Le pene accessorie nel diritto penale militare e l’efficacia della sentenza penale nel procedimento disciplinare: problemi attuali

Gli effetti della vicenda sui rapporti di pubblico impiego del personale militare costituiscono ad oggi un tema di grande attualit? in considerazione dell?evoluzione giurisprudenziale e normativa che ha profondamente modificato il sistema previgente.

In particolare, si intende far riferimento alla l.27 marzo 2001 n.97 recante ?norme sul rapporto tra procedimento penale e disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche? e la legge 12 giugno 2003 n. 134 recante ?modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti?; tali interventi normativi, peraltro costituiscono lo sbocco di una vicenda giurisprudenziale iniziata con la storica sentenza della Corte Costituzionale del 14 ottobre 1988 n.971.[1]

Quest?ultima sentenza[2], come ? noto agli operatori del settore, ha sancito l?illegittimit? di ogni forma di meccanismo di destituzione automatica dal rapporto di pubblico impiego in conseguenza di una sentenza penale di condanna.

Addentrandosi gradualmente nella tematica oggetto di questo scritto si deve necessariamente porre in rilievo la centralit? dell?art. 13, co.3 della l.n.382/78 che stabilisce che ?le sanzioni disciplinari di stato (quelle che cio? propriamente incidono sulla sfera giuridica del militare) sono regolate per legge? cos? operando un rinvio alla normativa speciale di settore (cfr. art. 73 l.10 aprile 1954, n.113 per gli ufficiali; oppure l?art. 63 l.31 luglio 1954, n. 599, per i sottoufficiali; ed in particolare meritano una speciale menzione quelle che incidono sul rapporto di impiego determinandone la sospensione disciplinare ex art. 21 l. 599/1954 e finanche la risoluzione art. 70 n.4 l.113/1954).

Il sistema cosi come delineato dal legislatore, indi, postula una reciproca autonomia dell?illecito disciplinare e dell?illecito penale posto che, nonostante la previsione dell?art. 38 c.p.m.p. secondo cui ? le violazioni dei doveri del servizio e della disciplina militare, non costituenti reato, sono prevedute dalla legge ovvero dai regolamenti militari approvati con con decreto del Presidente della Repubblica, e sono punite con le sanzioni in essi stabilite?, l?art. 65 co.7 del d.p.r. 18 luglio 1986, n.545 chiaramente afferma che possono essere puniti con la consegna di rigore sia ? i fatti previsti come reato, per i quali il comandante di corpo non ritenga di chiedere il procedimento penale, nell?ambito delle facolt? concessegli dalla legge, sia i fatti? che abbiano determinato un giudizio penale a seguito del quale sia stato instaurato un procedimento disciplinare?[3].

Tuttavia esistono delle rilevanti e significative eccezioni al principio generale dell?autonomia tra illecito disciplinare ed illecito penale ed in particolare quella prevista dall?art. 260 c.p.m.p. che prevedendo una particolare condizione di procedibilit? per i reati puniti con la pena della reclusione militare non superiore a sei mesi, in ultima istanza rimette alla valutazione dell?autorit? militare l?inizio del procedimento penale[4].

 

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La storia dei rapporti tra procedimento penale e disciplinare

 

 

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Come gi? si ? anticipato, significativi sono stati gli interventi normativo-giurisprudenziali che hanno portato all?affermazione dei correlati principi dell?autonomo accertamento del fatto e dell?autonoma valutazione dello stesso che per lungo tempo hanno caratterizzato i rapporti tra l?illecito disciplinare e quello penale.

Con riguardo all?autonomo accertamento del fatto, in principio, l?art. 653 c.p.p. disponeva che? la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilit? disciplinare davanti alle pubbliche autorit? quanto all?accertamento che il fatto non sussiste o che l?imputato non lo ha commesso?.

Con riguardo all?autonoma valutazione del fatto si deve necessariamente far riferimento alla storica sentenza della Corte Costituzionale, di cui si ? parlato all?inizio, la n. 97171988 con la quale ? stata dichiarata l?incostituzionalit? dell?art. 85 lett. a) del T.U. 10 gennaio 1957 n.3 nella parte in cui non prevede ? in luogo del provvedimento di destituzione di diritto a seguito della sentenza di condanna passata in giudicato per uno dei delitti indicati alla lett. a)- l?apertura e lo svolgimento di un autonomo procedimento disciplinare al fine di graduare l?entit? della risposta sanzionatoria della p.a.[5]

Il legislatore sulla scia di questa fondamentale pronuncia della Corte ha prontamente recepito le statuizioni di quest?ultima prescrivendo con l?art.9 l.7 febbraio 1990 n. 19 che ?il pubblico dipendente non pu? essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. E? abrogata ogni contraria disposizione di legge?.

