1. Una premessa sull’adolescenza.
L’universo adolescenziale è stato considerato un territorio sconosciuto, complesso, di cui restano indefiniti i confini.
Molteplici sono, infatti, gli eventi e i percorsi che accadono e si intrecciano in esso.
Dunque, l’adolescenza rappresenta una difficile fase evolutiva, un periodo di crisi e vulnerabilità caratterizzato da una messa in discussione degli equilibri personali e del sistema di riferimenti e di condotte abituali.
Essa viene descritta anche come “una fase di tensione fra l’aspirazione alla indipendenza e il bisogno di dipendenza, come una fase di dubbi di scoperta di sé e di ricerca del proprio vero io e della sua affermazione” (Canestrari, Battacchi, 1970).
Spesso è estremamente difficile se non addirittura problematico instaurare un rapporto o un dialogo con un adolescente poiché emerge una sorta di rifiuto e di ribellione.
In tal senso Winnicott, citato da Nizzoli (1986), rileva che “l’adolescente, a sua volta, non vuole essere compreso, poiché si sentirebbe espropriato del senso di individualità che lo protegge dalla più totale perdita di significato personale”.
L’adolescenza si configura come una fase di crisi individuale in cui “non si è più bambini e non si è ancora adulti” (Pitch, 1982), ma implica anche una crisi sociale per la sua caratteristica di passaggio, di distacco dal mondo adulto.
In tale periodo, l’adolescente è alla continua ricerca di se stesso ed affronta il grave problema della crisi di identità; una identità fragile, instabile perché ancora in costruzione, “non più protetta dal senso di appartenenza familiare e non ancora sufficientemente supportata dall’identità sociale nascente” (Maggiolini, Riva,1999).
La formazione dell’identità personale è un lungo processo che non termina con l’adolescenza, ma dura tutta la vita; in pratica, alla fine della fase adolescenziale raggiunge una sua tappa essenziale in quanto l’individuo acquista un’immagine di sé relativamente stabile e duratura.
L’acquisizione dell’identità da parte dell’adolescente dipenderà dall’insieme della struttura sociale nella quale è inserito e dall’ambiente nel quale vive (Bandini, Gatti,1972).
La famiglia, infatti,resta l’ambiente sociale che più di ogni altro preme sulla vita dell’adolescente, nonostante egli sia impegnato nella costruzione della sua personalità; il suo compito è di far interiorizzare al giovane un certo sistema di ruoli, modelli di comportamento, che finiranno per incidere sull’acquisizione di una identità personale e di un ruolo sociale.
In questa situazione, la famiglia continua ad avere un’importanza fondamentale, anche se come quadro di lotta e disaccordo.
L’adolescente sente il bisogno di criticare e contestare i valori, i modi di vita, l’agire dei genitori, perché ciò lo agevola nella presa di distanza emotiva e di distacco identitario, permettendosi in tal modo di costruirsi un proprio spazio.
Tale esigenza, spesso non viene compresa dai genitori che, invece, arrivano ad interpretarla come una minaccia alla loro capacità genitoriale.
Gli adulti significativi sperimentano così il dolore della perdita dell’ammirazione e della fiducia incondizionata del figlio, nonché l’impari confronto con i nuovi miti dell’adolescenza da cui sono stati scalzati.
Per far sì che la loro relazione con il figlio sia positiva, essi devono mettere in atto atteggiamenti e modelli di comportamento validi ed efficaci in quanto congruenti con le norme, i valori e le strutture della cultura in cui essi vivono.
Esistono diverse situazioni in cui la famiglia si presenta frantumata, negando all’adolescente la messa in opera di alcune delle sue competenze e potenzialità.
Si parla, infatti, di “famiglia multiproblematica” quando “il sistema familiare ha gravi difficoltà di adattamento o scarse capacità di risposta alle richieste provenienti dall’esterno per un tempo prolungato” (Malagoli Togliatti, Rocchietta Tofani, 1991),provocando un notevole aumento dello stato di tensione interna e, allo stesso tempo, compromettendo gravemente le risorse relazionali ed emotive indispensabili per fronteggiare i compiti interni del sistema.
