Sommario.
- La nozione di giudicato penale: formale e sostanziale
- La ratio
- Il concetto di irrevocabilità ed i provvedimenti suscettibili di divenire irrevocabili
- La definitività della sentenza
- Inoppugnabilità strutturale del provvedimento e decorso dei termini per impugnare
- I mezzi di impugnazione: cenni
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La nozione di giudicato penale: formale e sostanziale
La res in iudicium deducta, sintetizzata nell’imputazione, consta, dunque, di un nucleo fattuale, della sua asserita corrispondenza ad una fattispecie incriminatrice, nonché dell’istanza punitiva sottesa alla contestazione. Sull’oggetto del processo così determinato deve pronunciarsi il giudice di merito, all’esito di un giudizio improntato al rispetto di principi imposti dalla Costituzione[1] e dalle Carte internazionali sui diritti e sulle libertà fondamentali dell’individuo, primo tra tutti l’art. 6 Cedu. La decisione di primo grado è suscettibile di eventuali, successivi controlli di merito e di legittimità, attivati dalle parti insoddisfatte delle statuizioni rese. Tali strumenti, connotati dall’attitudine a condizionare la formazione del giudicato, sono definiti mezzi ordinari d’impugnazione. L’esaurimento di tali gravami, in conseguenza dell’effettivo esperimento del rimedio previsto o anche dell’inerzia delle parti, che manifestano acquiescenza alla pronuncia adottata, segna la fine dell’accertamento giurisdizionale e la conseguente immutabilità della decisione, determinando la trasformazione della res in iudicium deducta in res iudicata[2] formale. La sentenza penale passata in giudicato può spiegare, inoltre, effetti di natura indiretta sia su altre res iudicande penali, in forza degli artt. 236 e 238 bis c.p.p., sia su procedimenti extrapenali, così come previsto dagli artt. 651-654 c.p.p.
La deliberazione, eventualmente transitata attraverso i controlli ordinari previsti dall’ordinamento, acquisisce, convenzionalmente, una connotazione peculiare, vale a dire l’auctoritas rei iudicatae[3], che consolida la sua valenza giuridica. Con la formazione del giudicato, infatti, le statuizioni contenute nel provvedimento giurisdizionale divengono tendenzialmente immodificabili, in relazione a tutte le questioni che sono state sollevate, sicché il decisum, in quest’ottica, copre il «dedotto» e il «deducibile»[4]. Si può affermare, pertanto, che la formazione della cosa giudicata coincide con l’estinzione del potere giurisdizionale di statuire sull’oggetto già deciso in via definitiva, salve le eccezionali ipotesi in cui si aprono nuovi spazi di intervento. Il giudicato formale, sia pure nei limiti appena evidenziati, rende la decisione intangibile per i giudici che l’hanno emessa e per quelli che, sulla stessa, sono intervenuti in funzione di controllo[5]. Esso, cioè, tende ad impedire, nell’ambito del medesimo processo, una pluralità indefinita di pronunce sullo stesso oggetto. Occorre subito chiarire, però, che l’indagine va necessariamente circoscritta, non solo per esigenze di sintesi, ad un determinato contesto normativo, contenendola entro i confini del vigente ordinamento processuale. Secondo la scelta operata dal legislatore del 1988, che ricalca, peraltro, quella sottesa alla formulazione dell’art. 576, 2° co., del codice abrogato, il passaggio in giudicato è proprio, innanzitutto, delle decisioni suscettibili di acquisire il carattere della irrevocabilità, vale a dire le sentenze pronunciate in giudizio e i decreti penali di condanna ( art. 648 c.p.p.).
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La ratio
La ratio del giudicato, dunque, permette di affermare che l’autorità extrapenale del giudicato è riconosciuta solo in applicazione delle espresse prescrizioni dettate dalla legge, rappresentando una deroga al principio di autonomia e separazione fra i giudizi.
La pronuncia definitiva può essere, tuttavia, rimessa in discussione con gli strumenti che il sistema appresta, in ragione d’interessi ritenuti prevalenti, per trascendere la res iudicata. I mezzi d’impugnazione straordinari e gli altri rimedi ai quali è ricollegabile un analogo effetto demolitorio del giudicato, finiscono, dunque, per ridimensionare la stabilità naturalmente associata ai provvedimenti divenuti definitivi.
Limitata agli aspetti formali, la definizione del giudicato fornisce, tuttavia, una visione solo parziale dell’istituto. La dottrina[6], infatti, ha analizzato il fenomeno anche dal punto di vista “sostanziale”, in relazione alle conseguenze che la decisione definitiva è suscettibile di produrre in procedimenti diversi da quello concluso con il provvedimento che la contiene.
Il giudicato sostanziale, racchiuso nella sentenza penale irrevocabile (con esclusione del decreto penale, non presupponendo questo una disamina approfondita, nel contraddittorio delle parti, di reità), proietta il suo accertamento di verità anche fuori del campo penale, nei giudizi civili, amministrativi e disciplinari, che traggono origine dagli stessi fatti materiali, oggetto del processo penale, se coinvolgono tutti o alcuni dei soggetti che in sede penale avevano veste di parte privata (imputato, parte civile, responsabile civile).
La maggiore affidabilità del metodo di ricerca della verità, nel processo penale, è a fondamento di questa riconosciuta prevalenza del giudizio penale su quelli extra-penali aventi ad oggetto la stessa materialità di fatti. Siffatta efficacia extra-penale è tuttavia variamente calibrata secondo la natura del diverso giudizio extra-penale (artt. 651-654).
Con l’espressione “giudicato sostanziale” si rinvia all’insieme delle regole che disciplinano l’efficacia esterna, diretta e riflessa[7], dell’accertamento contenuto nella decisione definitiva. Si designa, appunto, il complesso degli effetti della pronuncia non più impugnabile in via ordinaria che si proiettano in altri procedimenti. Tali effetti possono essere sistematicamente raggruppati in due categorie. Va considerato, in primo luogo, il cosiddetto ne bis in idem, che sancisce l’ impossibilità di instaurare un nuovo procedimento avente ad oggetto la res iudicata già definita. Il divieto, positivamente enunciato nell’art. 649 c.p.p., compendia quelli che sono convenzionalmente definiti effetti negativi, o, secondo autorevole dottrina, effetti diretti[8], del giudicato, in quanto volti ad impedire «una illimitata pluralità di processi de eadem re»[9]. Nell’accezione dell’art. 649 c.p.p., il principio del ne bis in idem stabilisce una preclusione rigorosa, impedendo che un individuo, già giudicato con sentenza pronunciata in giudizio o con decreto penale di condanna, sia nuovamente sottoposto a procedimento penale per lo stesso fatto storico.
Per l’ordinamento interno, la preclusione presuppone il passaggio in giudicato della sentenza mentre, invece, per parte della giurisprudenza e per le fonti sovranazionali, la preclusione opera anche se i procedimenti sono solo pendenti.
Gli effetti preclusivi non si esauriscono, tuttavia, in quelli contemplati dall’art. 649 c.p.p.: anche il passaggio in giudicato dei provvedimenti adottati rebus sic stantibus dà luogo ad un divieto, meno intenso di quello prodotto dalle sentenze e dai decreti penali, ma comunque idoneo a precludere una nuova pronuncia sulla medesima res iudicata. Il giudicato sostanziale, tuttavia, presenta margini di flessibilità che investono tanto l’accertamento giudiziale, quanto il comando da portare ad esecuzione. Dal primo punto di vista, l’ordinamento prevede alcuni mezzi d’impugnazione straordinari, eccezionalmente volti ad un nuovo giudizio sul fatto, quali, ad esempio, la revisione.
In merito al secondo profilo, invece, il comando contenuto nella decisione è sottoposto a progressivi aggiustamenti affidati al giudice dell’esecuzione e alla magistratura di sorveglianza, entrambi chiamati a rendere effettivo il finalismo rieducativo della pena sancito all’art. 27 Cost.
Possono, invece, qualificarsi come effetti positivi del giudicato, le conseguenze che l’accertamento definitivo spiega in altri procedimenti ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p, penali, civili, amministrativi o disciplinari, non solo formalmente distinti, ma attinenti, altresì, a materie diverse da quella già decisa. Viene in rilievo, sotto tale profilo, l’idoneità del giudicato ad esprimere dati conoscitivi su cui fare affidamento in altri giudizi, che riguardano, di regola, situazioni giuridiche collegate a quella già decisa.
Due interrogativi, in particolare, si pongono: il primo attiene al caso in cui l’impugnazione sia proposta (o il giudizio d’impugnazione prosegua) con riguardo ad una sola parte della sentenza, dovendosi stabilire se il giudicato sia o no configurabile sulle parti residue (c.d. ” giudicato parziale “); il secondo concerne il rapporto fra inammissibilità del gravame e irrevocabilità, dovendosi chiarire se, quanto al momento in cui la sentenza diviene irrevocabile, debba distinguersi fra le varie cause di inammissibilità. Non sempre la sentenza è impugnata per intero: essa può formare oggetto di gravame limitatamente ad un ” capo ” (per tale intendendosi, nelle sentenze pronunciate nei confronti di più imputati o di un solo imputato per più reati, la parte di sentenza che decide su ciascun imputato o ciascuna imputazione, ovvero, nelle sentenze che pronunciano anche sull’azione civile, l’insieme delle statuizioni concernenti tale azione, contrapposto all’insieme delle statuizioni penali) o ” punto ” (per tale intendendosi ogni questione, dotata di autonomo rilievo, che all’interno di ciascun capo o dell’unico capo di sentenza sia stata risolta dal giudice ai fini della decisione: si pensi all’accertamento del fatto, alla sua qualificazione giuridica, alla determinazione della pena)[10].