Con la l. 27 marzo 2001, n.97 nasce un nuovo modo di concepire i rapporti tra procedimento disciplinare e penale intervenendo la novella sul principio dell?autonomo accertamento del fatto, statuendo cos? l?art. 653 c.p.p.: ?la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per la responsabilit? disciplinare davanti alle pubbliche autorit? quanto all?accertamento che il fatto non sussiste o non costitusce illecito penale ovvero che l?imputato non lo ha commesso ( comma 1)? mentre ? la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilit? disciplinare davanti alle pubbliche autorit? quanto all?accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceit? penale e all?affermazione che l?imputato lo ha commesso (comma 1 bis)?.

Risultano pertanto in questo modo significativamente ridotti i margini di reciproca autonomia dei procedimenti penali e disciplinari[6].

Di portata dirompente ? invece la modifica introdotta dall?art. 2 della l .97/2001 che rompe con il passato stabilendo che ?salvo quanto previsto dall?art. 653 c.p.p., anche quando ? pronunciata dopo la chiusura del dibattimento la sentenza (di applicazione della pena su richiesta delle parti) non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza ? equiparata ad una pronuncia di condanna?. Pertanto, attraverso il rinvio all?art. 653 c.p.p., la norma attribuisce alla sentenza di patteggiamento efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare.[7]

Anche il principio dell?autonoma valutazione del fatto risulta ad oggi fortemente limitato dall?introduzione della nuova disciplina della pena accessoria dell?estinzione del rapporto di impiego e di lavoro pubblico. L?art. 32 quinquies? c.p. infatti cos? recita ? salvo quanto previsto dagli artt. 29 e 31, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti contro la p.a. previsti dagli articoli 314 primo comma, 317,318,319,,319 ter, e 320 comporta altres? l?estinzione del rapporto di lavoro e di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica?.

Infine si consideri il nuovo articolo 445 comma 1 codice di procedura penale che prevede che laddove la pena detentiva patteggiata superi il limite dei due anni, viene meno il beneficio della non applicazione delle pene accessorie.

 

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Sentenza penale di assoluzione: efficacia nel giudizio disciplinare alla luce degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali:

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Come si ? osservato, la novella che da ultimo ha riformato con la l. n.97/2001 l?art. 653 co.1 c.p.p., ha limitato l?autonomia delle valutazioni disciplinari da parte dell?autorit?, quando il provvedimento del giudice penale consista nella formula assolutoria ?perch? il fatto non sussiste? o ?perch? l?imputato non ha commesso il fatto?.

Evidentemente tale formula assolutoria postula un compiuto accertamento dei fatti sottoposti alla cognizione del giudice penale che, laddove in astratto possano essere oggetto di valutazione disciplinare, risultano inevitabilmente interdetti ad un?ulteriore valutazione della p.a. Tuttavia la pi? avveduta dottrina [8], ha giustamente constatato come nel diritto processuale penale la formula assolutoria contenuta nel dispositivo possa essere il pi? delle volte riconducibile ad una mancanza di sufficienti elementi probatori a carico dell?imputato, con la conseguenza di imporre comunque un?assoluzione nei termini di cui all?art. 530 co. 1 c.p.p..

In tali casi la giurisprudenza amministrativa[9], valorizzando questo profilo motivazionale ha ritenuto in pi? di un? occasione che in siffatte ipotesi non operi la preclusione di cui all?art. 653 c.p.p, risultando libera la p.a di valutare la sussistenza di profili disciplinarmente rilevanti, fermo restando naturalmente il limite rappresentato dall?accertamento dei fatti contenuto nella sentenza: dunque libert? di valutazione dei fatti ma non libert? di accertamento degli stessi.

