Il 13 maggio 1978, dopo un lungo dibattito alla Camera e al Senato, venne finalmente approvata la riforma sanitaria relativa all’assistenza psichiatrica: si tratta della legge 180, successivamente integrata dalla legge 833, dello stesso anno, riguardante la costituzione del Piano Sanitario Nazionale. Con tale normativa si abbandonava un sistema coercitivo, di contenzione, basato su terapie meramente mediche e di correzione proprie degli ambienti manicomiali, per un discorso più aperto improntato al riconoscimento della dignità della malattia e quindi della dignità dell’individuo malato, il tutto ovviamente sorretto da un cambiamento di intervento terapeutico basato su una nuova rete di strutture e di servizi a carattere dipartimentale.
Sono passati più di vent’anni da quel 13 maggio del 1978 e la legge 180 continua far parlare di sé. Il discorso della salute mentale in Italia è particolarmente problematico, poiché il suo carattere non è solo di natura medico-clinica ma anche sociale, assistenziale e politico. E’, infatti, un tema scottante che rientra nelle problematiche affrontate dal Welfare State ed anche per questo soggetto a continue discussioni. Come affermano M. Tansella e G. De Girolamo: “I disturbi mentali costituiscono un importante problema di sanità pubblica per vari motivi: essi presentano un’elevata frequenza nella popolazione generale, in tutte le classi di età: sono associati a significativi livelli di menomazione del funzionamento psicosociale (cioè di difficoltà nella attività della vita quotidiana, nel lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari, ecc..); sono all’origine di elevati costi sia sociali che economici”[1].
Il 7 Aprile 2001, giornata mondiale della salute mentale, si è parlato molto dell’efficacia della legge 180 è ne è derivato che tale normativa è stata l’unica in grado di affrontare la ragione sociale della malattia. Il malato di mente, in tempi non lontani, era soggetto all’isolamento e alla discriminazione. La patologia era uno stigma, aveva quindi un significato meramente spregiativo che si poneva in antitesi con gli stereotipi relativi alla cosiddetta “normalità”, tale considerata dalla cultura di riferimento. Con la nuova legge, nonostante inadempienze e ritardi amministrativi e a volte carenze strutturali, si è riusciti in qualche modo a dare voce all’individuo, alla sua dignità intesa come valore intrinseco della persona, valore che non si traduce come mera funzionalità, atti, ma come essere.
In ritardo di circa 70 anni rispetto alla Francia – che già nel 1838 aveva varato la sua legge sugli “alienati” – l’Italia data la sua prima normativa sulla salute mentale solo nel 1904. E’ la legge n. 36 del 14 febbraio, consta di soli undici articoli che prevedono le norme di ammissione e di dimissione dall’istituto manicomiale, regolamentano il lavoro dei direttori e impartiscono le regole amministrative da seguire. L’art. 1 comma IC di tale legge definisce i malati di mente come “persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o a gli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei Manicomi”. L’azione più importante era finalizzata non alla cura basata sulla ricerca delle motivazioni dei disagi provati e al successivo intervento terapeutico, quanto piuttosto all’isolamento dell’individuo dalla società: rinchiudere uomini e donne che non agivano quotidianamente secondo le regole dominanti nella cultura e nella società di riferimento era fattore essenziale affinché la società stessa mantenesse il proprio equilibrio.
Ma isolare in strutture carcerarie, perché tali erano gli istituti manicomiali, non equivaleva a risolvere il problema, anzi dal momento che la tranquillità sociale era considerata l’elemento più importante, (così come importante era vivere in una società sana, di buoni principi e profondamente religiosa), nei manicomi molto spesso venivano rinchiusi anche quegli individui che, semplicemente, non vivevano secondo le regole culturali dominanti di quella data società. Chiaramente il malato non guariva, ma piuttosto sprofondava sempre più nei deliri della sua mente.
Fa riflettere inoltre l’art.10 riguardante la gestione dei cadaveri degli alienati che prevedeva l’uso dei corpi ed anche dei malati da parte degli uomini di scienza. Dice l’articolo “nelle città che sono sedi di facoltà medico-chirurgiche, gli ospedali sono tenuti a fornire il locale e a lasciare a disposizione i malati e i cadaveri occorrenti per i diversi insegnamenti”. Tale articolo investiva anche i manicomi pubblici e privati.
