L’evoluzione dei rapporti di collaborazione: dall’art. 409 c.p.c. al lavoro a progetto
Le collaborazioni organizzate dal committente sono state introdotte all’interno del nostro ordinamento dall’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e costituiscono indubbiamente una delle innovazioni più dirompenti ed ermeneuticamente complesse del Jobs Act. Prima di soffermarci su tale argomento e per comprendere al meglio le intenzioni del legislatore, è però necessario ripercorrere l’evoluzione dei rapporti di collaborazione, analizzando i principali interventi normativi.
Nell’ambito della dicotomia tra il contratto di lavoro autonomo e subordinato, previsti rispettivamente dagli artt. 2222 c.c. e 2094 c.c., il legislatore ha individuato una categoria di attività, il cosiddetto lavoro parasubordinato, che si colloca in una “zona di confine” tra autonomia e subordinazione. Dopo una prima menzione nella legge 741 del 1959, nota come legge Vigorelli, il lavoro parasubordinato fa il suo ingresso nel nostro ordinamento con la legge 533 del 1974, che ha riformato il processo del lavoro: all’art. 409 n. 3 c.p.c., il rito del lavoro viene infatti esteso a tutti quei “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato“. L’innovazione è epocale, considerato che fino a quel momento l’obbligazione lavorativa poteva essere ricondotta solo al tipo di lavoro autonomo o subordinato. Gli elementi identificativi delle collaborazioni coordinate e continuative, concordatamente ritenuti tali dalla dottrina e dalla giurisprudenza e su ci si soffermerà ampiamente sono la continuatività, la coordinazione e il carattere prevalentemente personale della prestazione lavorativa.
Ben presto si è però assistito ad un’ampia diffusione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, fino ad arrivare ad un vero e proprio abuso di tali forme contrattuali. Le collaborazioni coordinate e continuative sono state infatti non di rado utilizzate in sostituzione del lavoro dipendente in ragione sia dei costi notevolmente inferiori soprattutto sul versante contributivo e previdenziale, sia della non applicazione della normativa sui licenziamenti ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Consapevole di ciò, il legislatore, con il dichiarato obiettivo di contrastare l’abuso di tali collaborazioni, ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo tipo contrattuale, il contratto di lavoro a progetto, disciplinato agli articoli da 61 a 69 del d.lgs. 276/2003. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa vengono così ricondotti nell’area della subordinazione laddove privi di un requisito essenziale: il progetto.
Tanti tuttavia sono stati i dubbi, sia interpretativi sia di ordine concettuale e sistematico, suscitati dalle nuove disposizioni: primo tra tutti il fatto che il legislatore non solo non aveva specificato cosa dovesse intendersi per “progetto”, ma aveva affiancato a tale termine l’espressione “programma di lavoro o fase di esso”.
Con lo scopo di porre rimedio alle numerose criticità che la disciplina del lavoro a progetto aveva sollevato, il legislatore è nuovamente intervenuto con la legge 92 del 2012, la cosiddetta legge Monti-Fornero: il campo di applicazione del lavoro a progetto viene fortemente limitato, introducendo criteri definitori più severi e restrittivi.
Nonostante le modifiche introdotte dal legislatore del 2012 alla disciplina del lavoro a progetto, l’obiettivo di evitare le operazioni simulatorie del lavoro autonomo non ebbe i risultati sperati. Il lavoro a progetto si era in sostanza rivelato inidoneo a contrastare i comportamenti elusivi.
In questo contesto si inserisce l’ultima riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto Jobs Act. L’opera di riforma, iniziata con la corposa rivisitazione della disciplina del contratto a termine, prosegue con la legge delega n. 183 del 2014 e giunge a compimento con numerosi decreti attuativi, tra cui, per quanto qui interessa, il d.lgs. 81/2015 in materia di riordino delle tipologie contrattuali. Con l’appena citato decreto, il legislatore interviene nuovamente sul tema delle collaborazioni e all’art. 52 dispone l’abrogazione del contratto di lavoro a progetto, le cui disposizioni rimangono in vita soltanto in via transitoria, per regolare i contratti già stipulati alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 81/2015. Se da una parte l’art. 52 abroga il contratto di lavoro a progetto, dall’altra stabilisce espressamente la sopravvivenza dell’art. 409 n. 3. c.p.c., e cioè delle collaborazioni che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato, così come le si conosceva prima dell’introduzione del contratto di lavoro a progetto.
