di Roberto Bonatti*
* Ricercatore dell’Università di Bologna
Sommario
1. Premesse metodologiche: tre livelli di organizzazione del procedimento
2. Il primo livello: la diversificazione dei riti
3. Il secondo livello: case management e poteri di direzione del giudice
4. Il terzo livello: la collaborazione tra giudice e parti
1. Premesse metodologiche: tre livelli di organizzazione del procedimento
Scopo di questa relazione[1] è capire se ci sono degli strumenti a disposizione del giudice immediati già disponibili per poter organizzare meglio il suo lavoro e di conseguenza per poter catturare in maniera concreta dei principi di efficienza della giustizia nella risoluzione (97 Cost.). Il mio sarà un volo d’aquila e toccherò molti temi senza il tempo di poterli approfondire adeguatamente.
Il tema può essere trattato su tre livelli che ritengo progressivi l’uno dall’altro, cioè tre gradi di intensità nelle misure di organizzazione di un procedimento giudiziario, che lo rendano più rapido e più efficiente: il primo livello è quello della previsione di riti speciali, calati su misura di determinati tipi di controversie; il secondo livello è quello che prevede l’introduzione in qualsiasi tipo di procedimento, a prescindere dal rito che si applica, di istituti che consentano al procedimento di essere flessibile e di adattarsi non al tipo di caso ma al singolo caso concreto; il terzo livello, il più evoluto dei tre, è quello della cooperazione tra giudice e parte.
[1] Si tratta del testo, rivisto e corredato di p>
2. Il primo livello: la diversificazione dei riti
Partiamo dal primo perché è il più semplice e il più intuitivo: come si potrebbe rendere il procedimento più efficiente? La risposta parrebbe semplice: se ne inventa uno nuovo che si differenzi da quello ordinario e che grazie a questa differenziazione sia in grado di ottenere risultati migliori. Non è però questa una soluzione né particolarmente innovativa[2] né sempre del tutto efficace.
Questo livello è quello che sembra essere stato più ampiamente battuto dal legislatore italiano che ha introdotto riti speciali ormai numerosissimi; anzi, il problema adesso è quello di razionalizzarli perché sono davvero troppi[3]. Certo, è un meccanismo che può funzionare; a patto però di comprendere con precisione quali siano le esigenze di ciascun rito e di ciascun tipo di controversie. Quindi, la questione è duplice: prima occorre comprendere quali sono i tipi di controversie che hanno bisogno di un rito speciale; il secondo ed immediatamente conseguente è determinare in base a quali criteri esse vadano selezionate. Intuitivamente, i criteri sembrano essere due: la materia in cui il contenzioso si svolge ed il valore del contenzioso stesso.
Ecco, allora, applicando il primo criterio, l’esempio più autorevole: il rito del lavoro (primo rito speciale di un certo rilievo)[4] è stato introdotto proprio per rendere più efficiente e più rapida la giustizia del lavoro, ipotizzando che la materia del lavoro fosse una materia particolarmente sensibile e che avesse bisogno di un processo particolarmente accelerato. Il rito del lavoro funziona ancora in questo senso.
Vi sono però molti altri riti speciali introdotti con questo obiettivo e secondo questo schema: i più recenti esempi in questo senso sono il rito sommario di cognizione[5] ed il rito camerale in Cassazione. Con riguardo a quest’ultimo, la riforma del 2016 ha perseguito proprio la finalità di rendere più snella, più rapida e, auspicabilmente, più efficiente la fase decisoria davanti alla Corte di Cassazione in una serie di controversie che si presume non richiedano particolari attenzioni, tanto che si presume non richiedano la discussione orale delle parti. Allo stesso modo, nella giustizia amministrativa il c.d. rito speciale sugli appalti è un rito accelerato che consente di risolvere una controversia in primo e secondo grado (quindi arrivare al giudicato, salvo il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione) in un tempo che varia tra i cinque e i dodici mesi. Si tratta di un buon risultato, ottenuto con la tecnica della previsione di un rito speciale. Nel c.p.a. tutti i riti speciali (sul silenzio, in materia di accesso ai documenti) sono finalizzati a strutturare un rito più rapido per taluni tipi di controversie.