Nel secondo dopoguerra la necessità di una normativa si fa di nuovo molto viva. Come scriveva il deputato Ceravolo nella sua proposta di legge alla Camera dei Deputati il 17 novembre del 1953, bisognava “appellarsi a criteri si umanità e giustizia perché sostituisce il concetto della custodia di chi è colpito da un male guaribile, il concetto di cura e redime l’infermo dalla ingiusta qualifica di delinquente potenziale”[2].
Dopo diverse proposte di legge, il 18 marzo 1968 fu varata la legge n. 431. E’ probabilmente il primo vero tentativo di restituire dignità e dimensione umana all’individuo. Ciò che fino a questo momento era considerato aberrante, mostruoso e disumano, ciò che aveva alimentato a dismisura le paure della comunità, ciò che aveva portato ad azioni e comportamenti deliranti perché basati sulla non conoscenza, adesso conquista una categoria di riferimento e una definizione ben precisa: malattia mentale.
Questo restituisce apparentemente all’individuo la sua vita. Il malato deve essere considerato come tale, non più come un criminale, e la sua patologia va curata e prevenuta. Di importanza fondamentale, testimone di una reale volontà di cambiamento, è l’art. 11 che, di fatto, abroga l’art. 604 n. 2 della legge 36/104 che prevedeva l’obbligo della registrazione del malato nel casellario giudiziario. L’iscrizione in questo casellario era come la marchiatura a fuoco in Francia. Secondo il Codice Penale del 1810 si applicava sulla spalla la lettera P a coloro i quali erano condannati ai lavori forzati a tempo, così come nel 1893 in Inghilterra si tatuavano i delinquenti tra le gambe o nello spazio interdigitale dei piedi. In questo modo gli individui anche una volta tornati in libertà, o comunque reintegrati, avrebbero avuto per sempre, indelebilmente, il segno dell’infamia. Ancora tuttavia, anche con la legge n. 431, non si affronta il tema dei manicomi.
La legge 180 è da poco preceduta da un referendum abrogativo della legge 36 del 1904. Con questa normativa si apre una nuova era per la psichiatria perché uno dei punti cardini è il trattamento sanitario volontario. La concezione dell’individuo malato è totalmente altra rispetto alle precedenti: l’intervento terapeutico non è finalizzato a diminuire la sua pericolosità sociale ma a curarlo, a migliorare la convivenza con se stesso e quindi con gli altri. Anche la definizione stessa della patologia cambia: da pazzia a disagio mentale. Si restituisce dignità anche attraverso le definizioni, le parole. Se l’insanità mentale era legata a concetti di possessione o di devianza, il disagio mentale esprime la difficoltà di vivere di un essere umano, è necessario quindi riequilibrare la sua salute.
E questo è un punto focale: il concetto di salute. Ora in psichiatria la salute è la condizione di assenza della malattia, malattia che si rivela negando la salute. Ma come si definisce la malattia? E soprattutto come si stabilisce il confine tra normale e patologico? Come afferma M. Augè la malattia è un paradosso in quanto si presenta come fattore meramente individuale poiché si sperimenta sulla propria persona e nello stesso è il più sociale degli eventi perché le categorie per definirla sono sociali, appartengono a quegli schemi di riferimento, a quelle norme che ogni data società umana si dà e nelle quali si riconosce.
“Ogni anormalità… (…).. costituisce il segno di qualcosa che è già avvenuto o che sta per accadere: qualcosa che non tocca soltanto il soggetto individuale, ma direttamente o indirettamente coinvolge rapporti d’interesse comunitario” (V.Lanternari, 1994)
In l’antropologia il concetto di salute non si costituisce a partire dalla sua contrapposizione con la malattia, ma è strettamente legato all’ambito culturale di riferimento. Come afferma U. Fabietti: “ L’analisi di tale dominio (concetto di salute) rivela le numerose connessioni e la densità di significati sociali e culturali che investono il corpo umano, sia laddove esso venga interpretato in una dimensione strettamente biologica, sia laddove gli eventi che lo riguardano diventino il fulcro per un’elaborata riflessione sulla costituzione della persona e sulle relazioni che la legano all’ordine sociale” (2001). Anche la malattia mentale come il concetto più generale di malattia va inteso in rapporto alla propria cultura, quindi solo individuando le coordinate culturali di riferimento e identificando il posto e il ruolo che ciascun individuo ricopre e svolge in una determinata società si può comprendere la malattia. Essa quindi deve essere interpretata, determinata di significato e questo può essere sia di natura eziologica che sociale o anche entrambe. Comunque sia, è una manifestazione del sé che si esprime attraverso un suo proprio linguaggio e suoi propri rituali che ovviamente cambiano a seconda del tipo di società: vi sono quelle in cui l’individuo è pensato come un insieme di elementi caldi e freddi in equilibrio ed armonia e quindi la malattia si insinua negli interstizi di questi elementi, nel punto esatto in cui si avvicinano e corrono paralleli e concorre a destabilizzare questa armonia per cui la cura e finalizzata al ripristino delle proporzioni degli elementi; vi sono altre società in cui l’individuo è considerato come agito da un principio spirituale (anima) e quindi la malattia può essere il furto o la compromissione di tale essenza vitale o ancora società in cui l’individuo è rappresentato come articolazione di una rex extensa e di una (separata) rex cogitans, e quindi la malattia sarà affezione di ciascuno di questi domini, malattia del corpo o della psiche (F.Vacchiano).