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Le collaborazioni organizzate dal committente
Ma non è tutto, il d.lgs. 81/2015, all’art. 2, ha altresì introdotto le collaborazioni organizzate dal committente. Ed infatti la sopravvivenza dell’art. 409 c.p.c., incontra dei limiti connessi all’obiettivo sotteso a tutta la riforma, ossia separare le collaborazioni genuine da quelle false. Questi limiti sono stati espressamente individuati nell’art. 2 del d.lgs. 81/2015: ” a far data dal 1° gennaio del 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Sin dalla loro comparsa, le collaborazioni organizzate dal committente hanno dato luogo ad una serie di problemi interpretativi. A cominciare già dalla natura di tali collaborazioni, si sono contrapposti due macro orientamenti, all’interno dei quali i giuslavoristi hanno poi elaborato ulteriori ricostruzioni: secondo una parte della dottrina si tratterebbe di prestazioni di natura subordinata, secondo altra parte tali contratti sarebbero invece riconducibili nell’area dell’autonomia. Alcuni autori hanno addirittura sostenuto che si tratti di una “norma apparente”, e cioè una norma priva, malgrado la sua formulazione in termini precettivi, di efficacia propriamente normativa.
I requisiti identificativi delle collaborazioni organizzate dal committente, che si ricavano direttamente dall’art. 2 del d.lgs. 81/2015, sono il carattere esclusivamente personale della prestazione lavorativa, la continuità della stessa e l’organizzazione da parte del committente delle modalità di esecuzione della prestazione anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, e cioè la etero-organizzazione. Quest’ultimo elemento è senza ombra di dubbio quello che pone maggiori problemi e incertezze interpretative, perchè rende necessaria una comparazione da un lato con il potere direttivo proprio del datore di lavoro nell’ambito del contratto di lavoro subordinato e dall’altro con il potere di coordinamento caratterizzante le collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409 n. 3 c.p.c., con l’intento di individuare possibili differenze.
Il legislatore, all’art. 2 comma 2, ha poi previsto delle fattispecie per le quali è esclusa la riconduzione alla disciplina del lavoro subordinato prevista dal primo comma del medesimo articolo. Il che significa che in tali casi, pur trattandosi di prestazioni di lavoro aventi le caratteriste indicate dall’art. 2 comma 1, non è possibile applicare lo statuto protettivo del lavoro dipendente.
Con la legge 128/2019, il legislatore è nuovamente intervenuto in tema di rapporti di collaborazione, apportando delle modifiche all’art. 2 comma 1 del d.lgs. 81/2015: la prestazione lavorativa da “esclusivamente personale” diventa “prevalentemente personale“, e viene eliminata l’espressione “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro“. Il legislatore specifica inoltre che ” Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali“.
Da ultimo, la legge 128/2019 ha aggiunto al d.lgs. 81/2015 il Capo V-bis, con cui sono stati in sostanza introdotti per la prima volta nel nostro ordinamento, livelli minimi di tutela per quei riders che prestano la loro attività lavorativa secondo lo schema contrattuale del lavoro autonomo: tra questi spiccano indubbiamente la garanzia di un compenso minimo (art. 47-quater) e l’obbligo di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (art. 47-septies).
La sentenza della corte di appello di torino del 4 febbraio 2019, n. 26
Anche la giurisprudenza, nella nota vicenda che riguardato i riders di Foodora, ha preso posizione sulle collaborazioni organizzate dal committente.