Anche su questo fronte, occorre distinguere gli effetti prodotti da un provvedimento divenuto irrevocabile, espressamente previsti dal legislatore, da quelli, estranei al codice, che possono scaturire dal passaggio in giudicato di una pronuncia adottata allo stato degli atti.
Appurata la natura dei provvedimenti suscettibili di divenire res iudicata[11], l’indagine volta a delimitarne l’oggetto non può dirsi ancora completa. Il giudicato va posto in relazione ai capi e ai punti della decisione, che trovano nel dispositivo la loro completa e definitiva enunciazione. Ciò perché non sempre la res iudicata corrisponde esattamente alla res in iudicium deducta, delineata nell’atto di impulso che ha sollecitato l’esercizio del potere giurisdizionale, dovendosi tener conto della possibilità, talvolta concessa al giudice, di superare l’ambito di cognizione delimitato dal petitum, come può accadere, ad esempio, in sede di riesame di una misura cautelare reale o personale. Rilevano, quindi, ai fini di una corretta individuazione dell’oggetto del giudicato, anche i poteri decisori esercitabili ex officio dal giudice, ma si tratta pur sempre di ipotesi eccezionali, che non valgono a sovvertire – in un sistema improntato alla tendenziale valorizzazione dei caratteri dell’accusorietà[12].
3.1.Il concetto di irrevocabilità ed i provvedimenti suscettibili di divenire irrevocabili
La determinazione del momento in cui la sentenza penale diviene irrevocabile e, quindi, diviene oggetto di giudicato formale, è problema di estremo rilievo, poiché a partire da tale istante la pronuncia da un lato è tendenzialmente sottratta ad eventuali modifiche e, dall’altro, acquista forza esecutiva, sì che i comandi in essa contenuti possono trovare concreta attuazione[13]. La legge collega l’irrevocabilità della sentenza alla sua inoppugnabilità, originaria o sopravvenuta, con i mezzi ordinari di gravame.
L’art. 648 c.p.p. stabilisce che le sentenze impugnabili in via ordinaria divengono irrevocabili. Le sentenze pronunciate in giudizio divengono irrevocabili quando contro di esse non è più ammesso un gravame diverso dalla revisione prevista dagli artt. 629 e ss c.p.p. e dal ricorso straordinario per cassazione ex art. 625-bis c.p.p.
L’irrevocabilità, quindi, dipendendo dall’esaurimento dei mezzi di impugnazione ordinari, può derivare dal previo esaurimento dei gravami previsti dall’ordinamento, dalla strutturale impossibilità di censura, dall’infruttuoso decorso dei termini senza che sia proposta impugnazione ordinaria o, infine, dalla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione proposta non seguita doglianze nuove e tempestive . Nel primo caso, il giudicato consegue alla definitività delle pronunce della Cassazione, non più sottoponibili a controllo, neppure ad opera di un organo di pari autorità e grado[14]. Occorre affermare che il principio della generale ricorribilità delle sentenze innanzi alla Suprema Corte, di cui all’art. 111 comma 7 Cost., intenderebbe assicurare, nella legislazione ordinaria, la tutela giurisdizionale dei diritti con statuizioni dotate dell’autorità di giudicato. Si osserva che, poiché nella tradizione del nostro ordinamento processuale il giudizio di cassazione, che è l’unico gravame costituzionalizzato mentre, invece, i gravami di merito sono stati introdotti per scelta del legislatore ma non sono costituzionalmente imposti, costituisce l’ultimo grado nelle serie delle impugnazioni ordinarie, la sua conclusione deve segnare anche quella del processo, con il costituirsi del giudicato formale[15]. Nel secondo caso si presuppone, invece, la normale esperibilità dei rimedi d’appello o del ricorso per Cassazione e l’intervenuta decadenza dal potere in virtù del mancato rispetto dei termini, previsti a pena di decadenza; la mancata attivazione della parte, sia per inerzia incolpevole, sia per acquiescenza all’atto suscettibile di critica, comporta il sorgere del giudicato formale e sostanziale[16]. Nel terzo caso, l’inoppugnabilità della sentenza può dipendere dalla declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione proposta, qualora non segua tempestivo ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza resa dal giudice superiore o non venga riproposto un nuovo e tempestivo gravame. La cosa giudicata, inoltre, si atteggia diversamente a seconda della specifica causa di inammissibilità di cui risulta inficiato l’atto di gravame. Lo attesta in maniera inequivocabile il dato normativo dell’art. 648 c.p.p., il quale statuisce la simultaneità tra il passaggio in giudicato della decisione e l’insorgenza della causale di inammissibilità nelle sole ipotesi di impugnazione tardiva ovvero proposta avverso provvedimenti inoppugnabili. Situazioni, queste ultime, di invalidità genetica dell’atto petitorio e subito percepibili dall’organo giurisdizionale senza dover procedere ad alcuna delibazione dei motivi proposti. La mancata critica delle ragioni che impediscono la normale instaurazione del gravame determina piena consunzione del potere giurisdizionale: il decisum contenuto nella sentenza diviene inoppugnabile, una volta definito l’accertamento circa la non ammissibilità di un nuovo giudizio[17].
La pronuncia conclusiva del dibattimento, sia essa di proscioglimento ex art. 529 ss c.p.p. che di condanna ex art. 533 c.p.p. , diviene irrevocabile quando sono stati esperiti tutti gli strumenti di impugnazione concessi[18]. Alle pronunce rese in esito al dibattimento ordinario devono essere equiparate quelle che seguono al giudizio immediato e direttissimo, trattandosi di sentenze dibattimentali a tutti gli effetti. Il decreto penale di condanna, come la sentenza dibattimentale, è provvedimento idoneo a generare la res iudicata formale, una volta conseguita l’irrevocabilità[19]. La definitività è fatta dipendere dalla mancata opposizione a decreto, nei termini perentori indicati dall’art. 461 c.p.p., ovvero dall’acquiescenza al provvedimento che ha dichiarato l’inammissibilità dell’opposizione già proposta. In modo del tutto analogo, genera irrevocabilità il mancato rispetto delle forme, prescritte a pena di inammissibilità per l’atto di opposizione, quando il provvedimento che ne dichiari il vizio non sia stato tempestivamente impugnato, nonché la sentenza terminativa del giudizio abbreviato, che si atteggia in maniera del tutto simile alla pronuncia dibattimentale[20]; essa può essere ricondotta alla nozione di sentenza pronunciata in giudizio, cui fa riferimento il co. 1 dell’art. 648 c.p.p., in quanto deliberata secondo le medesime regole processuali e usufruendo di poteri decisori del tutto analoghi, seppur sulla base di un substrato probatorio non formato nel contraddittorio tra le parti[21].
Quanto alla sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p., pur trattandosi di una pronuncia che non comporta una verifica piena del merito della colpevolezza dell’accusato[22], essa è suscettibile di divenire cosa giudicata per effetto dell’esaurimento dei mezzi ordinari di impugnazione.
Con riferimento alla sentenza di non luogo a procedere, infine, si è sostenuto che essa sia insuscettibile d’irrevocabilità, in quanto espressamente revocabile per statuto normativo secondo il meccanismo delineato dagli artt. 434 ss. c.p.p. L’articolo citato prevede che, nel caso in cui, dopo la sentenza di non luogo a procedere di cui all’articolo 425 del codice di procedura penale, sopravvengano ovvero si scoprano nuove fonti di prova che – da sole ovvero assieme a quelle già acquisite – siano tali da determinare il rinvio a giudizio, il giudice per le indagini preliminari, su istanza del p.m., deve disporre la revoca della sentenza.
Il soggetto deputato a chiedere la revoca, pertanto, è il Pubblico Ministero che, nella richiesta, deve indicare e nuove fonti di prova sulle quali si fonda l’istanza, specificando se queste sono già state acquisite o meno; nel primo caso, assieme alla richiesta di revoca avanza contestualmente anche il rinvio a giudizio, nel secondo caso viene richiesta la riapertura delle indagini. Unitamente alla richiesta, sono trasmessi presso la cancelleria del Giudice gli atti concernenti le nuove fonti di prova.
Nel caso in cui il giudice dichiari l’inammissibilità dell’istanza, egli decide in Camera di Consiglio, ai sensi dell’articolo 127 del c.p.p., quindi senza la necessaria presenza del pm, delle parti e della persona offesa che, tuttavia, hanno il diritto di esserne avvisate.