E’ chiaro che ogni cultura nel momento in cui si dà delle norme di riferimento concepisce e sviluppa anche le devianze da tali norme. Ad esempio presso i Wolof del Senegal la malattia mentale risulta essere una punizione per non aver rispettato alcuni aspetti di un determinato rituale, mettendo quindi in evidenza tutta quella serie di obblighi morali e pragmatici nei confronti dei defunti; presso i Wirràrika del Messico l’insanità mentale può essere frutto di un anatema scagliato da uno sciamano verso il quale magari non si è portato rispetto, ancora, presso le culture animiste la pazzia è frutto di una contaminazione di uno spirito maligno che abita luoghi proibiti come foreste, paludi, ecc. per cui le azioni insane dell’individuo saranno determinate da questa possessione un po’ come accadeva durante il Medioevo quando l’Inquisizione accomunava gli eretici ai pazzi: “Non tutte le persone accusate di stregoneria erano inferme di mente, ma quasi tutti gli infermi di mente erano considerati streghe, maghi, posseduti da incantesimi” (G. Zilboorg, H. Henry).
Ippocrate nel V secolo A.C. considerava la follia una malattia del cervello mentre per il Cristianesimo era espressione della possessione da parte del demonio e pertanto punibile con le più crudeli torture.
Nel Medioevo invece l’insano di mente era largamente accettato dalla comunità, ne era parte integrante e costituente; la follia era il lato oscuro della quotidianità, era il male nel bene e l’esistenza tragica degli individui, che oscillava tra la vita e la morte, conviveva con questa immagine inquietante e familiare. In un momento storico così fortemente impregnato di religione, il folle rappresentava la vacuità dell’esistenza umana, la caducità delle speranze, il confine sottile tra la luce e le tenebre e proprio per questo l’insano di mente era custode segreto di un sapere oscuro, altro, di una dimensione parallela a quella della realtà quotidiana, che aveva in seno le Verità. E’ a partire dall’età classica che la pazzia comincia ad essere considerata una malattia, ma una malattia morale piuttosto che mentale: “la considerazione della follia come crimine e non come malattia determina la prevalenza della concezione etica su quella giuridica e condanna al silenzio e alla vergogna tutte quelle forme di alterità che nel Medioevo e nel Rinascimento avevano trovato la loro rappresentazione nel mondo fantastico e miracoloso” (Eurispes, 1994).
Il malato di mente comincia ad essere relegato in ambienti ben definiti, gli ex lebbrosari: emblema di queste nuove locazioni è l’Hopital General di Parigi fondato nel 1656 che Foucault definisce “il terzo stato della repressione”. Questa struttura è del tutto autonoma ed ha diritto di vita o di morte sull’esistenza dei suoi ospiti. Da qui comincia la storia dell’internamento, del maltrattamento, della deprivazione totale. E’ ovvio pensare che in queste strutture era presente un’umanità molto varia: da veri malati a criminali a dissidenti politici; ma anche individui dalla sessualità incerta o dediti a costumi sessuali licenziosi. La follia in questo periodo veniva a rappresentare la diversità, la devianza, ciò che era contro natura, e noi potremmo affermare contro cultura; era associata al mostruoso, all’aberrante, al corrotto e al marcio. Nel tardo XVIII sec. si comincia ad operare una distinzione, si libera la follia dalla collusione con altre forme di devianza ma viene ulteriormente isolata. Sul finire del XIX sec. diventa vera e propria malattia. Chiaramente nel corso del tempo anche gli interventi terapeutici sono cambiati e sono proprio questi che ci danno la misura delle umiliazioni e le torture subite dai degenti. Possiamo parlare ad esempio della terapia dell’acqua, tanto usata in Francia nei primi anni dell’800. Esquirol, medico e responsabile del manicomio Charenton dal 1826 al 1833, prescriveva vari tipi di bagni a seconda della gravità delle patologie: potevano essere bagni tiepidi, bagni di immersione freddi o ancora bagni a sorpresa per cui ad esempio si prendeva un malato e lo si gettava di forza nelle acque di un fiume anche in pieno inverno. Ma c’erano anche docce praticate inserendo il tubo nel retto a diverse profondità. La terapia dell’acqua era legittimata dalla credenza