Dunque, all’interno delle famiglie multiproblematiche la discussione e lo scambio di informazioni è molto ristretto; ciò deriva dal fatto che l’esperienza della realtà da parte dei membri, tende ad essere indifferenziata, povera e superficiale; i contatti sono scarsi, poco gratificanti e, soprattutto, costruttivi; la comunicazione è sporadica e diffusa.
Si verifica, secondo alcuni studiosi, “un caos comunicativo dovuto ai numerosi interventi di più membri nella stessa discussione, che hanno l’effetto di squalificare chi parla in quel momento” (Malagoli Togliatti, Rocchietta Tofani, 1990, 90).
La situazione degli adolescenti appartenenti a famiglie multiproblematiche è sostanzialmente instabile; non a caso, spesso, gli stessi possono essere gettati fuori di casa perché provvedano autonomamente al loro mantenimento, oppure sono trattenuti in famiglia perché costituiscano con il loro lavoro una fonte di sostentamento.
In tal modo la fase adolescenziale di questi ragazzi sarà una fase difficile, in quanto dovranno affrontare da soli e in età precoce l’impatto con il mondo esterno e con la presenza contemporanea di richieste che gli provengono da diversi ambiti di vita a cui appartiene, come la scuola ed il gruppo dei pari.
Per comprendere l’adolescente, quindi,è necessario guardare al contesto sociale e culturale in cui egli si sviluppa, alle sue norme, ai suoi valori, alle caratteristiche del mondo familiare e lavorativo.
Oggi, ancor più che in passato, gli adolescenti dispongono di ampi margini di libertà per costruirsi percorsi di crescita individualizzati, per conoscere e realizzare le potenzialità di cui sono portatori, per arricchire il bagaglio delle proprie esperienze.
Nel fare ciò essi si confrontano con i cambiamenti, le aspettative, le sfide che il lungo passaggio all’età adulta comporta.
L’adolescente è, dunque, considerato come un individuo attivo “che valuta ed agisce in relazione al contesto, ai cambiamenti che sono intervenuti in lui, alle prospettive future che egli elabora” (Caprara, Fonzi, 2000, 127).
Emerge, quindi, una immagine positiva dell’adolescenza, fondata non sulla negazione delle sue difficoltà e problematiche, bensì sulla considerazione dell’adolescente come sistema ricco di potenzialità, tra cui quelle di orientarsi autonomamente nel mondo e di contribuire attivamente alle vicende del proprio sviluppo e della comunità in cui è inserito.
Per contro, gli adolescenti pur godendo nei diversi ambiti di vita di differenti gradi di inclusione e di autonomia, non riescono a raggiungere in nessuno il livello adulto di responsabilità.
Da qui nasce il loro disorientamento e la difficoltà ad immaginarsi in modo realistico la condizione adulta.
Oggi, questi ragazzi sembrano più disorientati ed “incerti” per tante situazioni: assenza di lavoro, carenza delle strutture educative, degrado degli ambienti fisici e delle relazioni, che conducono alla disparità delle opportunità,all’inaridimento delle potenzialità individuali.
Oggi – per usare le parole di Caprara e Fonzi (2000, 122)- si parla tanto di “tardoadolescenti” in cui l’età adulta, soprattutto in un paese come l’Italia caratterizzato da una forte presenza familiare, da una carenza di servizi e da una diffusa disoccupazione, diventa sempre più ritardata.
2. Gli aspetti relazionali nel gruppo adolescenziale: fattori esperenziali e comportamenti a rischio.
L’allontanamento dalle figure genitoriali provoca nell’adolescente intense sensazioni di vuoto e di smarrimento, sensazioni che egli cerca di colmare volgendo la propria attenzione verso il mondo circostante, extrafamiliare.
Far parte di un gruppo vuol dire condividere problemi di crescita e di relazione, ma soprattutto “una fantasia inconscia che ne anima la vita affettiva e fa da motore inconsapevole ai propri comportamenti, specie quelli più impulsivi ed imprevedibili” ( Maggiolini, Riva, 1999,115).
