Le circostanze di esclusione della pena ed estensione della causa di non punibilità ex art. 384 c.p. al convivente more uxorio

1.      Premessa. Inquadramento generale delle circostanze di esclusione della pena

Gli artt. 59 e 119 c.p. fanno riferimento alle “circostanze che escludono la pena” senza però fornirne alcuna definizione. Si tratta di un’espressione generica, in cui il legislatore fa confluire tutte le situazioni in cui un soggetto è considerato non punibile.

Le cause di esclusione della pena possono considerarsi quindi un genus, tra cui rientrano le figure delle scriminanti, delle scusanti e delle cause di non punibilità in senso stretto.

Le scriminanti, o cause di giustificazione, rendono lecito un fatto contemplato da una norma incriminatrice e il loro fondamento risiede nel bilanciamento tra interessi in conflitto. Dunque, l’attenzione dell’ordinamento si focalizza sull’elemento oggettivo del reato.

Le scusanti, invece, sono considerate cause di esclusione della colpevolezza, e rendono non colpevole un fatto tipico e antigiuridico, fondandosi sulla inesigibilità di un determinato comportamento in presenza di talune situazioni capaci di condizionare l’agente ed impedirgli di conformare la propria condotta alla regola di diligenza da osservare in concreto. L’attenzione dell’ordinamento risulta quindi rivolta all’elemento soggettivo del reato.

Infine, le cause di non punibilità in senso stretto rendono non punibile un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. Il loro fondamento va, infatti, rinvenuto in ragioni di pratica convenienza politico-criminale che conducono ad escludere l’applicazione della sanzione penale per l’esigenza di salvaguardare controinteressi che potrebbero da essa essere lesi.

2.      Analogie e differenze

Le tre figure dogmatiche ora elencate divergono anche in tema di regime giuridico applicabile.

Invero, mentre le scriminanti si applicano anche ai concorrenti del reato, attesa la loro valenza oggettiva, lo stesso non vale per le altre due categorie, attesa la loro rilevanza soggettiva. L’ordinamento riconosce anche la scriminante cosiddetta putativa, in quanto le scriminanti, oltre ad essere applicate oggettivamente a prescindere dalla loro effettiva conoscenza da parte dell’autore, si applicano anche nei casi di errore sui presupposti della medesima.

Tuttavia, anche le cause di non punibilità in senso stretto rilevano oggettivamente, a prescindere dalla conoscenza che di esse abbia l’agente, non è però rilevante l’errore.

Per ciò che concerne le scusanti, invece, la loro operatività è di natura prettamente soggettiva, sicchè non si può prescindere dalla conoscenza dell’agente della concreta presenza dei presupposti per l’operare della scusante.

3.      Interpretazione estensiva e analogica delle cause di esclusione della pena

 

Ulteriore profilo di divergenza tra le tre figure esaminate si rinviene nell’ambito dell’interpretazione analogica ed estensiva delle cause di esclusione della pena.

Accertato che il divieto di analogia trova fondamento e ratio nel principio di tassatività, determinatezza e che a questi occorre far riferimento nel ricostruire l’istituto in esame, appare essenziale saper distinguere il procedimento analogico da quello interpretativo e, in particolare, tra analogia ed interpretazione estensiva ovvero tra ciò che è vietato in ambito penale e ciò che al contrario è tendenzialmente consentito.  L’interpretazione estensiva attribuisce alla norma un significato che è compatibile con il suo tenore letterale e testuale, il giudice nell’interpretare chiarisce il significato della formulazione testuale della disposizione, utilizzando tutti i criteri interpretativi che portano ad attribuire alla norma un significato che rimane entro il perimetro assegnato dal tenore letterale della disposizione e che pertanto sono ammessi. Si tratta del criterio letterale, teleologico, sistematico, dell’interpretazione costituzionalmente conforme e della interpretazione convenzionalmente orientata. Il giudice, quando effettua l’operazione di interpretazione della norma, non va ad integrare la norma, non va a colmare una lacuna, bensì si limita a chiarire il significato della norma, a differenza di ciò che avviene con l’operazione analogica.

A questo punto occorre chiedersi se il divieto di analogia, come descritto dall’art 14 delle preleggi, sia assoluto o relativo, riguardante tutte le norme penali o solo quelle di sfavore e quindi se sia ammissibile in ambito penale un’analogia in bonam partem.

