con l’entrata in vigore della Costituzione italiana, la prospettiva è cambiata completamente.

In virtù dell’art. 27, comma 3, della Costituzione, infatti, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Pertanto, il lavoro viene ora considerato non più come mezzo di punizione, bensì come strumento (individualizzato) volto alla rieducazione; tale concezione comporta il riconoscimento di diritti e tutele minime per i lavoratori detenuti.[3]

L’art. 4 della Costituzione, infatti, afferma che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Orbene, in virtù del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, il diritto al lavoro deve essere riconosciuto non solo ai cittadini liberi ma anche ai detenuti.

La “specialità” del rapporto di lavoro carcerario, infatti, lo rende assimilabile al lavoro libero, sebbene non identico; esso, infatti, presenta caratteristiche peculiari, concernenti le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa ed il soddisfacimento di particolari esigenze di sicurezza.[4]

Inoltre, il detenuto che presti attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione carceraria, ha diritto alle ferie annuali retribuite, riconosciuto dalla Costituzione (si veda, in proposito, quanto affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 158/2001).

Dal principio di uguaglianza deriva, altresì, il riconoscimento del diritto al lavoro anche in capo alle donne detenute, in quanto queste ultime non possono essere assoggettate a discriminazione per motivazioni di appartenenza di genere.

Lavoro delle detenute nell’Ordinamento penitenziario e nel relativo Regolamento di esecuzione

L’art. 15 dell’Ordinamento penitenziario, legge n. 354/1975, prevede che il trattamento del condannato e dell’internato sia svolto avvalendosi, tra l’altro, della formazione professionale e del lavoro, agevolando i contatti con il mondo esterno e con la famiglia.

Il medesimo articolo prevede, inoltre, che, salvo casi di impossibilità, al condannato ed all’internato sia assicurato il lavoro, a fini di trattamento rieducativo.

Il lavoro carcerario è disciplinato, inoltre, dagli artt. 20-25 dell’Ordinamento penitenziario e dagli artt. 47-57 del nuovo Regolamento di esecuzione (d.P.R. n. 230/2000).

In particolare, l’art. 20 dell’Ordinamento penitenziario stabilisce che, negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà, debbano essere favorite, in ogni modo, la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale.

Pertanto, sia all’interno che all’esterno dell’istituto, possono essere organizzati e gestiti lavorazioni e servizi attraverso l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti e degli internati.

L’art. 20 citato, inoltre, precisa che il lavoro penitenziario non può avere carattere afflittivo e deve essere remunerato.

L’organizzazione ed i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera, in modo tale che i detenuti possano raggiungere una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni di lavoro, al fine di facilitarne il reinserimento nella società.

Gli organi centrali e territoriali dell’amministrazione penitenziaria possono stipulare specifiche convenzioni di inserimento lavorativo con soggetti pubblici o privati o cooperative sociali che intendano offrire opportunità di lavoro a detenuti o internati, senza oneri a carico della finanza pubblica.

È interessante osservare che, ai detenuti ed agli internati, tenuto conto delle loro personali attitudini, possa essere anche permesso di esercitare, autonomamente, attività artigianali, intellettuali o artistiche, nell’ambito del programma di trattamento.

Inoltre, appare utile sottolineare che l’art. 48, comma 110, del Regolamento di esecuzione prevede espressamente che “i detenuti e gli internati ammessi al lavoro all’esterno esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla esecuzione della misura privativa della libertà”.

Da tale norma, pertanto, si ricava l’applicabilità del diritto del lavoro “comune” ai casi in esame.

Nello specifico, tali categorie di lavoratori hanno diritto al rispetto della qualifica, all’indennità di anzianità e di disoccupazione, diritto di sciopero e di partecipazione ad assemblee sindacali sul luogo di lavoro, qualora svolte in un momento in cui essi sono autorizzati a rimanere all’esterno, e svolgimento di attività sindacali.

Si ritiene, inoltre, applicabile la normativa sulla durata indeterminata del contratto di lavoro e sul divieto di licenziamento per ragioni diverse dalla giusta causa.[5]

Si noti, inoltre, incidentalmente, che, ai sensi dell’art. 19, Legge n. 56/1987, i detenuti e gli internati hanno facoltà di iscriversi nelle liste di collocamento e, finché permane lo stato di detenzione o di internamento, sono esonerati dalla conferma dello stato di disoccupazione.

