Le intercettazioni processuali costituiscono un mezzo di ricerca della prova disciplinato dal capo IV del titolo III del libro III del codice di procedura, a partire dall’art. 266 c.p.p.
Il codice vigente, al pari di quello abrogato, non contiene una definizione di tale mezzo di acquisizione di prove; spetta, dunque, all’interprete individuarne i tratti essenziali per delimitarne il campo di applicabilità della relativa disciplina.[1]
Le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e ss c.p.p. consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunione o conversazione tra due o più soggetti che agiscono con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuate da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato.[2]
Accanto a queste, al fine di prevenire gravi delitti che destano allarme sociale, di criminalità organizzata, di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, il legislatore (art. 226 disp. coord. c.p.p., così come modificato dal d.l. 18.10.2001, n. 374, poi convertito nella legge 15.12.2001, n. 438, e artt. 4 e 7 d.l. n. 144/2005, convertiti con modificazioni nella legge 155/2005) autorizza il compimento di intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, anche tra presenti e anche se avvengono nei luoghi di cui all’art. 614 c.p., il tracciamento delle comunicazioni telefoniche e telematiche, l’acquisizione di dati esterni relative alle medesime e di ogni altra informazione utile in possesso degli operatori di telecomunicazioni.
La Corte Costituzionale, con sentenza del 29 dicembre 2004, n. 443 ha stabilito che non è possibile alcun confronto tra la disciplina delle intercettazioni con quella relativa alle intercettazioni preventive, le quali non tendono ad accertare ipotesi criminose ma a prevenire la commissione di reati e sono caratterizzate dall’avere una minore garanzia rispetto alle intercettazioni regolate dall’art. 266 del codice di rito. Pertanto non può essere applicabile alle intercettazioni preventive, la disciplina di cui all’art. 271 comma 1 dello stesso codice, nella parte in cui prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, allorché non siano state considerata le disposizioni di cui al citato art. 268 comma 3.[3]
I controlli citati sono autorizzati dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui si trova il soggetto da sottoporre a controllo con decreto motivato[4], su istanza di vari organi quali il Ministro dell’Interno o su sua delega, i responsabili dei Servizi centrali fi cui all’art. 12 della legge 12 luglio 1991, n. 203, nonché il questore o il comandante provinciale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, nel caso si tratti di delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis, dal direttore della DIA, quando vi siano elementi investigativi che giustifichino l’attività di prevenzione e, nel contempo, il p.m. lo ritenga necessario. Oggetto della richiesta è l’autorizzazione al compimento di attività eterogenee per un periodo massimo di quaranta giorni.
L’art. 226, comma 2, disp. coord. c.p.p., prevede la possibilità di proroga delle intercettazioni preventive per periodi di venti giorni, indicando le ragioni nel decreto motivato predisposto dal p.m. È, difatti, sì vero che la proroga è ammessa laddove permangono i presupposti di legge e dando chiaramente atto dei motivi che rendono necessaria la prosecuzione delle operazioni nel suddetto decreto; tuttavia, non essendo fissato il numero di proroghe possibili, si corre il rischio di dare attuazione a tale strumento invasivo senza limiti temporali, comprimendo sine die un diritto riconosciuto e garantito come inviolabile dalla Carta costituzionale.[5]
L’esecuzione delle operazioni di intercettazione di comunicazioni telefoniche e telematiche devono essere eseguite soltanto con impianti istallati presso la Procura della Repubblica o presso altre idonee strutture individuate dal procuratore che concede l’autorizzazione.
Una volta effettuata l’intercettazione, la stessa viene cristallizzata in un verbale sintetico che è depositato presso la segreteria del P.M. che ha autorizzato le attività unitamente ai supporti utilizzati, entro cinque giorni dalla fine delle operazioni.
Dopo aver verificato la conformità delle attività compiute all’autorizzazione concessa, il Procuratore della Repubblica dispone l’immediata distruzione dei supporti e dei verbali.
Anche in tal caso, dunque, analogamente alle misure di prevenzione e di perquisizioni preventive, pur se la finalità dell’atto è impedire la commissione di un reato, ben potrà accadere che sia invece acquisita la notizia di un reato già avvenuto.
Tuttavia l’art. 226 disp. att. c.p.p. appare chiaro nell’escludere che l’intercettazione preventiva possa essere di per se stessa considerata come notizia di reato: quest’ultima dovrà comunque essere reperita in via autonoma, attraverso una diversa forma di informazione. Sicché l’atto preventivo costituirà solo la base della pre-inchiesta, volta a ricercare un ulteriore dato che poi possa essere utilizzato come notizia di reato. Secondo quanto dispone l’art. 226, comma 5, disp. att. c.p.p., infatti, i risultati delle intercettazioni preventive possono essere utilizzati in un eventuale processo penale esclusivamente a fini investigativi. In se stessi, quindi, non possono costituire base di informativa o denuncia al p.m., né costituire la notizia di reato appresa dal p.m. di sua iniziativa, né essere menzionati o posti a fondamento di atti di indagine o di provvedimenti dell’autorità giudiziaria né, ancora, costituire oggetti di deposizione testimoniale o di divulgazione extraprocessuale. Anzi, tali atti, devono immediatamente essere distrutti, così che non ne rimanga alcuna traccia.
In definitiva, la disposizione esplicita ciò che si ritiene debba avvenire in tema di notizie anonime, o provenienti dai confidenti, o dai colloqui investigativi “confidenziali”, o, ancora, dalle informazioni dei servizi d’informazione o sicurezza: deve essere reciso ogni riferimento alla fonte che ha dato l’avvio alla ricerca della notizia di reato; una volta che quest’ultima venga acquisita, la genesi con l’atto preventivo non deve risultare da alcun atto processuale, e quindi, in primo luogo, dalla stessa notizia di reato.[6]
[1] DI MARTINO – PROCACCIANTI, Le intercettazioni telefoniche, Padova, 2001, p. 16.
[2] Cass. SS.UU. 28.5.2003, Torcasio, in Cass. Pen., 2004, p. 21.
[3] DELLE FAVE, Manuale di polizia giudiziaria, Milano, 2013, p. 259.
[4] In realtà il legislatore tace riguardo ai requisiti che deve contenere tale provvedimento, ma, se guardiamo al decreto con il quale si dispone la proroga che deve essere motivato, allora si può desumere che anche il provvedimento autorizzativo debba essere motivato.
[5] VELE, Le intercettazioni nel sistema processuale penale: tra garanzie e prospettive di riforma, Padova, 2011, pp. 46-47.
[6] SPANGHER, Trattato di Procedura penale, vol. 3, Torino, 2009, pp. 49-51.
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