3.2.La definitività della sentenza
La definitività della sentenza determina, ad ogni modo, una preclusione al nuovo esercizio dell’azione sino a che non sia attivato il meccanismo codicistico. Decisamente più ampi, quindi, sono gli spazi concessi dall’art. 434 c.p.p., che consente la revoca della sentenza di non luogo a procedere quando sopravvengono o si scoprono nuove fonti di prova tali da giustificare, da sole o unitamente a quelle già in atti, il rinvio a giudizio dell’imputato[23]. Si coglie, così, lo stretto collegamento tra la natura della decisione e il grado di stabilità dell’accertamento ad essa sotteso, posto che il novum probatorio sufficiente a riportare sub iudice la sentenza emessa ex art. 425 c.p.p., non deve necessariamente risultare decisivo per una diversa definizione del procedimento penale.
Importante ai nostri fini è verificare, attraverso una ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale, la tenuta del principio di intangibilità del giudicato rispetto alle decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nonché rispetto agli effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale. Dall’analisi emerge come il giudicato sia stato ritenuto, a determinate condizioni, “cedevole” rispetto alle decisioni delle Corti europee, benché i confini di tale fenomeno, in costante evoluzione, non possano dirsi oggi precisamente individuati. Sul fronte interno, invece, l’impianto costituzionale sembra escludere che il giudicato civile possa recedere rispetto alla sentenza di incostituzionalità della norma sulla cui base lo stesso si sia formato. Il giudicato penale, invece, tende a cedere sia di fronte ad abrogazioni di fattispecie incriminatrici, sia di fronte a declaratorie di legittimità costituzionale di norme incriminatrici, ma anche di norme che incidono sul trattamento sanzionatorio. In questo caso, infatti, occorre distinguere in maniera chiara tra quello che l’ordinamento ha sempre previsto e, cioè, la revoca della sentenza per abolitio criminis (che attiene, in generale, alla retroattività della lex mitior) e la progressiva estensione di tale istituto anche alle ipotesi in cui la declaratoria di illegittimità costituzionale abbia inciso unicamente sul trattamento sanzionatorio. Quest’ultima, infatti, è una ipotesi nuova, che ha una sua ratio e che è stata elaborata in via pretoria. Ne è un esempio la sentenza c.d. Gatto[24], la quale afferma che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice (nella specie dell’art. 69, comma quarto, c.p., intervenuta con sentenza n. 251 del 2012 della Corte costituzionale), idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la necessità di rideterminare la pena inflitta, anche dopo che sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna.
Emerge la necessità di contenere le spinte volte a estendere l’area della “cedevolezza” del giudicato rispetto al diritto europeo e convenzionale, onde preservare la certezza del diritto garantita dal giudicato, rendendosi altrimenti difficilmente giustificabile il diverso trattamento riservato alle sentenze della Corte costituzionale e dunque alle norme costituzionali interne rispetto al diritto di derivazione europea.
E’ noto che con la sentenza Scoppola del 2009[25] la Corte Edu ha rilevato una violazione degli artt. 6 e 7 Cedu ai danni di un soggetto condannato per gravi delitti contro la persona. Dopo aver presentato richiesta di rito abbreviato, poiché l’art. 442 c.p.p. contemplava la sostituzione della pena perpetua con quella di trent’anni, il reo si è visto ugualmente infliggere l’ergastolo, dopo l’emanazione dell’art. 7 d.l. 340/2000, teso a modificare in senso peggiorativo il trattamento sanzionatorio conseguente alla scelta del rito alternativo. I problemi in sede di attuazione della sentenza Cedu sono due: il primo concerne, appunto, la necessità di portare ad esecuzione le decisioni della corte in relazione al singolo ricorrente che ha adito i Giudici di Strasburgo; il secondo, invece, concerne la posizione dei cd. “fratelli minori” e, cioè, di coloro che, pur non essendosi rivolti alla CEDU, si trovano in una situazione del tutto analoga a quella in cui versava il ricorrente principale. Di tale ultimo profilo, tuttavia, non fai menzione.
Il contrasto di tale normativa con la Cedu ha posto l’esigenza di eliminare le conseguenze negative prodotte dalla stessa a carico di tutti i soggetti che, pur trovandosi nella stessa situazione di Scoppola, non hanno presentato ricorso alla Corte di Strasburgo, risultando dunque condannati all’ergastolo con sentenza passata in giudicato. La Cassazione a Sezioni Unite, nel 2014, ha ribadito la portata valoriale del giudicato[26], nel quale sono insite ragioni di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici che, tuttavia, devono considerarsi soccombenti rispetto all’esigenza di assicurare il rispetto dei principi di legalità della pena e di libertà personale (artt. 13 e 23 Cost.). Il soddisfacimento di tali esigenze, dunque, si impone anche in fase esecutiva, atteso che la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata da una legge conforme a Costituzione, dovendo assolvere, altresì, la funzione rieducativa imposta dall’art. 27 co. 3 Cost.
Il problema dei rapporti tra giudicato penale e declaratoria di incostituzionalità di norme sanzionatorie ma non incriminatrici si era posto con riguardo al caso in cui, riconosciuta con sentenza penale definitiva una circostanza aggravante, sia successivamente dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma circostanziante applicata. Il problema emerge anche nel caso in cui venga censurato il meccanismo di bilanciamento di cui all’art. 69 come, ad esempio, è avvenuto con riferimento agli automatismi previsti in relazione alla recidiva. Tale problema si è recentemente posto a seguito della declaratoria di incostituzionalità della circostanza aggravante della clandestinità contemplata dall’art. 61, n. 11 bis c.p, con sentenza del 2010[27]. Sono, al riguardo, emerse due posizioni. Per la prima, risalente al 2012, deve essere esclusa l’eseguibilità della porzione di pena inflitta dal giudice della cognizione in conseguenza dell’applicazione di una circostanza aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima. La Corte ha ritenuto di risolvere la questione facendo applicazione della disciplina generale riguardante gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale, contenuta nell’art. 30, l. 87/53, il quale menziona le norme dichiarate incostituzionali con riguardo alle disposizioni incidenti sul solo trattamento sanzionatorio.
Secondo un diverso orientamento, invece, non si potrebbe rideterminare la pena inflitta in applicazione dell’art. 61, n. 11 bis c.p., posto che l’art. 30 co.4 l. 87/1953 si riferirebbe solo alle norme alle declaratorie di illegittimità costituzionale concernenti fattispecie incriminatrici, come si evince dalla disposta cessazione di ogni effetto penale della condotta, conseguibile alla sola abolitio criminis.
Tra il 2012 ed il 2014 poi, sono state pronunciate plurime dichiarazioni di illegittimità costituzionale dell’art. 69 co. 4 c.p., così come modificato dalla l. 251/2005, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza di talune circostanze attenuanti speciali c.d. indipendenti sulla c.d. recidiva reiterata ex art. 99 co. 4 c.p., in ragione del rilevato contrasto con gli artt. 3 e 27 co.3 Cost: il riferimento è alla lieve entità dei delitti in materia di stupefacenti ex art. 73 co.5 d.p.r. 309/90, alla particolare tenuità della ricettazione ex art. 648 co.2 c.p., alla minore gravità della violenza sessuale ex art. 609 bis co. 3 c.p., alla attenuante premiale ex art. 73 co. 7 d.p.r. n. 309 del ’90.
In riferimento alla declaratoria di incostituzionalità della disciplina sugli stupefacenti, una sentenza del 2014 ha determinato la reviviscenza del d.p.r. n. 309 del 1990, l’art. 73 dell’originaria formulazione, che prevede sanzioni più miti per le c.d. droghe leggere, assoggettate dal 2006 al 2014, alla medesima cornice edittale prevista per le c.d. droghe pesanti. Ciò ha imposto la necessità di revisionare in sede esecutiva le sentenze irrevocabili volte a quantificare la pena sulla base della normativa poi dichiarata incostituzionale, facendo applicazione del principio di diritto enunciato dalla sentenza Gatto: successivamente ad una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena che non sia stata interamente espiata dal giudice dell’esecuzione.
La pronuncia del 2014[28] ha posto tre problemi ermeneutici nuovi: il testo dell’art. 73 ha comportato la necessità di misurare la pena su una cornice edittale distinta da quella considerata nel processo di cognizione; è risultato incerto se il giudice dell’esecuzione sia tenuto a ricalcolare la pena inflitta solo ove ecceda il massimo edittale previsto dall’originario art. 73, ovvero sia abilitato a farlo in riferimento ad ogni condanna per reati aventi ad oggetto droghe c.d. leggere, in ragione della mutata cornice sanzionatoria; è risultato dubbio il trattamento delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, ove la sanzione da infliggere sia stata quantificata in riferimento alla forbice edittale risultata incostituzionale.
In particolare, nel 2015, le Sezioni Unite[29] sono state chiamate a chiarire se, per i delitti previsti dal d.p.r. n. 309 del ’90, in relazione alle droghe c.d. leggere, la pena applicata con sentenza di patteggiamento sulla base della normativa dichiarata incostituzionale debba essere rideterminata anche nel caso in cui la stessa rientri nella nuova cornice edittale applicabile. La Suprema Corte ha offerto al quesito risposta affermativa. In definitiva, è illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato sui limiti edittali dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla legge n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità.