Partiamo dai fatti: degli ex fattorini di Foodora, avevano convenuto in giudizio la stessa società, affermando di aver prestato, a favore della convenuta, attività lavorativa con mansioni di fattorino in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Oggetto della domanda erano l’accertamento della costituzione tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e la richiesta alle differenze retributive, al ripristino del rapporto di lavoro e al risarcimento del danno per violazione della normativa in materia di privacy e per violazione della normativa antinfortunistica. Il Tribunale di Torino aveva però respinto tutte le domande proposte. In particolare aveva ritenuto che tali rapporti non avessero natura subordinata perchè:
– i riders avevano volontariamente sottoscritto dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa;
– gli stessi non erano obbligati a dare la propria disponibilità per i vari turni indicati da Foodora e a sua volta quest’ultima poteva decidere di accettare o meno la disponibilità data dai ricorrenti. Se il datore di lavoro non può dunque pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione non può neanche esercitare il potere direttivo e organizzativo;
– con riferimento all’inserimento del rider in un turno, la società non aveva mai esercitato il potere disciplinare nei confronti dei ricorrenti, anche se questi dopo aver dato la loro disponibilità la revocavano o non si presentavano al rendere la prestazione lavorativa.
I ricorrenti, in via subordinata, avevano invocato l’applicazione ai loro rapporti di lavoro dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015. Il Tribunale però, accogliendo la tesi sostenuta dalla difesa dell’azienda, ha ritenuto che la norma in questione fosse “incapace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile alle diverse tipologie di rapporti di lavoro“, e quindi che si trattasse di una “norma apparente”. Secondo il Tribunale, l’art. 2 presuppone la sottoposizione del lavoratore al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, potere che non può concretizzarsi solo con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, “perchè deve al contrario riguardare anche i tempi e il luogo di lavoro“. La norma avrebbe dunque un campo di applicazione più ristretto di quello dell’art. 2094 c.c. “Senza considerare poi il fatto che appare difficile parlare di organizzazione dei tempi di lavoro in un’ipotesi come quella oggetto di causa in cui i riders avevano la facoltà di stabilire se e quando dare la propria disponibilità ad essere inseriti nei turni di lavoro“.
Avverso la sentenza del Tribunale, gli ex fattorini di Foodora propongono appello, chiedendo l’accoglimento delle domande già avanzate in primo grado.
La Corte d’Appello di Torino ritiene innanzitutto che il Tribunale abbia correttamente ricostruito le modalità con le quali i ricorrenti svolgevano la loro attività lavorativa. Si trattava di rapporti di lavoro, in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la cui gestione avveniva attraverso la piattaforma multimediale “Shyftplan” e un applicativo per smartphone, per il cui utilizzo Foodora forniva apposite istruzioni. Ogni settimana l’azienda pubblicava sulla piattaforma gli “slot“, contenenti l’indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ogni rider poteva o meno, a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze personali e senza dunque essere obbligato, dare la propria disponibilità. A questo punto, un apposito responsabile, confermava tramite la piattaforma ad ogni singolo rider che aveva dato disponibilità, l’assegnazione del turno. Il lavoratore doveva quindi recarsi, all’orario di inizio del turno in una delle tre zone di partenza predefinite, inserire le proprie credenziali in modo da attivare l’applicativo e avviare la geolocalizzazione. Il fattorino riceveva così sul proprio dispositivo la notifica dell’ordine e l’indirizzo del ristorante e una volta accettato doveva ivi recarsi con la propria bicicletta, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’app l’esito di questa verifica. A questo punto il rider doveva consegnare l’ordine al cliente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, pena applicazione di una penale di 15 euro, e confermare l’avvenuta consegna. Nel contratto, che ribadiamo, era un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, era altresì previsto che il rider avrebbe agito ” in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente (……) fatto salvo il necessario coordinamento generale con l’attività della stessa committente“.
