Le misure cautelari. Natura, oggetto e impugnazioni

Il nostro ordinamento processualpenalistico conosce e disciplina, dedicandovi l’intero Libro IV del codice di rito, l’istituto delle misure cautelari.

Il Legislatore non ha inteso ivi fornire espressamente una definizione di tali misure; e tuttavia, già dalla primissima disposizione dettata in materia, può ben essersi in grado di rilevare significative indicazioni circa la natura delle stesse.

Natura e presupposti per l’applicazione delle misure cautelari

L’art. 272 c.p.p., eloquentemente rubricato “limitazioni alla libertà della persona”, stabilisce infatti che “le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma  delle disposizioni del presente titolo”. Ciò che, seppur in maniera embrionale (e per certi versi solo limitatamente alle m. c. personali) consente quantomeno di definire le misure cautelari quali provvedimenti limitativi della libertà personale.

L’assunzione di tali provvedimenti, stante l’inviolabilità della libertà personale già inoppugnabilmente sancita a livello costituzionale[1], soggiace alla preliminare e rigorosa verifica di presupposti e requisiti tassativamente previsti; presupposti e requisiti i quali risultano finalizzati, da una parte, a verificare la concreta utilità e/o la necessità investigativa e/o sostanziale di porre in essere la cautela prescelta, e, dall’altra, di vagliare in maniera il più possibile rigorosa la sussistenza di uno stretto rapporto di proporzionalità tra la misura da applicare e le “esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto[2].

In questo senso vanno lette, in primo luogo, le disposizioni di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p. Esse impongono infatti, in sede di applicazione della misura cautelare, la verifica circa la sussistenza, nel caso concreto, dei cc.dd. fumus commissi delicti e del periculum libertatis. In termini maggiormente aderenti al dettato normativo, l’art. 273 c.p.p. dispone che “nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza; mentre, da par suo, l’art. 274 enumera le pocanzi richiamate utilità e/o necessità investigative e/o sostanziali suscettibili di giustificare l’applicazione di un provvedimento (più o meno) limitativo della libertà personale[3].

L’art. 275 c.p.p., per altro verso, sancisce il già richiamato principio di proporzionalità tra le esigenze cautelari da soddisfare e la misura da applicarsi nel caso concreto, dettando all’uopo, ai commi da 1 bis a 4 quinquies, talune prescrizioni le quali divengono via via più rigorose man mano che aumenti l’afflittività delle misure prese in considerazione[4].

Denominazione e oggetto delle misure cautelari

Dal punto di vista nominalistico, cui conseguono non secondarie ricadute in tema di disciplina (di cui sarà detto appresso), il codice di rito distingue le misure cautelari in personali e reali. Ancora, vengono distinte le m. c. personali in coercitive e interdittive, a seconda che queste vadano a limitare, rispettivamente, la libertà personale ovvero l’esercizio di determinate facoltà o diritti.

Tra le m. c. personali coercitive se ne rinvengono poi talune denominate obbligatorie (artt. da 281 a 283 c.p.p.: divieto di espatrio, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, allontanamento dalla casa familiare, divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, divieto e obbligo di dimora), ed altre cd. custodiali (artt. da 284 a 286 c.p.p.: arresti domiciliari, custodia cautelare in carcere, custodia cauteare in luogo di cura). La differenza tra le prime e le seconde, come agevolmente intuibile già dal nomen iuris alle stesse conferito, risiede nella circostanza che le m. c. personali obbligatorie dispongono obblighi e/o divieti in capo al soggetto che ne viene attinto, certamente limitandone la libertà personale, seppur in maniera (a seconda dei casi) più o meno blanda; laddove, per converso, le m. c. personali custodiali impongono vere e proprie costrizioni e/o restrizioni fisiche ai danni di taluno, il quale viene ad essere ristretto, confinato e custodito entro luoghi all’uopo specificamente individuati. Risulta di tutta evidenza, pertanto, la maggiore afflittività e gravosità di tali ultime misure rispetto alle prime.

Le m. c. personali interdittive, invece, possono consistere nella sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, nella sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, ovvero ancora nel divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (artt. da 288 a 290 c.p.p.)

Di non poco momento, come già supra anticipato, si rivelano le differenze disciplinatorie derivanti dall’appartenere una misura cautelare all’una ovvero all’altra delle categorie or ora enumerate; e ciò, in special modo, per ciò che concerne le condizioni di applicabilità ed i rimedi impugnatori esperibili avverso le stesse.

In tema di misure coercitive, infatti, l’art. 280 c.p.p. stabilisce che queste ultime “possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni”. Dispone inoltre, con specifico riferimento alla m. c. della custodia in carcere, che questa possa “essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni”, e ciò, intuitivamente, in ragione della maggiore afflittività di quest’ultima, la quale necessita pertanto di essere più rigorosamente perimetrata nel suo ambito di applicazione[5].

Per quanto viceversa concerne le misure interdittive, l’art. 287 c.p.p. dispone che queste “possono essere applicate solo quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni”.

 

Il regime impugnatorio

Importanti differenze sussistono inoltre per ciò che concerne il regime impugnatorio relativo alle misure in discorso.

Se, infatti, in tema di m. c. coercitive l’art. 309 del codice di rito disciplina l’istanza di riesame quale strumento attraverso il quale proporre gravame avverso un provvedimento cautelare[6], pare doversi addivenire ad una diversa conclusione per ciò che concerne le misure interdittive.

La clausola di sussidiarietà presente in apertura dell’art. 310 c.p.p., infatti, assoggetta le misure in parola al rimedio impugnatorio dell’appello, disponendo che “fuori dei casi previsti dall’art. 309, comma 1, il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali”.