La sentenza penale irrevocabile, ancor prima dell’intervento novellistico introduttivo dell’art. 238 bis c.p.p., ai sensi dell’art. 236 c.p.p. poteva essere acquisita in un altro processo ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato, sulla credibilità di un testimone o, se il fatto deve essere valutato in relazione al comportamento o alle qualità morali della persona offesa dal reato, sulla personalità di quest’ultima. Il tema di prova rilevante ai sensi dell’art. 236 c.p.p. è limitato, dunque, al giudizio sulla personalità dei soggetti processuali indicati dal legislatore, non potendo assumere alcuna valenza ai fini della dimostrazione delle altre circostanze afferenti al thema probandum.
Molto più vasta è la portata dell’art. 238 bis c.p.p., in forza del quale le sentenze irrevocabili, siano esse di condanna o di assoluzione pronunciate all’esito del giudizio dibattimentale o del giudizio abbreviato, possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato. Peraltro, secondo la giurisprudenza di legittimità[30], la sentenza divenuta irrevocabile ed acquisita come documento non ha efficacia vincolante, ma va liberamente apprezzata dal giudice unitamente agli altri elementi di prova: per la valutazione probatoria, cioè, sono necessari riscontri esterni che ne confermino il contenuto. Tali riscontri possono fondarsi su elementi già utilizzati nell’altro giudizio, sempre che gli stessi non vengano recepiti acriticamente, ma siano sottoposti a nuova ed autonoma valutazione da parte del giudice. La Suprema Corte ha, altresì, precisato[31] che la possibilità di acquisire le sentenze divenute irrevocabili ai fini della prova dei fatti in esse accertati riguarda esclusivamente le sentenze pronunziate in altro procedimento penale e non anche quelle pronunziate in un procedimento civile, attese le evidenti e sostanziali asimmetrie che caratterizzano la valutazione della prova nei due diversi ordinamenti processuali. Invece, la sentenza di patteggiamento pronunciata in altro procedimento penale, stante l’equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna, potrà essere acquisita e valutata ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p[32].
Attraverso questo utilizzo, nel rispetto dei limiti previsti, il provvedimento divenuto cosa giudicata spiega effetti indiretti “costitutivi” sulla res iudicanda del nuovo processo, la quale è ovviamente diversa da quella del procedimento originario ma ad essa collegata in misura variabile[33]. Il giudice del nuovo processo resta sostanzialmente libero di valutare la sentenza irrevocabile acquisita ex art. 238 bis c.p.p., che potrà essere utilizzata nella nuova res iudicanda per ritenere provato il fatto accertato.
Una recente sentenza delle Sezioni Unite penali, nel richiamare la decisione n. 210 del 2013 della Corte costituzionale sul citato caso Ercolano[34], ha affermato che “non esiste alcuna ragione per ritenere flessibile e cedevole il giudicato, quanto al trattamento sanzionatorio, fondato su norme nazionali violatrici della Cedu e, per contro, intangibile quello fondato su norme dichiarate illegittime per violazione della Costituzione[35]. Il caso in questione riguardava gli effetti di una dichiarazione di incostituzionalità di norme penali rispetto a un caso già deciso con sentenza passata in giudicato e non può certo obliterarsi la differenza tra il giudicato civile e quello penale. Il giudicato penale, come si legge nella succitata sentenza delle Sezioni Unite penali, ha la sua ratio essenzialmente nel divieto di bis in idem, mentre il giudicato civile consiste nell’accertamento che fa stato a ogni effetti tra le parti, assicurando la certezza e la stabilità dei rapporti. Né può trascurarsi che l’art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953, secondo la costante interpretazione di cui in precedenza si è dato conto, costituirebbe una deroga per la materia penale al principio di salvezza del giudicato dinanzi a una sentenza di incostituzionalità. Tuttavia, se questa è l’interpretazione finora prevalsa, a fronte di un progressivo cedimento del giudicato sul fronte europeo, non potrebbe escludersi un ripensamento della “tenuta” del giudicato basato su norma incostituzionale[36]. Non a caso, proprio nella dottrina costituzionalistica sono stati avanzati dubbi sulla correttezza della comune interpretazione dell’art. 30, comma 4, cit. quale “eccezione” al principio di salvezza del giudicato, potendo lo stesso essere interpretato anche come mera “assicurazione” che la condanna penale basata su norma dichiarata incostituzionale non debba mai e in alcun modo avere effetto: in altre parole, detta norma non porrebbe un chiaro divieto di rimozione del giudicato civile. Né va dimenticato che, in passato, un certo numero di pronunce della Corte di cassazione, avevano mostrato un’apertura alla possibilità che le sentenze della Consulta potessero incidere anche su rapporti esauriti[37]. D’altra parte, i diritti fondamentali non riguardano la sola sfera della libertà personale e il loro rispetto dovrebbe essere uniformemente garantito, tanto in dipendenza di una violazione convenzionale o eurounitaria quanto a seguito di una violazione diretta della Costituzione. E una volta che si accolga la tesi secondo cui, al pari delle altre garanzie costituzionali, anche la protezione del giudicato dagli effetti retroattivi dello jus superveniens si trovi esposta al bilanciamento con altri valori costituzionali (ad esempio, con quello dell’uguaglianza ex art. 3 Cost.)[38], o che lo stesso possa cedere a fronte di preminenti interessi derivanti dall’adesione a trattati e convenzioni europee, un simile risultato potrebbe ritenersi conseguibile anche per effetto di una sentenza di incostituzionalità: questa volta davvero “con buona pace dei quadrata e dei rotunda”[39].
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Inoppugnabilità strutturale del provvedimento e decorso dei termini per impugnare
Il giudicato va distinto da altri istituti processuali, che sono caratterizzati, almeno in apparenza, da analoghi effetti inibitori. È il caso, ad esempio, della preclusione, che si sostanzia nell’impedimento a compiere un determinato atto del procedimento penale per cause comunque riconducibili ad un precedente comportamento tenuto dalla parte[40]. L’effetto preclusivo può scaturire, infatti, dall’inerzia manifestata fino alla scadenza di un termine perentorio[41], dall’esercizio di un diritto o di una facoltà incompatibile con altra iniziativa processuale[42], dal mancato adempimento di un onere strumentale ad una specifica attività[43] o dall’avvenuto compimento dell’atto, che impedisce di rinnovarlo o anche solo di reiterarlo[44]. Qualunque ne sia la causa, la preclusione si traduce sempre in un divieto[45], che il legislatore pone per disciplinare l’ordine e la scansione temporale delle attività attraverso le quali si snoda la vicenda giudiziaria. Nel modus operandi dell’istituto si coglie l’analogia con l’effetto tipico del giudicato, icasticamente definito, non a caso, la «somma preclusione»[46]. Ma, al di là del tratto comune, la differenza appare comunque evidente, ove si consideri che la preclusione ad acta esaurisce la sua funzione all’interno della sequenza procedimentale, regolandone la progressione, mentre il giudicato opera a processo ultimato, al fine di garantire l’intangibilità della pronuncia definitiva[47].
Il principio di intangibilità del giudicato, pertanto, per le insite finalità di tutela della certezza del diritto e della stabilità dei rapporti giuridici, è stato per diverso tempo un punto fermo nel nostro ordinamento.
Secondo l’opinione prevalente, infatti, la sentenza irrevocabile emessa all’esito di un procedimento giudiziale cristallizzerebbe l’applicazione della legge penale al caso singolo e ciò non sarebbe passibile di deroghe, se non nei casi stabiliti dalla legge, i più importanti dei quali riguarderebbero le ipotesi di abolitio criminis.
Dal principio che impone la garanzia costituzionale del controllo di legittimità avverso provvedimenti aventi natura decisoria si desume il corollario della susseguente insindacabilità delle decisioni assunte dalla suprema corte[48].
Il principio dell’incensurabilità delle pronunce della cassazione, qualsiasi forma esse assumano, è stato a più riprese ribadito dalla Corte Costituzionale, che ha sottolineato come esso, «oltre ad essere rispondente al fine di evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo, sia connaturale alla funzione di giudice ultimo della legittimità, affidata alla medesima Corte di Cassazione dall’articolo 111 cost.»[49]. In altri termini, l’esistenza di una pronuncia terminale del giudizio è reputata in linea con la previsione di un sistema di critica di natura ordinaria, che consenta l’immediata rivisitazione del decisum innanzi al giudice superiore: porre un limite al sindacato alle pronunce della Suprema Corte significa tutelare «un valore costituzionalmente protetto, in quanto ricollegabile sia al diritto della tutela giurisdizionale (articolo 24 Cost. la cui effettività risulterebbe gravemente compromessa se fosse sempre possibile discutere sulla legittimità delle pronunce di Cassazione), sia al principio della ragionevole durata del processo». La Costituzione impone il controllo di legittimità rispetto a tutti i provvedimenti che manifestano natura decisoria: l’articolo 111 comma 7 riconosce tale diritto quale ultimo momento di verifica delle violazioni della legge sostanziale e processuale. L’effettività del sindacato costituisce condicio sine qua non del passaggio in giudicato della sentenza, poiché delinea un diritto soggettivo puro, enucleabile dall’articolo 27 co. 2 cost.: il superamento della presunzione di innocenza esige un previo controllo di legittimità della condanna inflitta[50]. Oltre alle sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione, appartengono al novero delle pronunce insuscettibili di gravame mediante uno strumento ordinario, quelle concernenti il conflitto di giurisdizione o di competenza a norma dell’articolo 28 (articolo 568 comma 2). Contro di esse non è proponibile alcun mezzo di impugnazione, anche in virtù dell’esistenza di un sub-procedimento incidentale riservato alla Suprema Corte avente la finalità di dirimere, in via insindacabile, eventuali questioni sul riparto della competenza e della giurisdizione[51]. Merita rilevare, tuttavia, come tali provvedimenti non siano idonei a divenire cosa giudicata formale[52]. Allo stesso modo, anche la pronuncia resa della Cassazione in esito al procedimento disciplinato dagli articoli 30 ss c.p.p., volta a risolvere il conflitto sollevato dal giudice precedente, è definitiva e assume valore vincolante nel corso del processo. Anche questa decisione, seppur incontrovertibile, non assume caratteri del irrevocabilità.