Con riferimento alla subordinazione, la Corte d’Appello di Torino ha confermato quanto statuito dalla Corte territoriale, rigettando dunque la domanda dei riders volta ad ottenere la riqualificazione dei loro rapporti di collaborazione coordinata e continuativa in rapporti di lavoro subordinato. La Corte rileva innanzitutto che i rapporti di lavoro oggetto di causa hanno avuto una durata compresa tra i 6 e gli 11 mesi, con una prestazione media inferiore a 20 ore settimanali. Si tratta di modalità poco compatibili con la natura subordinata dei rapporti di lavoro in esame. Ma l’argomentazione principale utilizzata dalla Corte per escludere la sussistenza della subordinazione, è rappresentata dalla circostanza che gli appellanti “erano liberi di dare, o no, la propria disponibilità per i vari turni (slot) offerti dall’azienda“. “Erano loro che decidevano se, e quando, lavorare senza dovere giustificare la loro decisione (…), inoltre potevano anche non prestare servizio nei turni per i quali la loro disponibilità era stata accettata, revocando la stessa o non presentandosi“. Ciò che manca secondo la Corte è il requisito della obbligatorità della prestazione lavorativa, requisito caratterizzante la fattispecie di cui all’art. 2094 c.c.
La Corte d’Appello non condivide però quanto affermato dal Tribunale con riferimento all’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015, aderendo ad una ricostruzione del tutto opposta a quella del giudice di prime cure. La sentenza in esame ha infatti giustamente ribadito che un organo giudicante è tenuto ad applicare le leggi dello Stato, anche se non di facile interpretazione come nel caso di specie, stante la linea sottile tra il dettato della norma di cui all’art. 2 del d.lgs. 81/2015 e l’art. 2094 c.c. Lungi dall’essere una norma inutile, a parere del Collegio ” la norma in questione individua un terzo genere, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 c.c. e la collaborazione come prevista dall’articolo 409 n.3 c.p.c., evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito della evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando“.
La Corte ha poi provato a chiarire la portata del concetto di etero-organizzazione, che viene inteso come “potere del committente di determinare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro“, distinguendolo così dal ” potere gerarchico disciplinare che è alla base della eterodirezione“, e quindi del lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c. La collaborazione è etero-organizzata quando si realizza una “integrazione funzionale del lavoratore nell’organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa finisce con l’essere strutturalmente legata a questa e si pone come un qualcosa che va oltre alla semplice coordinazione di cui all’art. 409 n.3 c.p.c., poichè qui è il committente che determina le modalità della attività lavorativa svolta dal collaboratore“. Cercando di individuare una possibile differenza con il coordinamento ex art. 409 n.3 c.p.c., la Corte ritiene che la collaborazione è invece coordinata quando il collaboratore, pur coordinandosi con il committente, organizza autonomamente la propria attività lavorativa: quindi le modalità di coordinamento sono definite consensualmente mentre quelle di esecuzione della prestazione autonomamente.
La Corte d’Appello ha riscontrato gli elementi identificativi delle collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del d.lgs. 81/2015, nei rapporti di lavoro dei riders e ha dunque accolto la loro domanda riformando in tal modo la sentenza di primo grado.
La Corte statuisce che l’applicazione dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 non comporta la riqualificazione del rapporto di lavoro in un rapporto di lavoro subordinato, ma solo l’estensione della relativa disciplina: i collaboratori etero-organizzati restano “autonomi”, continuando dunque i rapporti a mantenere la loro natura. La Corte accoglie dunque la tesi di quella parte della dottrina che ravvisa nell’art. 2 una norma di estensione della disciplina del lavoro subordinato a fattispecie di versa natura. A tal proposito la sentenza richiama alcuni istituti applicabili, in astratto, alle collaborazioni organizzate dal committente: igiene e sicurezza sul lavoro, retribuzione diretta e differita, limiti di orario, ferie e previdenza.
La Corte riconosce ai riders, solo riguardo ai giorni e alle ore di lavoro effettivamente prestate, il trattamento retributivo dei lavoratori dipendenti del V livello del CCNL logistica-trasporto-merci (non essendo Foodora iscritta ad alcuna associazione imprenditoriale che abbia sottoscritto contratti collettivi): in tale livello sono infatti inquadrati i fattorini addetti alla presa e alla consegna. Tuttavia per ciò che concerne i licenziamenti, la Corte non accoglie la domanda dei ricorrenti, in virtù di due argomenti peraltro alquanto differenti:
a) la normativa sui licenziamenti non opera poichè non vi è riconoscimento della subordinazione
b) i contratti di collaborazione a termine, non sono stati interrotti prima della scadenza, bensì soltanto non rinnovati (e tra l’altro con offerta di prosecuzione del rapporto con modalità diverse).