In entrambi i casi, inoltre, viene alle parti espressamente riconosciuta dall’art. 310 c.p.p. la facoltà di ricorrere in Cassazione avverso i pronunciamenti resi all’esito dei giudizi instauratisi a seguito delle impugnazioni proposte ai sensi degli artt. 309 e 310 c.p.p.[7]

Brevi cenni sulle misure cautelari reali

Deve infine esser dato conto, seppur in maniera non eccessivamente profusa, della disciplina dettata dal Legislatore processuale penale in relazione alle già pocanzi citate m. c. reali.

Tali misure, a differenza di quanto osservato con riferimento a quelle personali, non attingono l’esercizio di libertà, diritti o facoltà, ma incidono e spiegano i loro effetti su beni aventi rango (meramente) patrimoniale.

Il Titolo II del Libro IV del codice di rito disciplina specificamente due tipologie di m. c. reali: il sequestro conservativo (art. 316 c.p.p.) ed il sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.).

Quanto al primo la sua funzione è quella di assicurare, attraverso l’apposizione di un vincolo sui beni mobili o immobili dell’imputato, ovvero su somme o su cose a lui dovute, l’esecuzione della sentenza che potrebbe venire emessa all’esito del processo, e ciò ogniqualvolta sia ravvisabile un fondato motivo[8]che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato”.

Avverso l’ordinanza che dispone un sequestro di tal fatta, l’art. 318 c.p.p. ammette la proposizione di richiesta di riesame, “anche nel merito, ai sensi dell’art. 324”. Significativo è inoltre che tale norma, contrariamente a quanto osservato con riferimento alle m. c. personali, estenda grandemente l’alveo dei soggetti abilitati alla proposizione dell’istanza di riesame, legittimando all’uopo “chiunque vi abbia interesse”.

Quanto invece al sequestro preventivo, esso attinge le cose pertinenti al reato[9]. Più nello specifico, “quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati” il Giudice, dietro richiesta del Pubblico Ministero, ne dispone il sequestro con decreto motivato.

In relazione a tale misura cautelare reale il codice torna inoltre a prevedere, contrariamente rispetto a quanto osservato in tema di sequestro conservativo, un assetto impugnatorio maggiormente simile a quello che già si è avuto modo di declinare con riferimento alle m. c. personali.

L’art. 322 c.p.p. conferisce infatti all’imputato, al suo difensore, alla persona alla quale le cose sono state sequestrate ed a quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, la facoltà di presentare istanza di riesame.

Il successivo art. 322 bis, da par suo, contempla la possibilità di presentare appello avverso “le ordinanze in materia di sequestro preventivo e contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal pubblico ministero[10].

Infine, l’art. 325 c.p.p. riconosce la possibilità di proporre ricorso per cassazione, avverso le ordinanze emesse a norma dei suddetti artt. 322 bis e 324, al pubblico ministero, all’imputato e al suo difensore, alla persona alla quale le cose sono state sequestrate ed a quella che avrebbe diritto alla loro restituzione. A differenza di quanto previsto dall’art. 311 c.p.p., tuttavia, una siffatta facoltà viene ad essere in tal caso, per espressa previsione normativa, limitata alla sola possibilità di “proporre ricorso […] per violazione di legge”, così restringendo ulteriormente, quantomeno sotto il profilo dei motivi proponibili, le maglie già strette che sono proprie di tale giudizio di legittimità.

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Noite

[1] Imprescindibile risulta a tal riguardo un rimando all’art 13 Cost. (del quale certamente le disposizioni n parola rappresentano una specificazione), ai sensi del quale “la libertà personale è inviolabile” e non è ammessa alcuna “restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria  e nei soli casi e modi previsti dalla legge“.

[2] In questi esatti termini si esprime infatti l’art. 275 c.p.p. in tema di “criteri di scelta delle misure”.

[3] Più dettagliatamente, l’art. 274 c.p.p. prevede che “le misure cautelari sono disposte: a) quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti; b) quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione. Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede; c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”.

[4] Si leggano a tale proposito le molteplici limitazioni imposte dal Legislatore, per il tramite dei commi 2 bis, 3, 3 bis, 4, 4 bis, 4 ter e 4 quinquies di tale disposizione, all’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere.

[5] E financo nella sua durata (si notino a questo proposito le differenze prevedute dal Legislatore tra la disciplina dettata in tema di “termini della durata massima della custodia cautlare” di cui all’art. 303 c.p.p. e quella in tema di “termini della durata massima delle misure diverse dalla custodia cautelare” di cui all’art. 308 c.p.p.).

[6] Non a caso infatti l’art. 309 c.p.p. è rubricato espressamente “riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva”.

[7] L’art. 311 c.p.p. stabilisce infatti che “contro le decisioni emesse a norma degli articoli 309 e 310, il pubblico minitero che ha richiesto l’applicazione della misura, l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione”.

[8] Torna quindi anche in tale sede ad assumere rilevanza il cd. fumus, già osservato in relazione alle m. c. personali.

[9] Con ciò dovendosi intendere, in ossequio agli approdi cui è pervenuta la più recente giurisprudenza di legittimità, “qualunque cosa sulla quale o a mezzo della quale il reato fu commesso o che ne costituisce il prezzo, il prodotto o il profitto” (ex multis v. Cass. Pen., Sez. VI, Sent. 24 settembre 2018, n. 40910).

[10] Ed anche in tal caso, come già osservato con riferimento all’appello di cui all’art. 310 c.p.p., anticipando tale disposto con l’inciso sussidiario “fuori dei casi previsti dall’art. 322”.

Avv. Sodano Gioele

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