Il presente lavoro non può prescindere dall’analisi della circostanza del decorso del termine per impugnare. Se l’impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando sia inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. Unico presupposto implicito, richiesto dal meccanismo legale, è l’adempimento delle condizioni di conoscibilità del provvedimento: tutti gli incombenti necessari a consentire il tempestivo esercizio del potere di critica della decisione devono essere correttamente compiuti, così da evitare situazioni riconducibili al c.d. giudicato apparente. Non importa che la parte abbia volontariamente inteso accettare gli effetti della pronuncia: anche la semplice dimenticanza può validamente costituire elemento utile alla progressiva formazione del giudicato formale, salvo che non sussistano elementi che possano giustificare una restituzione del termine ai sensi dell’articolo 175: il caso fortuito, la forza maggiore, la mancata conoscenza effettiva del decreto penale di condanna possono far sì che l’ostacolo costituito dal decorso del termine perentorio sia superato, reintegrando l’esercizio del potere di critica al quale non si era, in effetti, mai inteso rinunciare. La realtà descritta postula la mancata impugnazione del provvedimento. Nondimeno, quando sia presentato un gravame tardivo, i termini del discorso non mutano dovendo intendersi il rispetto del termine perentorio quale condizione legale sufficiente all’irrevocabilità: la sentenza diviene così giudicato formale per il mancato rispetto dell’articolo 585. La declaratoria di inammissibilità cui è chiamato il giudice non tempestivamente adito riveste in evenienza, un ruolo meramente ricognitivo del passaggio in giudicato, poiché si limita a rilevare l’intervenuta decadenza dal potere di proporre impugnazione, consentendo la successiva apertura del momento esecutivo connesso all’irrevocabilità[53]. Per una parte della giurisprudenza, la pronuncia diviene automaticamente revocabile soltanto in caso di mancata impugnazione. Di contro, in caso di impugnazione tardiva, il passaggio in giudicato si realizza soltanto allorché sia divenuto definitivo il provvedimento che ne dichiara l’inammissibilità[54].
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I mezzi di impugnazione: cenni
I mezzi di impugnazione si distinguono in:
– ordinari, ovvero esperibili prima che il provvedimento sia passato in giudicato (appello e ricorso per cassazione);
– straordinari, ovvero esperibili contro un provvedimento passato in giudicato (revisione e revoca della sentenza di non luogo a procedere).
Anche l’opposizione al decreto penale di condanna rientra tra i mezzi di impugnazione.
Per quanto attiene la forma, l’art. 581 c.p.p. richiede che l’impugnazione sia proposta con atto scritto in cui siano “indicati” il provvedimento impugnato, la data del provvedimento, e il giudice e “enunciati:
– i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione;
– le richieste;
– i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”.
L’impugnazione va presentata, a norma dell’art. 582 c.p.p., personalmente o a mezzo di un incaricato presso la cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato.
L’art. 583 c.p.p., tuttavia, prevede per parti e i difensori la facoltà di proporla anche mediante telegramma o atto da spedire a mezzo raccomandata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato.
Dopodichè a cura di quest’ultima l’impugnazione viene comunicata al PM e notificata alle parti private senza ritardo (art. 584 c.p.p.).
Il termine per proporre l’impugnazione ai sensi dell’art. 585 c.p.p. è di:
– giorni quindici, per i provvedimenti emessi in seguito a procedimento in camera di consiglio e per quelli che vengono pubblicati in udienza con la lettura del dispositivo (art. 544 co. 1 c.pp);
– giorni trenta, per i provvedimenti resi in udienza ma per i quali alla redazione dei motivi si provvede non oltre il quindicesimo giorno dalla pronuncia (art. 544 co. 2 c.p.p.);
– quarantacinque giorni, quando, nel caso di particolare complessità della motivazione, la stesura della stessa può avvenire entro il termine di novanta giorni dalla pronuncia (art. 544 co. 3 c.p.p.).
L’art. 585 co. 2 c.p.p. prevede inoltre il momento a partire dal quale detti termini iniziano a decorrere, precisando, all’ultimo comma, che si tratta di termini previsti a pena di decadenza.
Durante la pendenza dei termini per proporre impugnazione l’esecutività della sentenza è sospesa fino all’esito del gravame.
Possono proporre l’impugnazione:
– il PM (art. 570 c.p.p.);
– l’imputato (art. 571 c.p.p.);
– la parte civile, la persona offesa (anche quando non costituita parte civile) e gli enti le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato intervenuti a norma degli artt. 93 e 94 c.p.p, presentando una richiesta motivata al PM “di proporre impugnazione ad ogni effetto penale (art. 572 c.p.p.);
– il responsabile civile “contro le disposizioni della sentenza riguardanti la responsabilità dell’imputato e contro quelle relative alla condanna di questi e del responsabile civile alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese processuali” e inoltre contro “le disposizioni della sentenza di assoluzione relative alle domande proposte per il risarcimento del danno e per la rifusione delle spese processuali” (art. 575 c.p.p);
– la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, nel caso in cui sia stata condannata (art. 575 co. 2 c.p.p);
– la parte civile e il querelante condannato alle spese e ai danni “contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”, inoltre, “contro la sentenza pronunciata a norma dell’art 442 c.p.p. (decisione nel giudizio abbreviato) quando ha acconsentito alla abbreviazione del rito”.
La rinuncia all’impugnazione va presentata mediante dichiarazione ad uno degli organi competenti a ricevere l’impugnazione nelle forme e nei modi previsti per la presentazione dell’impugnazione stessa (art. 589 c.p.p.). Si parla in proposito di rinuncia espressa.
Si ha, invece, rinuncia tacita nel caso in cui le parti fanno decorrere i termini previsti dalla legge per impugnare il provvedimento.
Si specifica altresì, per ragioni di completezza espositiva, come la giurisprudenza di legittimità abbia ammesso recentemente che l’appello, così come l’eventuale ricorso per cassazione, debba ritenersi inammissibile per difetto di specificità dei motivi laddove non siano enunciati e argomentati, expressis verbis, i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, sempre rammentando che l’onere cennato rimane a carico dell’impugnante, ed è direttamente proporzionale alla specificità con cui le suddette argomentazioni sono state esposte nel provvedimento impugnato[55].
L’art. 630c.p.p. recita «1. La revisione può essere richiesta:
a) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale;
b) se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall’articolo 479;
c) se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631;
d) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato».
La revisione, quindi, opera solo nei casi determinati dalla legge. La disposizione in esame ne contempla quattro, accomunati tutti dal requisito della novità. Presupposto, questo, dal significato apparentemente banale, quasi scontato. Eppure combattuto sin dall’inizio tra due inconciliabili letture: l’ una tesa a dare maggiore risalto all’ intangibilità del giudicato e ad esigenze di natura formale[56], l’altra volta a tutelare con maggior vigore le esigenze di giustizia sostanziale rispetto a quelle di certezza dei rapporti giuridici[57]. La prima arroccata su un’interpretazione testuale di novità, con la conseguenza di considerare nuovi soltanto gli elementi sopravvenuti al provvedimento divenuto cosa giudicata ed oggetto di revisione[58]; la seconda pronta ad accogliere un’esegesi conforme alla finalità dell’ impugnazione straordinaria, con l’obiettivo di riconoscere il requisito della novità anche in quegli elementi preesistenti alla condanna, ma rimasti ignoti nel precedente giudizio. Una pluralità di considerazioni, dalla tradizionale configurazione dell’istituto al suo operare in nome della collettività ed a tutela del favor innocentiae, fino alle esigenze di verità e di giustizia reale, hanno fatto propendere per la seconda soluzione senza, però, mortificare la prima. La disciplina della revisione, infatti, sembra in qualche misura, riaffermare non negare il valore del giudicato dal momento che precisi limiti fissati dalla legge processuale sono diretti a contemperare le finalità dell’istituto con l’interesse fondamentale in ogni ordinamento la certezza e stabilità delle situazioni giuridiche e all’ intangibilità delle pronunce giurisdizionali di condanna che siano passate in giudicato. Questi ed altri aspetti di tale istituto verranno analizzati nel proseguo del presente lavoro.