La Corte sembra quindi alludere al fatto che la normativa sui licenziamenti non sia applicabile alle collaborazioni etero-organizzate, aderendo implicitamente a quello orientamento interpretativo che ritiene che alle collaborazioni etero-organizzate non si applichi integralmente la disciplina del lavoro subordinato.
La posizione della corte di cassazione: la sentenza del 24 gennaio 2020, n. 1663
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino che è stata appena esaminata, la società Foodinho, quale incorporante di Foodora in liquidazione, ha proposto ricorso per Cassazione. La sentenza 1663/2020 è di grandissimo interesse, non solo per l’eco mediatica della vicenda, ma anche per il suo contenuto tecnico-giuridico, che va bel oltre il singolo caso concreto.
Secondo la società ricorrente, l’art. 2 del d.lgs. 81/2015, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Torino, non ha introdotto un tertium genus, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 c.c. e la collaborazione come prevista dall’articolo 409 n.3 c.p.c. A parere della ricorrente, poichè la etero-organizzazione è un tratto caratteristico della subordinazione ex art. 2094 c.c., l’art. 2 non aggiungerebbe nulla alla ricostruzione di tale nozione compiuta dalla giurisprudenza, presentandosi piuttosto come una norma apparente, inidonea come tale a produrre autonomi effetti giuridici.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 1663/2020, non ritiene condivisibile la suddetta tesi, ritenendo che “i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme, sono convenzionali, per cui se il legislatore ne introduce di nuovi l’interprete non può che aggiornare l’esegesi a partire da essi, sforzandosi di dare alle norme un senso, al pari di quanto l’art. 1367 cod. civ. prescrive per il contratto, stabilendo che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”. La Corte ritiene che l’art. 2 vada contestualizzato, inserendosi in una serie di interventi normativi con i quali il legislatore ha cercato di far fronte alle rapide trasformazioni del mondo del lavoro. Le previsioni dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015 vanno infatti lette insieme all’art. 52 dello stesso decreto, che ha abrogato il contratto di lavoro a progetto, facendo però salvo l’art. 409 n. 3 c.p.c. È venuta meno dunque, secondo la Suprema Corte, una normativa che, avendo previsto dei vincoli e delle sanzioni, comportava delle tutele per il lavoratore, mentre è stata ripristinata una tipologia contrattuale più ampia suscettibile di abusi. Il legislatore quindi con l’art. 2, avrebbe agito “in una prospettiva anti-elusiva“.
In tale prospettiva secondo la Corte, non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione siano riconducibili nell’alveo della subordinazione o dell’autonomia, perchè ciò che conta è che per esse il legislatore abbia espressamente previsto l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, designando dunque una norma di disciplina. L’approccio del legislatore, secondo la Cassazione è quindi di tipo “rimediale”, in quanto si prevedono con riferimento a determinate tipologie di collaborazioni autonome, le stesse tutele del lavoro subordinato, senza che sia necessario passare per la riqualificazione del rapporto.
Più semplicemente dunque, al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni di cui all’art. 2 del d.lgs. 81/2015, la legge ricollega l’applicazione della disciplina integrale della subordinazione, comprensiva quindi anche della normativa sui licenziamenti. Del resto, osserva la Corte, “la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile”, a differenza di altri casi in cui il legislatore ha utilizzato la tecnica dell’equiparazione, precisando però quali istituti del lavoro subordinato vadano applicati. In mancanza di criteri prestabiliti, la selezione delle tutele, “non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici“. I giudici della Cassazione, almeno in apparenza, sembrano dare ragione a quegli orientamenti dottrinali propensi all’estensione tout court della disciplina del lavoro subordinato, ma anche al Ministero del Lavoro che, con la circolare n. 3/2016, aveva affermato l’applicazione di ogni istituto legale o contrattuale normalmente applicabile in forza di un rapporto di lavoro subordinato.