Quanto al valore, mi limito solo ad elencare: i procedimenti di competenza del giudice di pace (che comunque sono determinati anche in base a criteri di materia); soprattutto, il regolamento europeo sulle controversie di modesta entità, che ha un rito speciale proprio per controversie che abbiano un valore al di sotto dei 5.000 euro[6].
L’inconveniente di questo primo livello è quello di capire se tutte le controversie di un certo tipo abbiano davvero necessità di un rito speciale oppure no.
Questo livello, in effetti, è diffuso in modo più o meno intenso in tutti gli ordinamenti (Francia, Inghilterra sono famosi per avere già da tempo previsto rispettivamente il contrat de procédure ed il fast track, ossia esattamente la possibilità di incanalare la controversia in un binario più o meno veloce a seconda di come la controversia appare importante, difficile, ecc.)[7]. In quegli ordinamenti, però, la scelta è fatta dopo l’introduzione della causa, dopo la domanda; ed è operata dal giudice e non è predeterminata dalla legge. In altri termini, il giudice – dopo aver sentito le parti e “collaborato” con le stesse – stabilisce in quale binario la singola controversia verrà esaminata.
Nel nostro ordinamento, invece, questa situazione si verifica in modo diverso: per esempio, nel rito sommario di cognizione la scelta del rito è della parte attrice, che ritiene più opportuno utilizzare un rito che dovrebbe essere semplificato. Il giudice ha solo un potere di controllo di questa scelta, che si concretizza nella possibilità di mutare il rito verso il rito ordinario anche se spesso il giudice accetta la scelta della parte, forse anche solo perché non è abituato a ragionare come se avesse a disposizione ancora i due binari, quello sommario e quello ordinario a cognizione piena e fosse lui a dover scegliere in quale dei due incanalare la causa[8].
La soluzione italiana non è dunque esattamente in linea con le soluzioni adottate da altri ordinamenti che hanno maggiormente utilizzato questo livello.
[2] In fondo anche il richiamo chiovendiano ai principi di oralità, concentrazione ed immediatezza era null’altro che un rito speciale rispetto a quello ordinario.
[3] Tentativo operato ad esempio con il d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150.
[4] Mi riferisco in questa sede al rito del lavoro come rito speciale, esclusivamente per indicare che il procedimento è differente rispetto al rito ordinario di cognizione.
[5] Biavati, Appunti introduttivi sul nuovo processo a cognizione semplificata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, p. 185 ss.
[6] La bibliografia al riguardo è imponente: mi limito in questa sede a rimandare a D’Alessandro, Il procedimento uniforme per le controversie di modesta entità, Torino, 2008; Pozzi, Il rito bagatellare europeo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, p. 611 e ai riferimenti bibliografici ivi contenuti.
[7] In generale, su questi temi, v. Lupoi, Tra flessibilità e semplificazione, Bologna, 2018, p. 16 ss.; Ficcarelli, Fase preparatoria del processo civile e case management giudiziale, Napoli, 2011, p. 91 ss.
Sul processo inglese: Andrews, The modern civil procedure, Tübingen, 2008, 25 ss.; Id., A new civil procedural code for England: party-control «going, going, gone», in Civil Justice Quarterly, 2000, p. 25 ss.; Zuckermann, Adjudication of civil dispute: a mismanaged public service, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, supplemento, p. 123; Jolowicz, Il nuovo ruolo del giudice del pre-trial, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, p. 1263 ss.; Passanante, Processo civile inglese, in Enc. dir. annali, III, p. 969 ss.; Dondi , Case law e filosofia degli atti introduttivi negli Stati Uniti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, p. 530 ss.
Sul processo francese: Cadiet, Complessità e riforme del processo civile francese, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, p. 1305 s.; Canella, Gli accordi processuali francesi volti alla regolamentazione collettiva del processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, p. 549 ss.