In effetti, proprio per la fragilità e debolezza della sua posizione, egli mette in atto insieme agli altri membri del gruppo dei comportamenti trasgressivi; si tratta di una trasgressività privata, all’insegna della ricerca del piacere e del divertimento, ma significa anche mettere in discussione le regole educative e sociali interiorizzate durante l’infanzia, per poterle far proprie, per modificarle o rifiutarle.
Sono infatti una caratteristica universale dell’adolescenza la ribellione e la non-conformità normativa.
Durante questo periodo, “il ribellismo è condizione fisiologica per acquisire una autonomia, in cui la sofferenza del difficile trapasso dalla condizione di dipendenza a quella di autonomia è causativa di ansie spesso insuperabili, in cui le pulsioni sono difficilmente controllabili” (Stella, 2001,17).
Il comportamento degli adolescenti oscilla spesso fra una adesione coerente alla legge ed alla autorità e trasgressioni occasionali nei confronti delle stesse.
Diciamo che le occasioni di imitazione e di apprendimento di comportamenti trasgressivi e aggressivi vengono forniti sia dalla famiglia di appartenenza, sia dai modelli culturali dominanti: “fattori di rischio più specifici sono la provenienza da famiglie multiproblematiche – con problemi socio-economici e relazionali – la residenza in un territorio a rischio, le ridotte capacità di simbolizzazione e mentalizzazione, che comportano la tendenza ad esprimere e comunicare attraverso l’azione piuttosto che il linguaggio, i propri conflitti” (Maggiolini, Riva, 1999, 29).
Appare ovvio, che non tutti i ragazzi che commettono azioni trasgressive sono dei devianti o delinquenti; è importante non confondere il fisiologico bisogno di trasgredire dell’adolescente, impegnato ad affermare la propria indipendenza dagli adulti e la “patologia” dell’azione deviante, che ne mette a rischio la crescita fisica, psicologica e sociale.
La trasgressività adolescenziale non nasce da una mancanza di cognizione della legge penale o morale, piuttosto da difficoltà di sviluppo e disagi relazionali, dall’impulsività dei desideri e dalle scarse capacità di controllo mentre, diciamo, che ciò che caratterizza i ragazzi coinvolti in comportamenti penalmente perseguibili è la carenza di freni inibitori e la maggiore distruttività.
Spesso “gli adolescenti commettono trasgressioni in gruppo, ma raramente questi gruppi hanno le caratteristiche della banda dedita abitualmente ad atti delinquenziali da cui trarre profitto” (Maggiolini, Riva, 1999, 112).
Il loro raggruppamento è un’espressione della crisi puberale e un tentativo di emancipazione dalla famiglia; solo sporadicamente, e per l’influenza di alcuni, compiono azioni antisociali.
Quindi, i gruppi normali di adolescenti si differenziano da quelli “patologici” antisociali in quanto “in questi ultimi le deficienze strutturali della personalità dei membri, ovvero i bisogni che il gruppo deve soddisfare, sono tali che ciò può avvenire solo in una forma regressiva e difensiva e non creatrice di individualità nella sperimentazione sociale” (Canestrari, Battacchi, 1970, 161).
I comportamenti antisociali messi in atto dagli adolescenti costituiscono, molto spesso, solo un incidente nella loro vicenda evolutiva; essi, pur avendo come modello la società adulta, tendono a mostrare “aggressività verso di essa, perché sentita come distante, poco disponibile e attenta, satura di valori materialistici ed economicistici, carente di riferimenti ai bisogni di relazione, partecipazione individuale e collettiva” (De Leo, 1982, 63).
Pur di sentirsi e apparire visibili, in un contesto che tende a ignorarli, molti giovani ricorrono alla violenza per ottenere in tal modo il ruolo di protagonisti sui palcoscenici della vita sociale.
Per Winnicott, l’esistenza di una tendenza antisociale è determinata da una vera deprivazione, intesa come “la perdita di qualcosa di buono che ha svolto un ruolo positivo nell’esperienza del ragazzo fino a un certo momento e che è stato poi ritirato” (Winnicott, 1986, 157).