Diversa invece ? la problematica, anch?essa recentemente affrontata dalla giurisprudenza amministrativa, rinvenibile nell?impropria dizione di cui all?art. 653c.p.p, come novellato, in cui chiaramente il legislatore pone un limite al potere di apprezzamento della p.a quando il giudice penale abbia statuito che ?il fatto non costituisce illecito penale?: le difficolt? interpretative sorgono nella misura in cui tale formula assolutoria non ? ricompresa tra quelle previste dall?art. 530 c.p.p.. In questo caso l?orientamento ormai prevalente della giurisprudenza amministrativa[10] ? quello secondo cui l?efficacia di giudicato della sentenza penale riguarda esclusivamente il fatto nella sua realt? fenomenica, permanendo il potere-dovere dell?amministrazione di valutare il fatto sotto il profilo disciplinare: ci? anche nell?ipotesi, in cui ovviamente, la formula assolutoria? sia ?perch? il fatto non ? previsto dalla legge come reato?.

A seguito dell?espunzione dall?art. 653 c.p.p. del riferimento alla pronuncia della sentenza operata in dibattimento, l?efficacia extrapenale deve invece essere necessariamente riconosciuta nell?ipotesi di giudizio abbreviato.

Infine, il potere di valutazione autonoma della p.a., si riespande nuovamente, non subendo limitazioni di sorta, nell?ipotesi in cui il procedimento penale venga definito con sentenza di non luogo a procedere ex art. 529 c.p.p o mediante dichiarazione di estinzione del reato ai sensi dell?art. 531 c.p., avendo anche per tale caso la giurisprudenza amministrativa sancito la legittimit? dell?esercizio dell?azione disciplinare[11].

 

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La sentenza di condanna ed in particolare la sentenza di patteggiamento

 

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Con riguardo all?efficacia extrapenale della sentenza di condanna, la disciplina dei suoi effetti contenuta nel comma 1 bis dell?art. 653 c.p.p. costituisce un elemento di novit? , avendo in passato dato luogo la vicenda ad un complesso contrasto giurisprudenziale sfociato in una pronuncia della Suprema Corte a SS.UU[12].

Tale contrasto, risulta pertanto definitivamente superato dalla scelta operata dal legislatore che impone l?autorit? di giudicato alla sentenza che abbia statuito la sussistenza del fatto, la sua illiceit? penale e la responsabilit? dell?imputato.

Rimane peraltro fermo il principio, che potremmo definire generale, di autonoma valutazione del fatto da parte dell?autorit? amministrativa che, seppure nei limiti imposti dall?accertamento dei fatti materiali oggetto della cognizione del giudice penale, ha comunque il dovere di compiere un?autonoma istruttoria senza recepire automaticamente le conclusioni del provvedimento giurisprudenziale.

Ben pi? problematica risulta invece la tematica dell?efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento.

La norma di cui all? art. 445 c.p.p infatti statuisce che ? salvo quanto previsto dall?art. 653, la sentenza, la sentenza prevista dall?art. 44 comma 2, anche quando ? pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili ed amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge la sentenza ? equiparata ad una pronuncia di condanna.?

Gli aspetti controversi della questione, sorgono infatti dal dibattito mai sopito in ordine alla natura giuridica della sentenza di cui all?art. 444 c.p.p., nonostante l?impropria equiparazione prevista dall?art. 445; in particolare in ordine alla possibilit? di coniugare una affermazione di responsabilit? (quella contenuta nella sentenza di patteggiamento) con un incompiuto accertamento dei fatti a fondamento della sentenza di condanna.

Posto che pertanto la dottrina penal-processualistica pi? autorevole, esclude di poter identificare tout-court tale pronuncia con una di condanna[13], in ragione della mancanza di un esaustivo accertamento giurisdizionale di responsabilit? dell?imputato, la giurisprudenza[14] si ? trovata a risolvere il problema dei profili di autonomia disciplinare dell?amministrazione in ordine alla valutazione dei fatti oggetto dell?affermazione di responsabilit?.

In particolare ? necessario stabilire, ai fini della comprensione dei termini del problema, il reale significato dell?art. 445 nella parte in cui fa salva l?applicazione dell?art. 653 c.p.p.; escluso pertanto, sulla scorta del ragionamento sin qui condotto, che la sentenza di patteggiamento, postuli una qualche forma di accertamento di penale responsabilit?, rimane da capire il perch? del rinvio operato dall?art. 445 all?art. 653 c.p.p..