[8] Per tutti, Biavati, I procedimenti civili semplificati e accelerati: il quadro europeo e i riflessi italiani, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, p. 752 ss.
3. Il secondo livello: case management e poteri di direzione del giudice
Spostiamoci ora al secondo livello: quello degli strumenti che, a prescindere dal rito applicato, consentono una serie di miglioramenti organizzativi interni al procedimento. Si parla molto e da tempo di introdurre meccanismi di flessibilità nel processo, evidentemente perché il bisogno di flessibilità nel processo è fortemente avvertito[9]. Tuttavia, se si ricercano nelle norme di diritto positivo l’esistenza di strumenti di flessibilità è facile accorgersi che questi strumenti già ci sono e non c’è bisogno di ulteriori riforme (certo, alcuni di essi potrebbero essere migliorati; così come si potrebbero immaginarne di nuovi).
Una rapida carrellata: l’art. 183, comma 4, sulle questioni rilevabili d’ufficio, consente al giudice di individuare d’ufficio delle questioni di cui ritenga opportuna la trattazione fin dalla prima udienza; se a questa norma fosse attribuita piena rilevanza pratica certo il processo sarebbe più efficiente perché fin da principio le parti hanno la possibilità di sviluppare il contraddittorio su queste questioni. Cosicché, sebbene questa norma sia stata introdotta per evitare le c.d. decisioni di terza via[10], la collocazione temporale di questa verifica è significativa dell’importanza di effettuare in quella prima fase iniziale, nella prima udienza, una verifica sull’esistenza di eventuali questioni rilevabili d’ufficio che le parti abbiano trascurato nei propri scritti difensivi introduttivi. Chiaramente, se questa verifica venisse fatta in un momento successivo sarebbe pur sempre ammissibile ed opportuna ma al costo di perdere tempo prezioso.
Sempre nell’art. 183 c.p.c., l’ordinanza fuori udienza sull’ammissione dei mezzi di prova: è una facoltà del giudice, che manifesta l’esistenza di uno strumento di flessibilità che consente di risparmiare una udienza. Rimane però una norma poco applicata. La decisione in forma orale ex art. 281 sexies c.p.c. consente anche in questo caso di risparmiare una parte della fase decisoria.
Due sono gli strumenti esistenti che sono al contempo quelli meno utilizzati e quelli che, a mio avviso, sarebbero invece i più utili. Il primo è rappresentato dal calendario del processo, sul quale si è discusso e scritto molto[11] ma non è stato grandemente applicato. Se nel processo penale il calendario è uno strumento effettivamente impiegato, nel processo civile invece esso è sostanzialmente utilizzato solo da una netta minoranza di giudici che intendono in questo modo gestire la propria organizzazione del lavoro, e non quella del singolo processo. Invece, le potenzialità del calendario del processo non sono limitate ad una migliore organizzazione dell’agenda del magistrato ma sarebbero invece molto utili anche alle parti, che possono conoscere con un sufficiente margine di precisione quando finirà il processo[12]. La possibilità di programmazione è un elemento non trascurabile nell’ottica delle parti[13], che può avere p>
Il secondo è rappresentato dagli artt. 127 e 175 c.p.c. che individuano i poteri di direzione del giudice, sia dell’udienza sia dell’intero procedimento. Si tratta di due norme molto sintetiche ma ciò non significa che siano meno significative[14] e sarebbe sufficiente, a volte, applicarle. Norme di questo tipo esistono peraltro in molti ordinamenti europei ed anzi sono state nel tempo intensificate[15].
Secondo una parte della dottrina, questo livello rappresentato dalle misure di flessibilità del processo sarebbe pericoloso, perché finirebbe per indebolire il principio di legalità e di riserva di legge nella materia processuale: se al giudice fosse riconosciuto un eccessivo potere nell’identificazione e nella decisione di quale rito utilizzare per decidere una determinata controversia o come organizzare il processo, il rischio sarebbe quello di una imprevedibilità o addirittura una schizofrenia nella gestione del processo, con l’individuazione di regole diverse da caso a caso e l’incertezza che ne deriverebbe per le parti stesse.