che a seconda della temperatura, l’acqua potesse cambiare la circolazione del sangue e quindi il modo in cui questo affluisce alla testa da cui dipendono le patologie. Oltre a questi interventi, molto usato era il salasso (in realtà se facciamo un discorso più ampio il salasso a quei tempi era considerato la panacea per tutti i mali perché per qualsiasi tipo di malattia, si interveniva prima in questo modo) praticato anche attraverso l’uso di sanguisughe poste sugli organi genitali. C’era la flebotomia, l’immersione dei piedi in acqua bollente con l’aggiunta di acido muriatico, purganti ecc.. Questo perché comunque sopravviveva la concezione arcaica della malattia come punizione di una cattiva condotta, come forma esplicita di una quotidianità vissuta non seguendo le regole della comunità, quindi era necessario il rito purificatore attraverso la fuoriuscita di quei liquidi del corpo che avevano corrotto l’anima (e la testa). Usata era anche l’elettricità galvanica o magnetica, per lo più posta sempre sulla zona anale o testicolare, ma come afferma V. Andreoli illustre psichiatra contemporaneo: “La forma più spettacolare ed efficace però, era quella del ferro rovente applicato sulla nuca o sull’occipite” (1991). C’erano fustigazioni con fasci di ortica o fruste di pelle. Ancor più drammatica se possibile è la sorte a cui erano destinate le donne, qui si tratta di vere e proprie sevizie: si va dalla clitoridectomia alla cauterizzazione, ma vengono praticate anche l’ovariectomia e la dilatazione cruenta del collo dell’utero. Charcot, psicanalista, per curare l’esteria utilizzava una cintura che per mezzo di una vite a pressione comprimeva la regione ovarica di sinistra. Questi interventi non sono dissimili dalle sevizie che le donne tutt’oggi subiscono in vari paesi del mondo.
Nella prima metà del ‘900 fa la sua comparsa l’elettroshock. E’ singolare la situazione da cui ha poi origine questa idea. E’ il 1937, il Dott. U. Cerletti allora direttore della Clinica di Neuropatologia e Psichiatria di Roma assiste visitando il mattatoio di Roma all’applicazione di corrente elettrica sulla testa dei maiali. “Con questa tecnica il paziente giunge al coma e all’arresto delle funzioni vitali: il cuore e il respiro si fermano almeno per un po’…..la rinascita è condotta con tecniche di rianimazione….nel giro di alcuni minuti il folle cammina, rinato, nella sua stanza” (V.Andreoli, 1991). Non dimentichiamo inoltre gli interventi invasivi quali la lobotomia che riduceva nell’individuo si la patologia, ma con essa anche la sue capacità critiche e relazionali.
Alla luce di tutto questo ci rendiamo conto come con legge 180 ci sia stata una vera svolta epocale. L’art 1 comma 1 afferma: gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari. E il comma 2: nei casi di cui per legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall’autorità sanitaria nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.
Già da questo primo articolo si evince la restituita dignità al malato come individuo e la restituzione del rispetto dei suoi diritti fondamentali quali, ad esempio, la libertà di scelta.
L’art. 34 comma 4 della legge 833 del 1978, articolo che riguarda i casi in cui invece si possa ricorrere al trattamento sanitario obbligatorio, afferma che: “questo può svolgersi in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accertati dall’infermo e se non vi siano le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”.style=”mso-spacerun: yes”>
Secondo la normativa attuale, la degenza in ospedale ha una durata massima di una settimana rinnovabile ed ha inizio con la proposta del medico curante, rivolta al sindaco che, nella sua qualità di autorità sanitaria, ne dispone il provvedimento. Da notare che il sindaco – come si affretta a specificare anche l’art.33 comma 3 della legge 833/78 – interviene in virtù della sua autorità sanitaria e non anche di pubblica sicurezza come invece era previsto per la legge 36 del 1904 e dell’art.1 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza (Eurispes, 1994). La proposta del medico prima di arrivare al Sindaco deve essere convalidata da un medico dell’unità sanitaria locale che deve motivare tale convalida in relazione all’art.34 comma 4 della legge 833/78.