Senonchè, l’argomentazione della Corte diventa assai più incerta quando, poche righe dopo, la stessa precisa che non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia incompatibile con le fattispecie da regolare, che non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c. L’individuazione di tali situazioni di incompatibilità, nel merito delle quali la Cassazione non entra, non potrà che essere demandata al giudice del caso concreto. Così come non può escludersi che il giudice accerti la sussistenza non di una etero-organizzazione, ma di una vera e propria subordinazione ex art. 2094 c.c., rispetto alla quale non si porrebbe nessun problema di disciplina applicabile.
La Corte poi, sia pure in modo sintetico, individua il tratto distintivo dell’etero-organizzazione nel potere unilaterale di imposizione delle modalità di coordinamento. Se queste ultime sono invece stabilite di comune accordo tra le parti, la collaborazione non viene attratta all’interno dell’art. 2 del d.lgs. 81/2015. Il ragionamento della Corte sul punto, poggia sul nuovo testo dell’art. 409, terzo comma, del codice di procedura civile, che, così come riformulato dalla legge 81/2017, offre una definizione di coordinamento basata sul consenso delle parti.
La Corte afferma inoltre che il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprime solo una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola “anche” che assume solo valore esemplificativo.
1. Le pronunce di merito più recenti
Alla controversa vicenda circa la natura autonoma o subordinata del lavoro tramite piattaforma digitale, si aggiunge un altro importante capitolo: si tratta della sentenza n. 3570 del 24.11.2020 del Tribunale di Palermo, che riconosce lo status di lavoratore subordinato ad un rider di Glovo. Tale sentenza, oltre ad enunciare importanti principi di diritto, si caratterizza per un inusuale richiamo ai precedenti giudiziali stranieri, pur ancorando le proprie motivazioni principalmente alle pronunce della Corte di Giustizia dell’UE e all’orientamento della giurisprudenza interna.
Partiamo dalla ricostruzione dei fatti: il rider, dopo essere stato disconnesso dalla piattaforma contro la sua volontà, ricorre giudizialmente al fine di: chiedere l’accertamento della natura subordinata del suo rapporto di lavoro; impugnare la disconnessione, ritendendo che la stessa dovesse essere qualificata alla stregua di un licenziamento orale.
Il Tribunale di Palermo, rileva anzitutto che le piattaforme digitali devono essere considerate delle vere e proprie imprese e non intermediari di servizi. Tale aspetto, secondo il tribunale, risulta di particolare rilievo proprio con riferimento alla qualificazione del rapporto di lavoro. Infatti, come si legge nella sentenza, se le piattaforme possono considerarsi imprese, si apre la possibilità che i suoi collaboratori siano inseriti all’interno di una organizzazione imprenditoriale, nella disponibilità della piattaforma stessa e così del suo proprietario. Rispetto alla citata questione, risulta dirimente, secondo il tribunale, una pronuncia della Corte di Giustizia dell’UE (CGUE, Grande Sezione, 20 dicembre 2017, C-434/15), di cui fa proprie le conclusioni. In tale occasione la Corte ha statuito la natura di impresa di trasporto ai sensi dell’art. 58 par.1 TFUE, della piattaforma Uber: la stessa infatti predisponeva un servizio di trasporto di persone, senza lasciare agli autisti alcun margine di scelta in ordine al costo del servizio e alla sua organizzazione.
Fatta questa premessa, il giudice procede con la ricostruzione della prestazione di lavoro del rider.
Dopo aver passato in rassegna alcune sentenze che, in Italia e in altri Paesi di civil law, si sono pronunciate a favore dell’autonomia o della subordinazione del rapporto di lavoro tra il rider e la piattaforma digitale, la sentenza richiama i principali approdi giurisprudenziali utili alla risoluzione del caso di specie. Innanzitutto il Tribunale osserva che, anche se la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1663/2019, ha affermato che il rider libero di scegliere se e quando lavorare non può essere considerato lavoratore subordinato (ma, al più, collaboratore eterorganizzato), è anche vero che la Corte di Giustizia dell’UE, con ordinanza del 22 aprile 2020, C-692/19, ha ribadito che non può essere considerato lavoratore subordinato colui che gode di una certa autonomia nel decidere se e quando lavorare, a meno che tale autonomia non sia fittizia.