[9] Cadiet, Case management judiciaire et déformalisation de la procédure, in Rev. franç. admin. publique, 2008, p. 133 ss., secondo cui la flessibilità può essere perseguita anche attraverso misure di deformalizzazione, intese come l’assottigliamento delle regole processuali da parte degli attori del processo o dalla legge stessa; Ansanelli, Flessibilità, proporzionalità ed efficienza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, p. 343 ss. ; Biavati, Appunti introduttivi, cit., p. 185 ss.
[10] De Cristofaro, Case management e riforma del processo civile, tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, p. 284, ricorda che la norma, in realtà, codifica un orientamento già espresso dalla giurisprudenza della Cassazione, ed inaugurato da Cass. 21 novembre 2001, n. 14637; sebbene tale posizione abbia all’epoca diviso la miglior dottrina tra chi, come Luiso, Questione rilevata d’ufficio e contraddittorio: una sentenza rivoluzionaria?, in Giust. civ., 2002, I, p. 1612, ne ha evidenziato e condiviso la portata innovativa e chi, come Chiarloni, La sentenza della «terza via» in cassazione: un altro caso di formalismo nelle garanzie?, in Giur. it., 2002, I, p. 1363, ne ha criticato gli inconvenienti.
[11] Zucconi Galli Fonseca, Il calendario del processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, p. 1393 ss.; Pagni, Art. 81 bis disp. att. c.p.c. – calendario del processo, in NLCC, 2010, p. 1167 ss.; Ghirga, Le novità sul calendario del processo: le sanzioni previste per il suo mancato rispetto, in Riv. dir. proc., 2012, p. 166 ss.; Della Pietra, Le modifiche alla trattazione e all’istruzione nell’ultima novella del processo civile, in Dir e giur., 2009, p. 236 ss.; Picozza, Il calendario del processo, in Riv. dir. proc., 2009, p. 1652 ss.; Salvaneschi, La riduzione del tempo del processo nella nuova riforma dei primi due libri del codice di rito, in Riv. dir. proc., 2009, p. 1578.
[12] Secondo Balena, in Chizzini-Menchini-Caponi- Balena, La riforma della giustizia civile, Torino, 2009, p. 213 ss., accanto a questa finalità occorre riconoscere anche quella di adattare i tempi alla specificità della singola controversia.
[13] Zucconi Galli Fonseca, op. cit., p. 1395.
[14] Come molte delle norme originarie del codice, si esauriscono in poche ma significative ed esaustive regole.
[15] De Cristofaro, op. cit., p. 288 ss.;
4. Il terzo livello: la collaborazione tra giudice e parti
Il terzo livello è, purtroppo, quello meno sviluppato in Italia: la collaborazione e cooperazione tra giudice e parti resta ancora per noi abbastanza strana; eppure non dovrebbe essere così[16].
Per esempio, è utile ricordare che nel processo davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea storicamente vi sono previste le misure di organizzazione del procedimento: si chiamano esattamente così ed hanno ispirato il titolo di questo mio contributo. I regolamenti di procedura della Corte e del Tribunale parlano di misure di organizzazione del procedimento, per esempio, con riferimento alla possibilità che la Corte o il Tribunale hanno di chiedere alle parti prima dell’udienza dei chiarimenti e di sottoporre alle parti dei quesiti a cui rispondere oralmente in udienza, oppure ancora sollecitare le parti a discutere in udienza di specifici aspetti e questioni della causa e non di altro (evidentemente già chiaro dagli scritti difensivi), in modo che la discussione orale possa davvero essere utile anche al giudice per dissipare i dubbi residui su taluni aspetti della controversia sui quali la Corte ritiene che lo scambio delle memorie scritte non abbia raggiunto la chiarezza necessaria per decidere. Inoltre, senza nemmeno porsi troppi problemi di rispetto del principio del contraddittorio (che è comunque rispettato nella successiva udienza di discussione), la Corte abitualmente pone quesiti non a tutte, ma solo ad alcune parti, oppure comunque diversifica i quesiti da porre ad una parte e all’altra.