Al riguardo il pi? autorevole orientamento del Consiglio di Stato [15] ritiene che l?efficacia di giudicato prevista dall?art. 445 c.p.p. riguardi soltanto l?accertamento dei fatti svolto dal giudice, non avendo l?autorit? disciplinare alcun dovere istruttorio di ricostruzione della vicenda ove la sentenza contenga un esaustivo accertamento dei fatti, rimanendo viceversa libera di procedere ad una diversa ricostruzione dei fatti ove le indagini penali risultino incomplete o comunque carenti sotto un qualche profilo.

Chiarito indi il sistema costruito dal legislatore per coordinare il procedimento penale con quello disciplinare, resta solo da evidenziare che tale opzione ermeneutica risulta coerente con le motivazioni della sentenza della corte costituzionale 28 maggio 1999, n. 197,[16]secondo la quale l?art. 9, comma 2, della legge n. 19/1990, che pone il termine perentorio di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare conseguente ad una pronuncia di condanna, non trova applicazione per i casi in cui il procedimento penale si conclude con una sentenza di patteggiamento, posta l?incompiutezza dell?accertamento compiuto in ordine alla penale responsabilit?.[17]

 

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Pene accessorie e risoluzione del rapporto di impiego

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Di particolare evidenza, per i suoi rilevanti aspetti pratici, ? la correlazione esistente tra la sentenza penale di condanna applicativa delle pene accessorie, comuni e militari, e le conseguenti determinazioni dell?autorit? militare in ordine al proseguio del rapporto di servizio, potendosi certamente affermare che anche in tale caso il principio di autonomia della valutazione agli effetti disciplinari della condotta costituente reato soffre di una significativa deroga.

Infatti il c.p.m.p. prevede, nell?ambito del sistema delle pene accessorie create dal legislatore, l?istituto della ?rimozione? di cui all?art. 29 e quello della degradazione di cui all?art.28. Pur accomunate dalla denominazione impropria di sanzioni destitutive, in realt? le due pene mantengono un?autonomia concettuale, posto che solo la degradazione comporta l?espulsione dall?ordinamento militare, mentre la rimozione (nonostante il significato apparente della dizione) la sola perdita del grado, con conseguente condizione di soldato semplice o di prima classe.

La gravit? di una tale sanzione, i cui effetti sono puntualmente disciplinati dagli artt. 28 e 29, e d i presupposti applicativi dall?art.33 c.p.m.p., induce a chiedersi quale sia il residuo spazio applicativo della discrezionalit? amministrativa a fronte di una pronuncia di condanna penale contenente una statuizione del genere.

Ed in realt? si deve concludere per l?automaticit? delle stesse pene accessorie, prescrivendo l?art. 20 c.p.m.p., che ?conseguono di diritto alla condanna , come effetti penali di essa?. Anzi l?art. 183 disp.att. c.p.p. ribadisce ulteriormente tale riserva giurisdizionale stabilendo che ? ? il pubblico ministero a richiederne l?applicazione al giudice dell?esecuzione, se non si ? gi? provveduto con la sentenza di condanna?.

In forza di tale previsione resta pertanto esclusa la possibilit?, pure prospettata, che sia l?autorit? militare ha dare esecuzione ad una tale decisione con un proprio provvedimento discrezionale.

Risulta evidente, come ormai sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa[18], che la p.a. risulta vincolata all?esito della statuizione penale, dovendo anzi dare esecuzione, senza discrezionalit? alcuna, alla pena accessoria irrogata dal giudice: trattasi dunque di attivit? vincolata, per la quale non esisterebbe neppure l?obbligo di dare al condannato la comunicazione dell?avvio del procedimento[19].

Quindi l?effetto estintivo del rapporto d?impiego, dovrebbe essere la conseguenza automatica, di una sentenza comportante la degradazione ai sensi dell?art. 28 quale risultato di una condanna all?ergastolo, alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni e alla dichiarazione di abitualit?, professionalit? nel delitto ovvero di tendenza a delinquere, pronunciata nei confronti del militare per reati militari.

Pertanto al di fuori di quest?ipotesi non potrebbe essere disposta alcun provvedimento destitutivo automatico, essendo comunque necessario avviare un procedimento disciplinare come imposto dalla l.19/90 che ha prontamente recepito l?orientamento della Corte Costituzionale.