Altro mezzo di impugnazione è il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
La convenzione costruisce un sistema di protezione incentrato sulla Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale sistema non è sostitutivo degli strumenti di garanzia affrontati in materia dagli ordinamenti interni; esso, anzi, fa primariamente conto sul rispetto nazionale degli impegni assunti dagli stati con la ratifica dell’accordo, subentrando solo in un secondo tempo, una volta completati e dimostratisi insufficienti o impossibili i ricorsi interni, alle autorità nazionali nel caso di loro inadempimento e con l’attivazione di un procedimento che si chiude con sentenza eventualmente di accertamento della violazione. In questo senso si dice che il controllo internazionale in questione è sussidiario.
Il sistema di garanzia si articola su un duplice diritto di azione: possono presentare ricorso alla corte, per asserita violazione di diritti contemplati dalla convenzione di salvaguardia, ciascuno stato contraente (art. 33) e ogni individuo persona fisica, organizzazione non governativa, associazione di privati, (art. 34) soggetto alla giurisdizione di uno Stato contraente (art.1). Il carattere sussidiario del sistema emerge immediatamente dalla prima delle condizioni di ricevibilità previste: la convenzione sottolinea che la corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne (articolo 35 comma 1). Superato questo primo ostacolo, spetta intervenire alle articolazioni interne della Corte[59]: essa accerta in contraddittorio i fatti privilegiando la ricerca della composizione amichevole tra le parti, infine chiudendo la controversia con sentenza motivata. Se con quest’ultima si constata inadempimento dello Stato e se il diritto interno non consente di riparare integralmente le conseguenze pregiudizievoli sofferte dal ricorrente, può essere accordata alla parte lesa un’equa soddisfazione sotto forma di indennizzo, che tenga conto di danni morali e materiali nonché delle spese sostenute per il ricorso; la sentenza è, in via di principio, definitiva: la revisione da parte della grande camera è, infatti, prevista solo se non viene respinta l’eventuale richiesta di rinvio ad essa presentata da una parte in causa entro sei mesi dalla prima decisione e sollevando gravi problemi di interpretazione e di applicazione della convenzione piuttosto che una grave questione di carattere generale. Anche la Grande Camera si pronuncia con sentenza di accertamento di fatti, che è definitiva. Al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è affidato l’importante compito di sorvegliare l’esecuzione della sentenza. Il ricorrente deve ricadere, in ordine alla violazione lamentata dalla convenzione, nell’ambito di esercizio, omissivo o commissivo, della giurisdizione anche extraterritoriale dello Stato contraente. Secondo questa norma, può trattarsi anche di persona che non possieda la cittadinanza dello Stato parte chiamata in causa e, financo, nemmeno la cittadinanza di un qualsiasi stato contraente della convenzione di salvaguardia. La definizione di organizzazione non governativa, società, associazione altro tipo di ente, esclude le organizzazioni aventi attribuzione di poteri propri dagli enti pubblici e comprende, quindi, le persone giuridiche di diritto pubblico che non esercitino prerogative proprie degli enti pubblici e siano giuridicamente ed economicamente dipendenti dallo stato. La definizione di gruppo di privati esprime un elemento associativo informale tra persone fisiche purché non in rappresentanza di enti pubblici. La qualità di vittima che il ricorrente individuale deve possedere ex articolo 34 della convenzione Europea, determinata anzitutto dall’essere questi personalmente e direttamente riguardato dalla violazione di un diritto, riconosciuto nella convenzione o nei suoi protocolli da parte di uno stato contraente. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia ha considerato, alla luce del diritto convenzionale vivente, le varie declinazioni in termini non solo di vittima diretta, dotata cioè delle caratteristiche appena enunciate, ma anche di vittima indiretta, potenziale, futura, fino ad elaborare il principio di permanenza della qualità di vittima per tutta la durata del giudizio, pena l’archiviazione del caso di fronte alla perdita effettiva della qualità già ineludibile in punto di ricevibilità del ricorso. Si tratta di una nozione che va interpretata, nel contesto della convenzione Europea, in modo autonomo rispetto agli ordinamenti degli stati contraenti. Per quanto riguarda la legittimazione passiva, nei ricorsi individuali la tutela della convenzione può essere invocata nei confronti degli stati contraenti, allorché la violazione dedotta ha luogo nei limiti dell’esercizio della giurisdizione dello stato in questioni ex articolo 1 della convenzione stessa. Lo stato può essere convenuto in giudizio a Strasburgo anche per responsabilità indiretta nella violazione della convenzione lamentata dal ricorrente. Ciò può accadere sia quando la condotta dello Stato contraente è suscettibili di costituire elemento generatore della violazione da parte di uno stato terzo, sia quando il comportamento dello Stato contraente contribuisce al verificarsi, nell’ambito della propria giurisdizione, di una violazione generata dalla precedente condotta di uno stato terzo.
Il ricorso straordinario in Cassazione è disciplinato dall’art. 625 bic c.p.p. che così recita: «1. È ammesso, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione.
2. La richiesta è proposta dal procuratore generale o dal condannato, con ricorso presentato alla corte di cassazione entro centottanta giorni dal deposito del provvedimento. La presentazione del ricorso non sospende gli effetti del provvedimento, ma, nei casi di eccezionale gravità, la corte provvede, con ordinanza, alla sospensione.
3. L’errore materiale di cui al comma 1 può essere rilevato dalla corte di cassazione, d’ufficio, in ogni momento e senza formalità. L’errore di fatto può essere rilevato dalla Corte di Cassazione, d’ufficio, entro 90 giorni dalla deliberazione.
4. Quando la richiesta è proposta fuori dell’ipotesi prevista al comma 1 o, quando essa riguardi la correzione di un errore di fatto, fuori del termine previsto al comma 2, ovvero risulta manifestamente infondata, la corte, anche d’ufficio, ne dichiara con ordinanza l’inammissibilità; altrimenti procede in camera di consiglio, a norma dell’articolo 127 e, se accoglie la richiesta, adotta i provvedimenti necessari per correggere l’errore».
L’istituto del ricorso straordinario introdotto dall’articolo 6 co. 6 legge 26 marzo 2001 numero 128, consente, in favore del solo condannato, di richiedere la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di Cassazione. Il rimedio costituisce una deroga al principio della irrevocabilità delle decisioni della Corte di Cassazione; ha natura eccezionale ed è volto ad eliminare l’errore identificabili esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva. Le sezioni unite[60] hanno chiarito che se la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dal rimedio. L’istituto trova fondamento costituzionale negli articoli 27 co. 2 e 111 co.7, nella misura in cui assicura la garanzia soggettiva del controllo in Cassazione a chi è stato condannato sulla base di una sentenza della Corte viziata da errore di fatto decisivo. Sul punto della mancata estensione della previsioni ad altro tipo di errori è stata dichiarata[61] la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità proposta riferimento all’articolo 24 cost.: per la parte in cui l’articolo in esame esclude che lo speciale mezzo di impugnazione possa essere utilizzato per ridurre l’errore valutativo o di giudizio si segnala analoga pronuncia di infondatezza della questione[62]. L’istituto è inammissibile quando la correzione invocata dovrebbe necessariamente tradursi in una decisione più sfavorevole[63].
La norma fa riferimento alla proponibilità del ricorso soltanto in favore del condannato, inteso esclusivamente come l’imputato. Le sezione unite, hanno chiarito che è legittimato alla proposizione del ricorso straordinario per errore di fatto il condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che prospetta un errore di fatto nella decisione della Corte di Cassazione relativa a tale capo[64]. Si devi escludere che lo strumento possa essere azionato dalle altre parti processuali e, tra queste, della parte civile, della persona offesa, del soggetto estradando. Secondo le sezioni unite è inammissibile, per difetto di legittimazione soggettiva, il ricorso straordinario proposto nell’interesse del condannato dal difensore che non sia munito di procura speciale ex articolo 122. Il difensore del ricorrente deve comunque essere iscritto, a pena di inammissibilità, nell’albo speciale della Corte di Cassazione. Fatta eccezione per il caso di errore materiale, il ricorso straordinario che faccia valere un errore di fatto deve essere promosso entro 180 giorni dal deposito del provvedimento; il termine è perentorio perché finalizzato ad evitare che la sentenza di condanna irrevocabile possa essere esposta, per un tempo potenzialmente indefinito, alla situazione di pur relativa instabilità determinata dall’ esperibilità della procedura straordinaria. Le sezioni unite[65] hanno affermato che possono costituire oggetto di impugnazione straordinaria esclusivamente provvedimenti che rendono definitiva una sentenza di condanna e non anche altre decisioni che intervengono in procedimenti incidentali. Con riguardo alle decisioni che definiscono una procedura finalizzata ad ottenere la revisione di una sentenza di condanna, si registrano due contrapposti orientamenti: di recente, si è ritenuto che il ricorso straordinario sia ammissibile contro le decisioni della Corte di Cassazione conclusive del giudizio di revisione[66]. In senso contrario si argomenta sulla natura del provvedimento di rigetto nel giudizio di revisione, inidoneo a rendere definitiva la condanna già dotata di tale caratteristica. Non sono ricorribili le decisioni in materia di indennizzo per ingiusta detenzione[67], le decisioni adottate in fase esecutiva dal giudice di sorveglianza[68], i provvedimenti di rigetto dell’istanza di riabilitazione[69], le decisioni che dichiarino la sussistenza delle condizioni per l’accoglimento di una richiesta di consegna per un mandato di arresto europeo[70], le decisioni in materia di misure di prevenzione e confisca[71], le decisioni che definiscono gli incidenti di esecuzione e le decisioni che dichiarano l’inammissibilità di un istanza di rimessione del processo[72]. Sono, invece, ammissibili i ricorsi straordinari nei confronti delle pronunce della Corte di Cassazione che abbiano definito un precedente ricorso straordinario sempre che il nuovo ricorso non sia fondato sui medesimi motivi del precedente[73].