L’atto antisociale, dunque, mira ad una riparazione dell’effetto della deprivazione mediante un rifiuto della medesima.
Nella fase adolescenziale, il comportamento antisociale non è altro che “un richiamo di attenzione verso di sé o l’espressione di un bisogno che la famiglia o l’ambiente non riesce a soddisfare” (De Leo, Dell’Antonio, 1986, 152).
Possiamo sicuramente dire che l’esperienza del rischio appartiene allo sviluppo normale di ogni adolescente; probabilmente tutto il processo dello sviluppo è a rischio, perché rappresenta un processo dall’esito incerto.
Ogni individuo necessita di moderate esperienze di rischio per sperimentare la propria soggettività e di prendere potere sulla propria vita; ma le normali esperienze di rischio che favoriscono il processo di maturazione dell’adolescente, come guidare un motorino o praticare uno sport rischioso, vanno distinte da quelle che lo bloccano, che lo portano a correre dei rischi per la propria incolumità, con conseguenze traumatiche (guida spericolata o assunzione di droghe).
Ad ogni buon conto, secondo Caprara e Fonzi (2000, 130), i comportamenti a rischio agli occhi dell’adolescente rappresentano “una risposta ai diversi problemi e ai diversi compiti di sviluppo, spesso non chiari e definiti, che nascono nell’interazione con il mondo sociale”.
3. Brevi considerazioni sulla risposta socio-educativa e istituzionale alla devianza minorile.
La devianza è un fenomeno complesso, all’interno del quale interagiscono condizioni personali, familiari e sociali; guardando forse un solo lato della medaglia, le sue cause vanno ricercate nella disgregazione familiare, nella privazione dei genitori, e ancora “ nell’inurbamento e nell’industrializzazione che provoca marginalità e ghettizzazioni, nei caratteri competitivi della società e i miti del consumismo che esercitano la loro influenza negativa nei giovani per la discordanza tra le aspirazioni personali e le possibilità di affermazione e di successo assicurate solo a un numero limitato di soggetti” (Battistacci, 1982, 212).
Di fronte a tanti bisogni insoddisfatti, nasce un profondo disagio e sofferenza, che genera fenomeni di ribellione, di rifiuto, di disimpegno.
Appare, in primo luogo, necessario stimolare sia i servizi affinché si facciano promotori di cultura, sia la comunità locale affinché i suoi componenti siano capaci di offrire un aiuto, un appoggio reale ai minori; ma soprattutto occorre “offrire al minore più stimolanti prospettive di vita, indicazioni di speranza, aiutarlo a dare un senso alla propria esistenza” (Battistacci, 1986, 153).
Ed inoltre aiutarlo a compiere le sue scelte con la maggiore consapevolezza possibile e sostenerlo nel suo processo di crescita; e la tutela dell’interesse del minore avviene attraverso una attività pedagogica rivolta a responsabilizzarlo, a renderlo capace di autostimarsi, di dare significato alla sua vita e di acquisire la consapevolezza che ha un ruolo da svolgere e che ha diritto di contare e di avere un posto nella società.
Si cercherà, quindi, di fare uscire il prima possibile il minore dal circuito penale, in quanto “qualsiasi intervento alla maniera carceraria o con aspetti meramente custodialistici e punitivi non farebbe altro che ribadire la marginalità, la sofferenza, il crollo di ogni autostima, la deresponsabilizzazione e impedirne la crescita e la ricerca di una sua autonomia responsabile” (Battistacci, 1986, 154).
Clemmer ha, in modo appropriato, introdotto il concetto di “prisonization” (carcerizzazione) intesa come “la progressiva assunzione delle abitudini, degli usi, dei costumi e della cultura propri del carcere, fino a diventare nel tempo, un “tipical man of prison community”, con una personalità distorta al punto da rendere impossibile un reinserimento sociale” (De Leo, 1982, 175).
La risposta penale, quindi, può essere considerata un ulteriore fattore di devianza, di rischio in quanto espone i ragazzi al contagio grippale e li sradica dal contesto naturale di sviluppo ostacolandone la crescita, la socializzazione e la maturazione; un fattore di etichettamento e di stigmatizzazione che comporta, una volta usciti dalla struttura carceraria, una accoglienza gelida e pesanti conseguenze dal punto di vista della mancanza di opportunità di inserimento sociale.
