Riferimenti normativi: art. 1228 c.c..
Fatto
Una signora, dopo essersi sottoposta ad un intervento per la rimozione di un’ernia discale presso l’Ospedale di zona, effettuava una serie di esami, anche strumentali, dai quali emergevano delle complicanze: il residuo di una lombosciatalgia, dei marcati esiti cicatriziali e soprattutto una recidiva dell’ernia. In ragione di ciò la signora decideva di eseguire un nuovo intervento in una casa di cura privata per ottenere la rimozione delle patologie ancora permanenti. All’esito del suddetto secondo intervento, la paziente otteneva un miglioramento della lombosciatalgia, ma residuavano le altre complicanze che determinavano una difficoltà di deambulazione della signora e l’impossibilità di monopedestazione a sinistra e deficit di forza e resistenza all’arto inferiore sinistro.
Pertanto, la signora conveniva in giudizio l’ospedale ritenendolo inadempiente rispetto alla prestazione professionale eseguita, stante la non correttezza dell’intervento di rimozione della ernia. In particolare, secondo l’attrice vi erano diversi elementi che dimostravano la non corretta esecuzione dell’intervento. In primo luogo, il fatto che la tipologia di intervento cui era stata sottoposta la signora permette di risolvere la problematica di cui era affetta la paziente in un numero molto elevato di casi che si aggira tra il 75 e il 90%. In secondo luogo, il fatto che la recidiva dell’ernia si sia verificata soltanto pochi mesi dopo l’esecuzione del primo intervento (pertanto, ciò dimostrerebbe che le complicanze che sono state successivamente riscontrate fossero, non tanto sintomo di una recidiva della patologia, quanto di una non corretta esecuzione dell’intervento). Infine, oltre al fatto che la mancata risoluzione definitiva della problematica per cui la paziente si era sottoposta all’intervento (l’ernia), anche il sorgere successivamente a detto intervento di nuovi sintomi che in precedenza non erano stati riscontrati, dimostravano la non corretta esecuzione dell’intervento stesso. L’attrice, quindi, chiedeva un risarcimento per danno biologico pari a circa euro 45.000, oltre le spese sanitarie, ed un’ulteriore importo di euro 13.000 circa per la perdita della capacità lavorativa nonché il risarcimento del danno esistenziale del quale si chiedeva una valutazione al giudice secondo equità.
L’azienda sanitaria si costituiva in giudizio respingendo le accuse mosse dall’attrice e chiedendo il rigetto della domanda risarcitoria sulla base dei seguenti assunti. In primo luogo, sosteneva che, in considerazione della patologia che era stata accertata in capo alla paziente, l’ospedale aveva scelto l’intervento più adatto. In secondo luogo, l’intervento era stato correttamente eseguito, al punto tale che la patologia cui era affetta la paziente (l’ernia) risultava completamente rimossa e non era individuabile alcuna complicanza successiva riferibile allo stesso. In terzo luogo, gli aspetti patologici individuati successivamente all’intervento costituivano in alcuni casi conseguenze normali rispetto al medesimo oppure in altri casi patologie irrilevanti oppure comunque non derivanti da una non corretta esecuzione del primo intervento. Infine, la convenuta rilevava che dagli accertamenti che erano stati eseguiti prima di effettuare l’intervento non vi era alcun elemento che facesse ritenere opportuno eseguire il secondo intervento poi effettuato dall’attrice all’interno della clinica privata.
Dopo aver fatto svolgere apposita c.t.u., il giudice riteneva di rigettare la richiesta risarcitoria formulata da parte attrice.
Decisione della Corte
Nella Sentenza oggetto di commento, il Tribunale, nel rigettare la domanda attorea, ha ribadito, aderendo al consolidato orientamento giurisprudenziale della cassazione, che la struttura sanitaria, convenuta in giudizio per responsabilità professionale, può andare esente da detta responsabilità se prova che l’esito dell’intervento, che si discosta rispetto al risultato positivo che normalmente si raggiunge nell’esecuzione di quel tipo di intervento, è derivato da un evento imprevedibile e che il debitore non poteva superare con l’adeguata diligenza.
Secondo il tribunale pisano, infatti, agli esiti della c.t.u. espletata, è emerso che l’intervento chirurgico oggetto di esame da parte del giudice sia stato eseguito correttamente, avendo risolto la patologia di cui era affetta l’attrice: infatti, secondo gli accertamenti compiuti dal perito d’ufficio, l’operazione ha eliminato l’ernia e all’esito della stessa non è rimasta alcuna parte di detta patologia né si è verificata alcuna recidiva della medesima. In secondo luogo, il Giudice – sempre sulla scorta della relazione depositata dal consulente tecnico d’ufficio – ha ritenuto che i dolori che l’attrice ha lamentato dopo l’esecuzione dell’intervento da parte dei sanitari della struttura convenuta dipendono da una formazione fibrosa che ha determinato la recidiva e che invece l’instabilità vertebrale successiva all’intervento sarebbe riferibile ad un indebolimento delle strutture ossee. Ciò detto, il Tribunale ha ritenuto che, secondo la letteratura medico-scientifica, la struttura sanitaria non poteva evitare la formazione del tessuto cicatriziale ed i conseguenti sintomi tipici dell’ernia, né la suddetta instabilità vertebrale.
In ragione di ciò, il giudice ha ritenuto che le suddette complicanze successive all’intervento accertate anche dalla CTU non sono imputabili alla struttura sanitaria, in quanto non derivano, neanche in parte, da un comportamento non diligente o non perito dei sanitari, bensì derivano da situazioni che questi ultimi non avrebbero potuto evitare. Da tale riflessione deriva la mancanza di imputabilità alla struttura sanitaria e quindi l’assenza di una sua responsabilità per inadempimento professionale.
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