Si tende ad ammettere l’analogia in diritto penale quando vengono in rilievo norme di favore come le norme scriminanti, le norme che contengono cause di esclusione della colpevolezza, secondo un’accezione relativa del divieto per cui, pur non essendo consentita un’analogia in malam partem, è comunque ammessa quella in bonam partem.

Tuttavia pur ammettendo un’operazione analogica in bonam partem, occorre ricordare che il divieto di analogia colpisce anche le norme eccezionali. Pertanto, una norma di favore sarà applicabile in via analogica in ambito penale purché in bonam partem, ma fermo il limite della non eccezionalità: deve cioè trattarsi sì di norma di favore ma non eccezionale.  In secondo luogo, quando un caso non è contemplato dalla disciplina penale, non per dimenticanza del legislatore ma per una scelta precisa, questa lacuna non può essere colmata dal giudice con il ricorso al procedimento analogico; difatti, occorre che la lacuna normativa non sia intenzionale.

 

Tanto premesso, occorre esaminare in modo più approfondito le categorie di favore che in astratto potrebbero essere applicabili in via analogica. Trattasi delle norme che prevedono scriminanti, cause di esclusione della colpevolezza o della sola punibilità.

Una parte della dottrina sostiene che le norme scriminanti non potrebbero essere applicate in via analogica in quanto norme eccezionali. Si tratta di una tesi minoritaria se solo si considera che tra le norme incriminatrici e quelle scriminanti non c’è un rapporto di regola – eccezione.

Le scriminanti sono infatti espressione di principi generali dell’ordinamento; tuttavia le stesse, nell’accordare prevalenza al favor libertatis, sacrificano il bene giuridico di un terzo e pertanto è evidente che non può ammettersi l’analogia rispetto a quelle scriminanti previste dalla legge nella loro massima portata logica, in quanto tali definite dalla dottrina “fattispecie complete”.

Per quanto riguarda, invece, le scusanti, non è possibile ricorrere all’analogia iuris: non si può consentire l’ammissione di cause di esclusione della colpevolezza non codificate attraverso lo strumento dell’analogia iuris solo perché la punizione appare ingiustificata alla stregua dei principi generali dell’ordinamento giuridico. Non potrebbe ammettersi nemmeno l’operatività dell’analogia legis perché, quando il legislatore individua una scusante, opera una scelta precisa che è quella di escludere l’esigibilità di un certo comportamento. Anche in presenza di una ipotetica lacuna, si tratterebbe pur sempre di una lacuna intenzionale che non può essere riempita con lo strumento dell’analogia. Con riferimento, infine, alle cause di non punibilità in senso stretto, dottrina e giurisprudenza concordano in merito alla natura eccezionale delle stesse, che esclude l’operatività del divieto di analogia.

 

4.      La controversa natura giuridica dell’art. 384 c.p.: scriminante o scusante?

Il legislatore sovente è intervenuto sulle norme penali di favore ampliandone l’ambito di applicabilità a taluni casi, e non consentendo ciò per altri, ove ha creato una lacuna legislativa volontaria.

È questo il caso della causa speciale di non punibilità di tipo soggettivo prevista dall’articolo 384 c.p., la quale esclude la punibilità del soggetto attivo di un reato contro l’amministrazione della giustizia che abbia commesso il fatto per la necessitò di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.

Nel delineare la portata di tale causa di non punibilità il legislatore ha compiuto un bilanciamento tra due contrapposte istanze, il cui fondamento è parimenti rinvenibile nella Carta costituzionale. Da un lato, vi è l’amministrazione della giustizia e la conseguente punizione dei reati commessi; dall’altro, la preservazione dell’unità familiare, con una preferenza assoluta in favore di quest’ultima in presenza delle condizioni stabilite dalla legge.

Esaurite tali doverose premesse, giova individuare la natura giuridica dell’art. 384 c.p., atteso che da tale qualificazione scaturiscono molteplici riflessi interpretativi ed applicativi.