Quindi, “la pena e il trattamento sono da intendersi in senso esclusivamente attivo, finalizzati ad operare positive sollecitazioni nella personalità, nei comportamenti e negli atteggiamenti dei soggetti devianti” (Serra, 1981, 91).
Inoltre, “rieducare un minorenne vuol dire educarlo di nuovo secondo principi diversi, correggendo i difetti provocati da una cattiva educazione e tentando di orientare il soggetto ai valori essenziali riconosciuti dalla collettività” (Nuvolone, 1964, 360) e con la rieducazione si cercherà di “fornirgli quei sostegni nel processo evolutivo di cui è stato privato e recuperarlo principalmente a se stesso” (Moro, 1996, 379).
L’art. 1 del nuovo regolamento di esecuzione della legge penitenziaria (approvato il 16 giugno 2000) afferma che il trattamento rieducativo deve essere diretto “ a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale” : scegliendo l’espressione “processo di modificazione degli atteggiamenti” il legislatore ha inteso senza dubbio alludere alla finalità di un cambiamento interiore del reo, ovvero un cambiamento di mentalità.
Il concetto di rieducazione comprende in sé anche quello di risocializzazione, inteso come processo di reinserimento del reo nella normale vita sociale e civile, dopo quel forzato allontanamento da essa dovuto alla pena.
Infine, il Consiglio di Europa ha definito il trattamento in senso ampio come ciò che comprende le misure necessarie a mantenere o ristabilire la salute fisica e mentale dei detenuti, così come tutto quel complesso di attività destinate a incoraggiare e a promuovere il reinserimento sociale e a offrire ai detenuti i mezzi per condurre una vita responsabile nella collettività e per affrancarsi dalla criminalità (Stella, 2001, 20).
4. La prevenzione come impegno per operatori, servizi e comunità.
Il processo penale minorile, ha sicuramente operato un cambiamento non indifferente dal punto di vista degli operatori, servizi e comunità; oggi, il recupero del soggetto che impatta con il sistema penale, richiede una programmazione estremamente personalizzata d’interventi che produca un processo di recupero che veda impegnati ed interagenti vari soggetti: il minore, la famiglia, l’ambiente in cui vive, i Servizi sociali e la Magistratura (Brex, Fiorentino Busnelli, 1994, 115).
Da un punto di vista pedagogico, oggi si assiste ad un progressivo abbandono del modello di trattamento comportamentista, centrato sulla richiesta di una modificazione del comportamento sulla base di una contrattazione che tendeva a risolversi in un sistema di rinforzi positivi e negativi; in altri termini, l’idea è che un minore agisce, in modo più o meno deviante, sulla base degli schemi di significato che possiede.
Quindi, prima di pretendere che un minore smetta di giocare il solo ruolo che sa giocare, bisogna che gli sia data l’opportunità di utilizzare e far propri schemi alternativi di pensiero e azione.
Il cambiamento del comportamento segue, non precede, il processo di costruzione e ricostruzione identitaria che l’intervento educativo dovrebbe favorire.
Appare ovvio, che questa indicazione è in linea con la più ampia questione riguardante la costruzione del progetto educativo; all’interno del progetto educativo possiamo sicuramente pensare a tre elementi fondamentali: la relazione con l’educatore, la costruzione di esperienze orientate al cambiamento e i tempi e i luoghi dei servizi educativi.
La relazione con l’educatore è sicuramente il principale motore del cambiamento ed una prima componente necessaria è rappresentata dall’investimento affettivo e dalla gestione pedagogica del transfert.
La disponibilità, i segni dell’accoglimento affettivo, le funzioni di sostegno, strutturazione e contenimento svolte dall’educatore, costituiscono il fondo del terreno relazionale su cui articolare norme, regole e autorevolezza.
Perché tale relazione sia costruita come strutturante e rassicurante, la quotidianità del rapporto appare fondamentale.