Tuttavia la giurisprudenza, con riferimento alle figure professionali appartenenti all?Arma dei CC od al Corpo della GdF ed a tutti i militari delle FF.AA. in servizio continuativo, ha enucleato una ?nuova forma? di destituzione automatica in ragione di un?evidente aporia riscontrabile nell?ordinamento. In particolare infatti, con il riordino delle carriere attuato con i decreti legislativi del 12 maggio 1995, n.196, n. 198 e n.199, ? stato sancita l?impossibilit? di configurare un militare professionista quale soldato semplice, essendo i carabinieri ed i finanzieri (oltre agli appartenenti alle FF.AA. professionali) equiparati al grado corrispondente a quello del primo caporal-maggiore.

Quid iuris, allora nell?ipotesi in cui una sentenza penale di condanna, inflitta ad un militare di professione irroghi la pena accessoria della rimozione? E? in sostanza possibile ritenere che la condizione di militare privo di grado sia compatibile con la continuazione del servizio?

L?adesione a quell?orientamento giurisprudenziale[20] ,che vede in tale ipotesi la rimozione come un provvedimento ?di fatto? risolutivo del rapporto di impiego, porterebbe all?inevitabile conclusione che la p.a debba solo prendere atto del venir meno di uno dei requisiti richiesti per la continuazione del servizio continuativo con un mero provvedimento dichiarativo, in assenza di qualsivoglia istruttoria e quindi di un procedimento.

Tuttavia la Corte Costituzionale con sentenza 393/1996 ha espressamente escluso chela rimozione comporti la risoluzione di un rapporto di impiego professionale dichiarando tra l?altro incostituzionali l?art. 12, lett. f) e l?art. 34, n.7 della l.1168/1961 nella parte in cui non prevedono l?instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione del servizio per perdita del grado conseguente all?applicazione della pena accessoria della rimozione, ribadendo ancora l?illegittimit? di ogni ipotesi di destituzione di diritto e la necessita che la destituzione, quale sanzione pi? grave, consegua eventualmente ad un procedimento disciplinare autonomo.

Infine, in ragione della complementariet? del codice penale militare rispetto a quello ordinario, per cui gli effetti delle pronunce del giudice penale ordinario si riflettono anche sull?ordinamento speciale militare, quale ulteriore ipotesi di destituzione automatica, in assenza di ogni ulteriore procedimento disciplinare instaurato dalla p.a., ? opportuno far riferimento alle pene accessorie comuni previste dagli artt. 29 e 32 quinquies del codice penale. Infatti l?interdizione perpetua dai pubblici uffici, quale effetto penale della condanna, determina ipso iure, senza che residui alcuna discrezionalit? all?amministrazione, la risoluzione del rapporto di impiego del militare, quale conseguenza della degradazione del condannato ai sensi dell?art. 33 co.1 c.p.m.p.
Un analogo effetto estintivo del rapporto d?impiego si verifica ove alla condanna consegua la pena accessoria prevista dall?art. 32 quinquies c.p, secondo il quale la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore ai tre anni per i delitti previsti dagli artt. 314 1.co, 317, 318, 319, 319 ter, e 320, importa l?estinzione del rapporto di impiego 8fermo restando l?interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici)

Tale pena accessoria merita particolare attenzione se si tiene conto dell?attuale disciplina vigente in materia di reati contro l?amministrazione militare. Si consideri infatti che l?art. 317 bis c.p. prevede che la condanna? per i reati di peculato e concussione importi l?interdizione perpetua dai pubblici uffici, a prescindere dalla pena in concreto irrogata, sicch? non si vede quale spazio applicativo residui per la pena accessoria prevista dall?art. 32 quinquies.

Inoltre gli unici militari, per i quali ? stata introdotta? l?estinzione del rapporto d?impiego sono i reati propri del militare della GdF; sicch? non si riesce a comprendere, per un evidente aporia legislativa, per quale motivo in caso di condanna per un tempo non inferiore ai tre anni l?applicazione della pena accessoria in esame sia prevista per il peculato del finanziere(art. 3 co.2 l.1383/41) ma non per i reati di peculato militare e malversazione a danno di militare( art. 215 e 216 c.p.m.p.).

 

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Avv. Massimiliano Strampelli del Foro di Roma

Uff.le in congedo Arma Cc.