Sono, altresì, previsti sgravi fiscali per le aziende che assumano detenuti disoccupati di lunga durata.

Orbene, dopo aver analizzato la normativa dettata dall’Ordinamento penitenziario in ordine al lavoro dei detenuti, risulta ora possibile svolgere alcune ulteriori precisazioni concernenti, specificamente, il lavoro delle donne detenute.

In proposito, può osservarsi, innanzitutto, che le norme dell’Ordinamento penitenziario contengono un numero molto ridotto di disposizioni relative alla detenzione femminile, per lo più rivolte alle donne in quanto gestanti o madri (artt. 11 e 39).

In particolare, l’art. 11, comma 8, prevede che “In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere”.

L’ultimo comma dell’art. 39, invece, fissa il principio secondo cui “L’esecuzione della sanzione della esclusione dalle attività in comune è sospesa nei confronti delle donne gestanti e delle puerpere fino a sei mesi, e delle madri che allattino la propria prole fino ad un anno”.

L’art. 14, invece, stabilisce, più genericamente, che le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto.

Il Regolamento di esecuzione, invece, si limita a fissare, in proposito, alcune prescrizioni relative all’igiene personale ed al vestiario.

Conclusioni

I principi fissati dalla Costituzione italiana e la loro attuazione attraverso le norme dell’Ordinamento penitenziario e del relativo Regolamento di esecuzione rappresentano, senza dubbio, un importante passo avanti rispetto alla normativa precedentemente prevista dal R.D. del 1931.

Inoltre, sebbene il rapporto di lavoro carcerario non possa considerarsi identico al lavoro libero, a causa delle sue caratteristiche peculiari (concernenti le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa ed il soddisfacimento di particolari esigenze di sicurezza), deve, comunque, intendersi ad esso assimilabile.

La normativa giuslavoristica ordinaria, pertanto, trova applicazione, in quanto compatibile, anche in ipotesi di lavoro dei detenuti e delle detenute.

In particolare, per quanto riguarda queste ultime, può osservarsi che il Legislatore italiano ha stabilito alcune norme specifiche, rivolte, prevalentemente, alle donne gestanti o madri.

Tali norme, tuttavia, si rivelano piuttosto scarne, in quanto non entrano nel dettaglio, ad esempio, di come debbano funzionare ed essere organizzati i sopra richiamati servizi speciali per l’assistenza sanitaria.

È auspicabile, pertanto, che la normativa indicata sia oggetto di ulteriori precisazioni, che abbiano validità di carattere nazionale, così da evitare applicazioni territorialmente differenti di principi costituzionali così importanti.

Inoltre, poiché nella pratica si è assistito ad un’applicazione ancora piuttosto timida del lavoro delle detenute, occorre incentivare maggiormente tale tipo di progetti, anche prendendo come esempio le best practices emerse, a livello locale, negli ultimi anni.

Ciò faciliterà l’inclusione sociale delle detenute stesse al momento del loro re-ingresso in società e permetterà loro di coprire le spese relative al proprio soggiorno in carcere e di dare supporto alla propria famiglia, dandole speranza per il futuro e riducendo la possibilità di eventuali recidive.


Note

[1] Obiettivo n. 5. Si veda, in proposito: https://www.agenziacoesione.gov.it/comunicazione/agenda-2030-per-lo-sviluppo-sostenibile/

[2] Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è consultabile al seguente U.R.L.: https://www.governo.it/sites/governo.it/files/PNRR.pdf

[3] V. Citraro, I diritti dei detenuti tra Costituzione e legge sull’ordinamento penitenziario, in De Iure Criminalibus – Diritto Penale & Procedura, 07/05/2018, consultabile al seguente U.R.L.: https://deiurecriminalibus.altervista.org/i-diritti-dei-detenuti/

[4] I diritti dei detenuti lavoratori – Il diritto al lavoro o meglio i diritti dei detenuti lavoratori: http://www.ristretti.it/areestudio/lavoro/norme/diritti.htm

[5] I diritti dei detenuti lavoratori – Il diritto al lavoro o meglio i diritti dei detenuti lavoratori, op. cit.

Dott.ssa di ricerca Cadelano Sara

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