Inoltre, la dimensione della progettualità è connessa alla comunicazione al minore di una positiva scommessa sulle sue capacità, abilità, competenze.
L’ipotesi di fondo è che l’orientamento al futuro, la dimensione progettuale siano fattori costitutivi dell’identità: scopi da raggiungere, progetti cui partecipare, diventano dei dispositivi per cominciare a sperimentare l’efficacia e la praticabilità di nuovi e differenti modi di pensare e agire.
La comunicazione tra minore ed educatore deve rispondere ad un modello circolare, cioè dare al minore la possibilità di partecipare alla contrattazione del proprio percorso, negoziare regole e norme, passare da un comportamento di ruolo centrato sull’autorità ad un modello di autorevolezza, accogliere, contenere e restituire in forma più organizzata emozioni e comportamenti disordinati (Poletti, 1988, pp. 3-72; Matza, 1969, pp. 139-300).
La competenza, la disponibilità e soprattutto l’attendibilità dell’educatore e la stabilità della relazione, sostengono la probabilità che egli diventi per i ragazzi un riferimento autorevole di realtà.
Il suo punto di vista, tradotto anche in norme e regole diventa quadro di riferimento, orienta, sostiene e contiene reazioni e comportamenti.
“La costruzione delle esperienze orientate al cambiamento” e dell’identità, si collocano oltre la prima formazione.
Questo processo di cambiamento è destinato a soggetti che hanno già vissuto esperienze e sedimentato vissuti.
Nel corso della propria storia, il minore ha avuto modo di consolidare alcuni schemi di significato che egli sente propri e spesso per nulla disadattivi; l’intervento rieducativi costruisce contesti ed esperienze nuovi o differenti da quelli che hanno caratterizzato l’ambiente del ragazzo o propri della sua formazione.
Entro questi contesti e attraverso di essi, il minore ha l’opportunità di sperimentare differenti figure e differenti modalità di essere percepito e trattato dagli adulti di riferimento; l’educatore sostiene il minore e lo accompagna in queste esperienze, fornendo supporti ma senza sostituirsi a lui.
La condivisione di spazi, tempi, attività e momenti della vita quotidiana ha un duplice scopo; in primo luogo, consente all’educatore di conoscere a poco a poco le categorie attraverso cui il minore interpreta e fa fronte alla sua realtà quotidiana.
Osservando come il minore interagisce e fa fronte ai compiti e alle situazioni quotidiane, l’educatore può comprendere la chiave interpretativa del suo mondo in modo più preciso che attraverso colloqui istituzionalizzati.
In secondo luogo, se l’educatore riesce ad inserirsi o a costruire un micro-ordine della vita sociale, egli ha maggiori ambiti di intervento.
E’condividendo ritmi, attività, luoghi della vita quotidiana che l’educatore può trasformare quest’ultima in un ambiente più protetto e controllato entro cui il minore può sperimentare nuovi modi di conferire ordine e di dotare di senso la realtà.
Nella progressiva ridefinizione dell’identità personale, l’esperienza del gruppo rappresenta il contesto di costruzione o rielaborazione delle competenze sociali; l’educatore può inserirsi all’interno di gruppi naturali o aggregazioni spontanee contribuendo a ridefinirne dinamiche interpersonali e valori, facendo anche in modo che il gruppo contenga, risolva e riassorba i suoi membri devianti perché non si creino le condizioni per la riedizione di meccanismi di espulsione che molti ragazzi potrebbero aver già subito in altri luoghi e in altri momenti.
Infine, i tempi dell’intervento educativo, inteso come processo di costruzione identitaria, come una opportunità di crescita che punta al cambiamento, si collocano sul medio-lungo termine.
Questa indicazione, ovviamente, si scontra con il problema delle risorse destinate ai servizi sociali; in effetti,molti progetti, sia preventivi che rieducativi, falliscono per una contrazione eccessiva dei tempi che non risponde a parametri pedagogici, ma a quelli economici.
Rosa Fiore*
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* Insegnante, Dottore in Scienze dell’Educazione, Perfezionata presso l’ Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, Napoli.
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