[1] Il presente saggio prende spunto dalla relazione svolta al convegno di studi ?La regolamentazione disciplinare nella prospettiva del modello professionale delle Forze Armate? organizzato dalla Societ? internationale de droit militaire et de droit de la guerre tenutosi a Roma il 21 aprile 2004

[2] La sentenza ? pubblicata su Giur. Cost., 1988,I, 4571; Foro It., 1989,I,22, con commento di G.Virga ?Revirements? della Corte Costituzionale e conseguenze della pronuncia d?incostituzionalit? della destituzione di diritto nel campo del pubblico impiego

 

[3] In tal senso cfr. Cass. Sez. I 19 novembre 1998, n. 1080 ( secondo la quale l?art. 65, co. 7 lett.a) del Regolamento di disciplina militare, approvato con d.p.r. 18 luglio 1986, n. 545, nello stabilire che possano essere puniti con la consegna di rigore i fatti previsti come reato per i quali il comandante di corpo non ritenga di richiedere il procedimento, nell?ambito delle facolt? concessegli dalla legge penale, non esclude che la richiesta di procedimento, prevista dall?art. 260 c.p.m.p., possa ugualmente essere avanzata quando, per quei fatti, sia stata inflitta la suddetta sanzione disciplinare; ci? avuto riguardo all?assenza, nel vigente ordinamento, di un principio generale di alternativit? tra l?azione disciplinare e la richiesta di procedimento penale) in CED Cass. n. 212307

[4] cfr. C.Cost., 31 luglio 2000, n.409 in Giur. Cost., 2000,2857; Cass.pen., 2001, 764; in dottrina FLAMINI, Commento all?art. 260 c.p.m.p.., in BRUNELLI-MAZZI(a cura di), Codici Penali Militari

[5] ved. FAILLA e POLIDORI Pene militari accessorie e sanzioni destitutive; la corte costituzionale interviene nuovamente in materia di automatica cessazione dal servizio personale militare, in rass. Giust. Mil., n. 3/17997, 239 , il principio ? stato successivamente riaffermato dalla Corte Costituzionale in pi? occasioni: sentenze n. 104 del 11 marzo 1991, n. 415 del 19 novembre 1991, n. 134 del 27 marzo 1992, n.297 del 1 luglio 1993, n. 363 del 30 ottobre 1996, n. 249 del 18 luglio 1997, n. 197 del 28 maggio 1999.

[6] Ved. CASERTA, i rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare .Riflessioni sulla l. 27 marzo 2001, n. 97, in Giur. It. 2002, 223 ss.

 

[7] con questo ragionamento la Consulta con sentenza n. 394/2002 ha dichiarato l?incostituzionalit? dell?art. 10 . co.1 l. 97/2001 nella parte in cui dispone l?applicabilit? della nuova disciplina degli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti nel giudizio disciplinare, ai patteggiamenti perfezionatisi anteriormente alla sua entrata in vigore.

[8] BORDIGNON : Gli effetti del giudicato penale sul procedimento disciplinare alla luce della legge27 marzo 2001:prime indicazioni, in giur Merito, 2003,3, 1229

[9] Cons.Stato, sez. IV, n. 1875/99; TAR Campania, Napoli, Sez., I, 30 gennaio 1998, n.318, in TAR., 1998, I,1074

[10] Cons. Stato, sez. III, 8 maggio 2002, n. 847

[11] Cons. Stato, sez. IV, n. 3156/2000

[12] Cass. SS.UU. n.444/2000 secondo cui solo alla sentenza di assoluzione pronunciata a seguito a dibattimento con una delle formule prescritte dall?art. 653 c.p.p. pu? essere attribuita efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare. In senso contrario si veda Cons. Stato , sez. IV, n.3156/2000;

[13] POLIDORI ,Rilevanza della sentenza di patteggiamento nel procedimento disciplinare, in Rass. Giust. Mil., n.3/1997, 249 ss.

[14] Cons. Stato, Sez. VI, 28 aprile 1998, I,689; Cons. Stato, Sez. VI, 12 dicembre 1997, n.1416;

[15] Cons. Stato Sez.VI, n.4647/2000 ; Cons. Stato, sez. IV, n. 3156/2000

[16] la sentenza ? pubblicata su Giur. Cost., 1999, 1854; Foro It., 1999, I, 3457

[17] Cons. Stato Ad. Plen.., 26 giugno 2000, n.15 in Foro It.., 2000, III, 15

[18] Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2002,n. 6669

[19] Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2001, n.2823

[20] Cons. Stato sez. IV, 13 febbraio 1995, n.81 in Foro Amm.., 1995, 326

Strampelli Massimiliano

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