Sempre dal processo davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, si possono ricordare le istruzioni agli avvocati[17] che organizzano le fasi scritta, orale e di udienza del processo: le parti sanno come comportarsi e la Corte sa cosa aspettarsi dai difensori delle parti e dal comportamento processuale in generale. In Italia ci si limita a chiedere agli avvocati la sinteticità[18], come accade nel codice del processo amministrativo; si sanzionano le parti che superano i limiti dimensionali nel numero di pagine scritte negli atti processuali; si stabiliscono protocolli (i c.d. osservatori) all’interno dei Tribunali e delle Corti d’Appello, su specifiche problematiche territoriali nella gestione e nell’organizzazione dei processi[19].
Manca però un livello generale di approfondimento di questo strumento. Ecco allora che se il problema da cui sono partito è quello dei tempi nel processo, per verificare quali sono gli strumenti per semplificare ed ottimizzare il processo anche sotto il profilo della sua durata, la conclusione del ragionamento ci porta piuttosto sul rapporto opposto, quello cioè del processo nel tempo e – paradossalmente – a concludere con una citazione piuttosto risalente. Voglio dire che la cooperazione tra giudice e parti non è affatto un concetto nuovo: ne parlava già Calamandrei nel 1941[20]. È solo attraverso uno sforzo reciproco tra giudice e parti che il processo può funzionare meglio. Le parti non possono vedere il giudice come il direttore dell’orchestra e il giudice non può considerare le parti come le mere esecutrici di atti e attività processuali: giudice e parti devono invece parlarsi, nel processo e sul processo.
[16] Lupoi, op. cit., p. 15 s.; van Rhee, Case management in Europe: a modern approach to civil litigation, in Int. Journ. of Procedural Law, 2018, I, p. 65 ss., spec. p. 74 ss.; Trocker, Poteri del Giudice e diritto delle parti nel processo civile: gli insegnamenti di Calamandrei e le riforme processuali in Europa, in Poteri del giudice e diritti delle parti nel processo civile. Atti del convegno di Siena del 23-24 novembre 2007, Napoli, 2010, p. 177; Grasso, La collaborazione nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1966, p. 584 ss.
[17] Che dal punto di vista delle fonti non è propriamente una fonte normativa, ma parificabile ad una raccolta di suggerimenti e di consigli che la Corte fornisce agli avvocati per rendere più proficua l’attività, scritta e orale, da svolgere nel procedimento.
[18] La richiesta non è peraltro né un suggerimento né un consiglio, perché è imposta per legge ed è dunque un obbligo che le parti hanno verso il giudice. Questa differenza forza i rapporti tra giudice e parti, perché non li fonda sulla cooperazione e collaborazione ma su diritti e doveri, così come snatura la funzione per così dire educativa che uno strumento non vincolante invece può perseguire appieno.
[19] Sui quali v. Graziosi, Gli osservatori sulla giustizia civile e i protocolli di udienza, a cura di Berti Arnoaldi Veli, Bologna, 2011, p. 188 ss.; Sciacca, Gli strumenti di efficienza del sistema giudiziario e l’incidenza della capacità organizzativa del giudice, in Riv. dir. proc., 2007, p. 643 ss.; Miccioli-Sciacca, Managerialità giudiziaria e programmi di gestione dei procedimenti civili, in Riv. dir. proc., 2015, p. 401 ss. Peraltro, vi è chi dubita dell’effettiva utilità di questi strumenti: v. per es. Braccialini, Le prassi virtuose al bivio tra metodo e inutilità, in Gilardi (a cura di), Processo e organizzazione: le riforme possibili per la giustizia civile, Milano, 2004, p. 85 ss.
[20] Calamadrei, Delle buone relazioni fra i giudici e gli avvocati nel nuovo processo civile, due dialoghi, Firenze, 1941.
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