E’ proprio questo l’orientamento recepito dal Tribunale di Palermo, il quale rileva che, nel caso in esame, il rider fosse solo formalmente in grado di decidere l’an e il quantum della prestazione: sebbene infatti tale libertà fosse prevista nel contratto, nei fatti essa risultava fortemente ridimensionata dal concreto funzionamento dell’algoritmo che governava la piattaforma digitale. Come si legge nella sentenza “a tutto concedere, il lavoratore può scegliere di prenotarsi per i turni che la piattaforma (e quindi il datore di lavoro che ne è titolare o ne ha il controllo) mette a sua disposizione in ragione del suo punteggio. Egli, inoltre, per poter realmente svolgere la prestazione, deve essere loggato nel periodo di tempo che precede l’assegnazione della consegna, avere il cellulare carico in misura almeno pari al 20% e trovarsi nella vicinanze del locale presso cui la merce dev’essere ritirata, poiché altrimenti l’algoritmo non lo selezionerà, benchè egli avesse prenotato e non disdetto lo slot, con la conseguenza che, in verità, non è lui che sceglie quando lavorare o meno, poiché le consegne vengono assegnate dalla piattaforma tramite l’algoritmo, sulla scorta di criteri del tutto estranei alle preferenze e allo stesso generale interesse del lavoratore”.
Secondo il Tribunale inoltre, l’algoritmo permette alla piattaforma digitale di esercitare il potere disciplinare tipico del datore di lavoro in un rapporto di lavoro subordinato: proprio l’attribuzione di un punteggio inferiore o superiore a seguito del verificarsi di determinati eventi, costituisce secondo il tribunale, una sanzione disciplinare atipica.
In conclusione, per il giudice, “l’organizzazione del lavoro operata in modo esclusivo dalla parte convenuta sulla piattaforma digitale nella propria disponibilità si traduce, oltre che nell’integrazione del presupposto della eterorganizzazione, anche nella messa a disposizione del datore di lavoro da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative per consistenti periodi temporali ( peraltro non retribuiti) e nell’esercizio da parte della convenuta di poteri di direzione e controllo, oltre che di natura latamente disciplinare, che costituiscono elementi costitutivi della fattispecie del lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.”.
Sulla base di tali presupposti, il Tribunale di Palermo accoglie il ricorso del lavoratore e dichiara la sussistenza ab origine di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (con inquadramento al sesto livello del CCNL terziario, distribuzione e servizi). Inoltre dichiara che il rider ha diritto ad essere reintegrato, qualificando il distacco dalla piattaforma come licenziamento orale e dunque inefficace.
A pochi giorni dalla decisione del giudice di Palermo, il Tribunale di Bologna, con la sentenza del 31 dicembre 2020, accogliendo il ricorso promosso congiuntamente da Nidil Cgil, Filcams Cgil e Filt Cgil contro Deliveroo, ha aggiunto un nuovo tassello al mosaico dei diritti dei lavoratori delle piattaforme digitali che pian piano si sta componendo.
Il Tribunale bolognese ha ritenuto che il sistema di prenotazione degli slot di lavoro, che garantisce priorità nella scelta dei turni ai riders che godono di un ranking reputazionale più alto, sia discriminatorio, dal momento che penalizza in maniera “cieca” chi si assenta dal lavoro, senza tenere conto in alcun modo di quali siano le motivazioni alla base di tale assenza. In tal modo l’algoritmo, finisce per penalizzare indiscriminatamente coloro i quali abbiano deciso, ad esempio, di aderire ad uno sciopero o siano costretti ad assentarsi per malattia, disabilità, ecc…
Considerazioni conclusive
Per concludere, non possiamo sapere in che direzione si andrà, ma si possono facilmente intuire le difficoltà che incontrerà il diritto vivente a misurare uno scenario sempre più complesso al quale deve fornire risposte.
Il settore del food delivery, protagonista di infinite querelle, si conferma il fronte caldo del nostro diritto del lavoro. Si tratta di una frontiera, in continua sperimentazione, per fattispecie giuridiche in rapida evoluzione e che risentono di influenze che ormai travalicano i confini nazionali.
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