La nuova normativa sulle patologie psichiche, come abbiamo più volte affermato, ha una visione completamente diversa: abolendo le strutture manicomiali, come nuovo territorio della psichiatria si utilizza tutta una serie di istituzioni che possano essere alternative e interdipendenti tra di loro. In questo modo si intende realizzare una fitta rete di servizi il cui scopo non sia quello di internare ma ricercare continuamente soluzioni riabilitative per quegli individui che soffrono di disagio mentale. Per questo di fondamentale importanza è anche il confronto con chi soffre: concentrarsi sulle storie di vita, sull’ambiente in cui si è vissuto, sugli stimoli ricevuti e sulle esperienze avute aiuta a comprendere. Dell’importanza della terapia della parola già ne parlavano S. Freud e J.. Breuer: “Un’immagine che sia stata sfogata a parole non si rivede più……(…)…solo con l’ultima parola dell’analisi scompare l’intero quadro morboso” (J. Breuer, S. Freud, 1976) e ancora in tempi più recenti “La parola è la rappresentazione di un sintomo, dunque un segno che lo individua e lo maschera. Gli rimane l’idea di una parola che liberatasi nella ritualità della relazione terapeutica, genera la soluzione d’un conflitto come se il conflitto fosse in quella parola, ora detta” (V. Andreoli, 1991).
Se è vero che con la legge 180 c’è stata una reale svolta epocale nella considerazione del disagio mentale, pur tuttavia questa normativa non è esente da critiche. La gestione del problema psichiatrico da parte delle singoli regioni non sempre ha dato risposte soddisfacenti e questo per tutta una serie di motivazioni non ultima proprio dal punto di vista operativo, il passaggio da una normativa ad un’altra. In realtà i punti su cui si dibatte da tempo sono sia di natura tecnica che socio-sanitaria. Non sempre gli ex-manicomi ad esempio sono stati smantellati più spesso c’è stata una riconversione poiché impossibile è stato creare strutture alternative e parallelamente c’è stata la proliferazione di case di cura private che molto spesso salgono agli onori della cronache (nere) perché veri e propri lager; per quanto riguarda i DSM, Dipartimenti di Salute mentale, da più parti si lamenta la poca specializzazione del personale che dovrebbe essere sottoposto a continua formazione; inoltre c’è la gestione della malattia a livello sociale: la famiglia e i cittadini. Molto spesso le associazione dei familiari dei malati lamentano il loro stato di abbandono da parte delle strutture psichiatriche e delle istituzioni, ci sono casi molto gravi ad esempio in cui il trattamento sanitario obbligatorio per il periodo di tempo sancito dalla legge risulta insufficiente di contro le strutture intermedie predisposte all’assistenza psichiatrica risultano insufficienti per soddisfare tutte le richieste. Quindi sarebbe necessario creare una rete di strutture con compiti differenziati che siano però interagenti tra loro al fine di affrontare la malattia in tutte le sue forme e le sue gravità. Ci sono poi difficoltà di convivenza a livello sociale con i malati psichici. In moltissimi casi la situazione di stigma della malattia permane per cui è difficile trovare una locazione indipendente per il disagiato che non viene accettato ad esempio dai vicini di casa. Paradossalmente, mentre in passato la realtà manicomiale garantiva la “sistemazione” a lungo termine dei malati, oggi c’è un reale abbandono di chi soffre e le famiglie, per la maggior parte composte da persone anziane non riescono a gestire le varie situazioni. Molto spesso poi i casi più gravi di malattia mentale si riscontrano presso famiglie che già vivono situazioni di indigenza o che comunque hanno problemi. La legge prevede dei protocolli d’intesa con le varie ASL ed i Comuni per trovare delle soluzioni e delle locazioni ma, dopo un impegno formale iniziale, le aspettative vengono subito disattese per tutta quelle serie di problemi su indicati.
Queste sono solo alcune delle problematiche su cui si dibatte: se è vero che con la legge 180 c’è stato un cambiamento nella concezione e nella gestione della malattia mentale, è altrettanto vero che in più punti risulta essere ancora lacunosa, per cui è importante si mantenere vivo il dibattito, ma anche trovare soluzioni immediate per la gestione umana di una malattia che, oltre ad essere personale ed individuale, è da considerare soprattutto sociale.
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[1] M. Tansella, Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Sezione di Psichiatria, Università di Verona.
G.De Girolamo, progetto Nazionale Salute Mentale, Laboratorio di epidemiologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma
[2] “Atti del Convegno Nazionale di studio per la riforma della legislazione sugli ospedali psichiatrici” Milano 1955, pag.770.
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