Ed invero, se si considera l’art. 384, comma 1, c.p. alla stregua di una norma eccezionale, dovrà escludersi il ricorso all’analogia, in forza del divieto di cui agli artt. 12 e 14 delle Preleggi, nonché dell’art. 1 c.p. Diversamente, ove la si qualifichi come norma penale di favore, avente natura non eccezionale, potrebbe ritenersi ammissibile il ricorso al procedimento analogico. Orbene, preme precisare che sulla natura giuridica della causa di non punibilità contemplata dall’art. 384 c.c. sono state elaborate diverse tesi.

Secondo una prima tesi, la disposizione appena citata disciplina una vera e propria causa di giustificazione, una species del più ampio genus dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., che opera in modo oggettivo, a prescindere dalla circostanza che la condotta dell’agente sia supportata dal necessario requisito psicologico. Secondo altra opzione ermeneutica, invece, la fattispecie di cui all’art. 384 c.p. si configurerebbe quale causa di esclusione della colpevolezza, che considera la particolare situazione soggettiva nella quale versa l’agente, tale da rendere inesigibile un comportamento conforme alla norma, senza escludere il disvalore oggettivo del fatto tipico.

La dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che l’art. 384, comma 1, c.p. sia una causa speciale di punibilità e, dunque, abbia natura eccezionale.

Ne consegue che la disposizione, pur sostanziandosi in una norma di favore per il reo, non è suscettibile di applicazione analogica, in conformità a quanto previsto dall’art. 14 disp. prel. al c.c.

La giurisprudenza unanime reputava impossibile l’estensione della scusante ai componenti delle coppie di fatto.  Invero, i giudici di legittimità erano concordi nel ritenere che non si potesse applicare al convivente di fatto la disciplina di cui all’art. 384, comma 1, c.p., non essendo espressamente individuato dall’art. 307, ultimo comma, c.p. come “prossimo congiunto”.

In tal senso, si osservava che la mancata applicazione della causa di non punibilità fosse giustificata dalla profonda diversità sussistente tra il rapporto coniugale e quello di convivenza ed inoltre, essendo l’art. 384 c.p. norma eccezionale di stretta applicazione, in quanto ritenuta causa speciale di non punibilità, non poteva essere suscettibile di interpretazione analogica, atteso il divieto di cui all’art. 14 delle Preleggi.

Tale ragionamento è stato avallato anche dalla Corte Costituzionale che, chiamata a pronunciarsi in più occasioni sul tema, ha ribadito che la diversità di trattamento tra la famiglia fondata sul matrimonio, ex art. 29 Cost., e la famiglia di fatto, indirettamente tutelata dall’art. 2 Cost., riposa su una fondamento giuridico di carattere costituzionale e deve essere mantenuta.

In conseguenza di quanto fin qui esposto, la Corte ha sempre ritenuto costituzionalmente legittimo l’art. 384, comma 1, c.p. in quanto espressione del principio di coerenza dell’ordinamento che distingue il matrimonio dalla convivenza di fatto.

5.      Conclusioni

Tuttavia, a seguito di numerosi contrasti giurisprudenziali, la Corte di Cassazione, tenendo conto dell’importante mutamento del concetto di famiglia intervenuto nell’attuale contesto sociale, si è mostrata incline ad ammettere la totale equiparazione tra la famiglia di fatto e quella unita da vincolo matrimoniale.  La Suprema Corte, infatti, preso atto dell’evoluzione che ha interessato il costume sociale e che impone all’ordinamento giuridico di adeguare le sue regole alle mutate esigenze emergenti dal contesto sociale, ha ritenuto i concetti di famiglia e di coniuge, ai fini interpretativi, comprensivi anche delle figure di famiglia di fatto e di convivente more uxorio.

Dunque, la Cassazione, nonostante il convivente more uxorio non sia espressamente ricompreso tra i “prossimi congiunti” di cui all’art. 307, comma 4, c.p., ha ammesso l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, c.p. anche nei suoi confronti, segnando un netto distacco dal tradizionale orientamento ermeneutico.

A conforto della conclusione anzidetta, la Suprema Corte ha richiamato l’interpretazione resa dalla Corte EDU in merito all’art. 8 CEDU incentrata sul concetto dinamico di famiglia, intesa quale formazione sociale in continuo divenire.  La Corte, però, in linea con il precedente e tradizionale orientamento ha applicato la causa di non punibilità non ricorrendo al procedimento analogico, vietato dall’eccezionalità dell’art. 384 c.p., ma attraverso un’interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata del concetto di famiglia.

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