L’istituto del ricorso straordinario ha avuto temporanea e limitata applicazione per dare attuazione alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo di accertamento della violazione del diritto all’equo processo consumata nel giudizio di legittimità in vicenda processuale ormai coperta da giudicato, mediante l’interpretazione analogica[74]. L’errore di fatto è concettualmente diverso da quello di diritto, dall’errore di valutazione che se commesso dalla Corte di Cassazione lascia senza rimedio il condannato. Le sezioni unite hanno stabilito che l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità ed oggetto del rimedio in esame consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall’ inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto ad una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso[75]. La corte ha precisato che, qualora la causa dell’errore non si identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva, la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto bensì un errore di giudizio; sono estranee all’ambito di applicazione dell’istituto gli errori di interpretazione di norme giuridiche ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l’attribuzione ad esse di una inesatta portata anche se dovuti all’ignoranza di indirizzi giurisprudenziali consolidati nonché gli errori percettivi in cui sia incorso il giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere soltanto nelle forme e nei limiti delle impugnazioni straordinarie; l’operatività del ricorso straordinario non può essere limitato alle decisioni relative all’accertamento dei fatti processuali, non risultando giustificata una simile restrizione dell’effettiva portata della norma in quanto l’errore percettivo può cadere su qualsiasi dato fattuale.
Il ricorso straordinario è esperibile per rimediare ad errori della Corte di Cassazione che abbiano compromesso la partecipazione al giudizio di legittimità dei soggetti aventi diritto. Così sono deducibili l’errore di fatto costituito dalla missione degli adempimenti relativi alla nomina di un difensore d’ufficio, dalla notificazione dell’avviso di udienza a tale difensore, oltre che all’imputato personalmente, in conseguenza della revoca della nomina del difensore di fiducia, intervenuta nel corso del giudizio di appello[76], l’ errore di fatto consistito nella mancata rilevazione dell’ omessa notificazione al difensore dell’imputato dell’avviso per l’udienza[77], l’errore di fatto consistito nella notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza al difensore in precedenza revocato dall’imputato, anziché a quello nominato in sua sostituzione[78]. L’articolo in commento, quindi, predispone due diverse discipline per rimediare a due diverse categorie di errore. Accanto all’errore di fatto viene menzionato l’errore materiale, la cui rilevazione può avvenire anche d’ufficio in ogni momento. E’ ammesso un intervento officioso della Corte di Cassazione per la rilevazione degli errori di fatto sia pure in un termine perentorio pari a 90 giorni dalla deliberazione. Come è stato precisato dalle sezioni unite[79], l’errore materiale è il frutto di una svista da cui deriva il divario tra volontà del giudice e materiale rappresentazione grafica della stessa, con la conseguente difformità del pensiero del decidente e l’estrinsecazione formale dello stesso senza alcuna incidenza sul processo cognitivo e valutativo. Ne discende che il ricorso straordinario per errore di fatto ha natura di vero e proprio mezzo di impugnazione, mentre il ricorso per errore materiale rappresenta null’ altro che uno strumento di correzione speciale di tutto quello previsto dall’articolo 130, ma al pari di questo privo di incidenza sul contenuto della decisione e di mera rettifica della forma espressiva della volontà del giudice.
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Note
[1] artt. 2, 3, 24 e 111 Cost.
[2] G.Chiovenda, Cosa giudicata e preclusione, in Riv. it. sc. giur., 1933, 7.
[3] L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Laterza, 2002, 33.
[4] Cass. pen., sez. VI, 18-6-2003,n. 36773, in Foto.it., 2004, 12.
[5] G. De Luca, Giudicato (diritto processuale penale), in Enc. giur., XV, Roma, 1988, 24.
[6] L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Laterza, 2002, 42.
[7]F. Carnelutti, Efficacia, 8.
[8] F. Carnelutti, Efficacia diretta e riflessa del giudicato penale, RDPr, 1948, 1 s.
[9] G. De Luca, Giudicato, cit. 1.
[10] Per questa distinzione fra ” capi ” e ” punti ” (elimina), in dottrina, fra molti, M. Bargis, Impugnazioni, in Conso – Grevi, Compendio di procedura penale 2000, p. 748; A. Galati, Impugnazioni, in Siracusano, Galati, Tranchina, Zappalà, Diritto processuale penale, Vol II, Giuffrè, 2006, pp. 459-460; Lozzi G., Lezioni di procedura penale, 4ª ed. 2001, pp. 578-579, nonché, anche per un elenco analitico dei ” punti ” di sentenza, G. Leone, Trattato di diritto processuale penale, vol. III, 1961, pp. 166-167.
[11] Se è vero, infatti, che il giudicato non rappresenta l’essenza della funzione di ius dicere, cioè la sua connotazione distintiva rispetto agli altri poteri dello Stato, si può comunque affermare, senza timore di smentite, che l’istituto è relegato negli esclusivi ambiti dell’attività decisoria del giudice. Non tutti i provvedimenti giurisdizionali sono, però, suscettibili di divenire cosa giudicata, dovendosi escludere tale eventualità per quelli che, a causa della mancanza di requisiti minimi essenziali, non sono riconducibili ad un modello legale e si pongono, quindi, totalmente fuori dal sistema processuale, con la conseguente inidoneità a produrre qualunque effetto giuridico. Il riferimento è alle ipotesi di inesistenza dell’atto, individuabili, ad esempio, laddove il provvedimento sia emesso a non iudice o in altre situazioni di difetto assoluto di giurisdizione, come quando la sanzione penale viene irrogata nei confronti di persona già deceduta oppure non imputabile, in quanto minore degli anni quattordici al momento del fatto o perché protetto dal privilegio della immunità. L’inesistenza giuridica dell’atto, rilevabile senza limiti temporali o processuali, può anche essere dichiarata dal giudice dell’esecuzione dopo l’apparente passaggio in giudicato dell’atto stesso, precluso, in realtà, dalla mancanza ab origine di una decisione capace di produrre quegli effetti che la formazione della res iudicata dovrebbe cristallizzare. L’attitudine di una decisione a divenire res iudicata non dipende, tuttavia, unicamente dalla sua giuridica esistenza, ma è determinata anche da altre qualità intrinseche dell’atto. Solo le pronunce che definiscono la res iudicanda, all’esito del procedimento funzionalmente demandato a produrre tale specifico risultato, sono destinate, infatti, al passaggio in giudicato. Galati, Tranchina, Zappalà, Diritto processuale penale, Vol II, Giuffrè, 2006, pp. 510.
[12] V. Denti, I giudicati sulla fattispecie, RPC, 1957, 1328
[13] La regola, posta dall’art. 650 c.p.p., per cui le sentenze (e i decreti penali) acquistano efficacia esecutiva solo allorché irrevocabili, incorre in alcune eccezioni espressamente previste dalla legge (si pensi all’esecutività della sentenza d’appello, ed entro più rigorosi limiti di quella di primo grado, quanto alle statuizioni civili, nonché all’esecutività di qualunque sentenza di proscioglimento quanto alla cessazione delle misure cautelari in corso). Tali eccezioni tuttavia non riguardano, né potrebbero riguardare, l’esecuzione delle disposizioni ” penali ” di una sentenza di condanna, a ciò ostando la presunzione costituzionale di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva: G. Illuminati, La presunzione di innocenza dell’imputato, Zanichelli, 1979, p. 58 ss.
[14] Cass. pen. S.U. , 29 settembre 1994, n.8, in CED CASS, 609183; Cass.pen., 24 aprile 1998, n. 1402, ivi, 210915.
[15] P. Moscarini, L’omessa valutazione della prova favorevole all’imputato, Cedam, 2005, p.52.
[16] Cass. pen., 24 giugno 2014, n. 35503, in CED CASS., 260287; Cass. pen., 10 gennaio 2012, n. 7676, ivi, 251970.
[17] Cass. pen., 22 novembre 2000, n. 32, in CED CASS 230528.
[18] R. Normando, Il giudicato: forza esecutiva ed effetti, in AA. VV., Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, vol. IV, Utet, 2011, 517.
[19] R. Normando, Il giudicato: forza esecutiva ed effetti, cit., 520.
[20] R. Normando,in G. Spangher, Trattato, cit. 523.
[21] R. Normando,in G. Spangher, Trattato, cit. 525.
[22] P. Moscarini, L’omessa valutazione della prova favorevole all’imputato, cit. p. 60.
[23] La natura straordinaria dell’istituto previsto dall’art. 434 c.p.p., in quanto esperibile avverso pronunce definitive e sul presupposto della sopravvenienza di nuove fonti di prova, è ampiamente riconosciuta in dottrina: cfr., tra gli altri, A. Dalia –M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, Cedam, 2017, 778; Dani, voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere», in Dig. disc. pen., XII, Torino, 1997, 149; G. Garuti, La verifica dell’accusa nell’udienza preliminare, Cedam, 1996, 343; Kostoris P. voce Revoca della sentenza di non luogo a procedere, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 286.
[24] Cass. pen. S.U, 29 maggio 2014 n. 42858, in Cass. pen., 2015, p. 41.
[25] V., Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, in Foro it., 2010, IV, 229 (Dato che è una sentenza nota, è oppurtuno richiamare anche qualche commento dottrinale).
[26] Cass. pen., Sez.Un, 12 dicembre 2014, n. 26242, in Foro.it, 2015, 54.
[27] Corte Cost., 8 luglio 2010, n. 249, in Foro it., 2010, I, 2929.
[28] Corte Cost., 25 febbraio 2014, n. 32, in Foro it. anno 2014, parte I, col. 1003.
[29] Cass. pen., S.U., 26 febbraio 2015, n.37107, in Foro it. anno 2016, parte II, col. 112.
[30] Cass. pen. Sez II, 17 giugno 2011, n. 24436, in CED. CASS..259631.
[31] Cass. pen., 4 marzo 2013, n. 14042, in CED. CASS., rv. 254981.
[32] Cass. pen., 25 febbraio 2011, n. 10094, in CED.CASS, rv. 249642.
[33] Cass. pen. S.U. 7 maggio 2014 n. 18821, in CED. CASS. 258650.
[34] Cass. pen. S.U. 7 maggio 2014 n. 18821, cit.
[35] Cass. pen., S.U. 14 ottobre .2014, n. 4285, in CED. CASS. 235507.
[36] Che potrebbe passare attraverso l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità di detta norma o attraverso una sua lettura costituzionalmente orientata.
[37] L’esistenza di quest’orientamento è ricordata da F. Politi, Gli effetti nel tempo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, Cedam, 1997,107 ss., il quale, oltre a rilevarne la natura minoritaria e la precoce scomparsa, ne critica l’impostazione in quanto generica e indeterminata, pur apprezzando il tentativo di ricostruire su basi autonome la nozione di incostituzionalità di una legge. Queste decisioni, accomunate dal rifiuto di ricondurre la ricostruzione degli effetti delle pronunce di accoglimento a istituti noti, e propri di altri settori del diritto, quali l’annullamento, la nullità, l’abrogazione, la disapplicazione, fondavano il proprium del concetto di incostituzionalità e degli effetti delle sentenze di accoglimento nel fenomeno della “successione di ordinamenti costituzionali”, di guisa che al fine di determinare quegli effetti occorrerebbe aver riguardo, di volta in volta, alla natura del precetto costituzionale violato o alla natura o al contenuto della norma illegittima o ancora, infine, alla natura del rapporto di cui si controverte. Ciò che si è espresso anche con l’ammissione di casi di retroattività “assoluta”, contrapposti alle ipotesi, costituenti verosimilmente la regola, di retroattività limitata alle situazioni che non abbiano carattere di definitività (cfr. Cass., 23 ottobre 1971, n. 2986, in CED.CASS. 1986.,; Cass. 11 aprile 1975, n. 1384, in CED. CASS., 1990; Cons. St., V, 25 ottobre 1974, n. 427 in Cons. Stato, 1974, 1228).
[38] Corte cost., 10 novembre 1994, n. 385, in GU 1 Serie Speciale – Corte Costituzionale n.47 del 16-11-1994, che ha ritenuto, a fronte di norma sopravvenuta retroattiva, non possa farsi prevalere il giudicato sugli equilibri cui conduce “il canone del bilanciamento dei valori costantemente applicato da questa Corte”, che nella specie avrebbe provocato una disparità di trattamento tra dipendenti che avevano svolto il servizio militare nello stesso periodo temporale.
[39] P. Biavati, Diritto processuale dell’Unione europea, Giuffrè, 2009, 115.
[40] A. Attardi, Preclusione (principio di), in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 900 s.
[41] G. Chiovenda, Cosa giudicata, cit. 15.
[42] A. Dalia ,M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, Cedam. 2015, 395; Leone G., Trattato di diritto processuale penale, I, Jovene, 1961, 783.
[43] G. Leone, Trattato, cit.783.
[44] G. Lozzi, Giudicato (diritto penale), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1968, 917. Basti pensare, in termini più concreti, alle conseguenze che derivano dalla scelta in favore di uno dei riti alternativi, dalla comparizione in giudizio a seguito di citazione non regolarmente eseguita, dall’eventuale rinuncia all’impugnazione, dall’omesso deposito della lista testimoniale nel termine fissato dall’art. 468 c.p.p. o dall’esercizio dell’azione risarcitoria in sede civile dopo la costituzione di parte formalizzata, allo stesso fine, nel processo penale.
[45] A. Attardi, Preclusione, cit. 897.
[46] G. Chiovenda, Cosa giudicata, cit. 7.
[47] G. Chiovenda, Cosa giudicata, cit. 45.
[48] E. M. Mancuso, Il giudicato, cit. 164.
[49] Corte Cost., 26 giugno 1995, n. 294, in www.giurcost.it ; Corte Cost., 13 giugno 1995, n. 247, in www.giurcost.it ; Corte Cost., 26 giugno 1996, n. 224, in www.giurcost.it.
[50] M. Gialuz, Il ricorso straordinario per Cassazione, Giuffrè, 2005, 59.
[51] Cass. pen, sez VI, 18 giugno 2010, n. 32337, in C.E.D. Cass., 248088.
[52] E. M. Mancuso, Il giudicato, cit., 171.
[53] E. Jannelli, La cosa giudicata, Utet, 2005, 621.
[54] Cass. pen, Sez.Un.,25 febbraio 2002, n. 24246, in CED.CASS. n. 262108.
[55] Cass. sez. un., 27-10-2017, in Foro it. anno 2018, parte II, col. 196.
[56] Gialuz M., Il ricorso, cit. 45.
[57] D’orazi M., Revisione del giudicato penale, CEDAM, 2003, 164.
[58] Gialuz M., Il ricorso, cit. 182.
[59] Oltre al giudice unico vi sono i comitati di 3 giudici le camere di 7 giudici della grande camera composta da 17 giudici.
[60] Cass. pen., sez. un., 26 marzo 2015, n. 18651, in Mass. giur. lav., 2015, p. 426.
[61] Cass. pen., sez.II, 24 settembre 2003, n. 45654, in Giur. it. 2005, p. 1057.
[62] Cass. pen., sez.V, 5 aprile 2005, n. 37725, CED Cass. n.232313.
[63] Cass. pen., sez.III, 14 ottobre 2009, n. 49958, CED Cass., n. 245869.
[64] Cass. pen., S.U., 21 giugno 2012, n. 28718,in Giur. it., 2013, p. 913; Cass. pen., S.U., 21 giugno 2012, n. 28719,in Giur. it., 2013, p. 953
[65] Cass. pen., S.U., 27 marzo 2002, n. 16103, in CED. Cass., n. 221280.
[66] Cass. pen. Sez. II., 19 febbraio 2008, n.11741, in CED Cass., n. 239743.
[67] Cass. pen. Sez. III, 22 settembre 2015, n. 41071, in www.iusexplorer.it
[68] Cass. pen. Sez. II., 12 aprile 2013, n.29163, in Rv. 267526.
[69] Cass. pen. Sez. IV., 3 ottobre 2007, n.42725, in Rv. 238302.
[70] Cass. pen. Sez. fer., 2 settembre 2008, n.34819, in Rv. 240717.
[71] Cass. pen. Sez. V., 17 luglio 2009, n.43416, Rv. 245090.
[72] Cass. pen. Sez. VI., 18 febbraio 2010, n.9015, in rv. 242877.
[73] Cass. pen. Sez. III., 3 marzo 2011, n.23976, in CED Cass., n. 250376.
[74] Cass. pen. Sez. V., 11 febbraio 2010, n.16507, in Ced Cass., rv. 246459.
[75] Cass. pen. S.U., 27 marzo 2002, n.16103, in RV221280.
[76] Cass. pen. Sez. VI., 16 ottobre 2008, n.40628, in CED Cass., 241526.
[77] Cass. pen. Sez. III, 20 gennaio 2010, n.5039, in CED 245569.
[78] Cass. pen. Sez. VI., 3 novembre 2009, n.45902, in C.E.D. Cass.,245337.
[79] Cass. pen. S.U., 27 marzo 2002, n.16102, in in www.iusexplorer.it
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