Le relazioni del curatore fallimentare costituiscono prova documentale

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Le relazioni e gli inventari redatti dal curatore fallimentare costituiscono sempre una prova documentale

     Indice

  1. La questione
  2. La soluzione adottata dalla Cassazione
  3. Conclusioni

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 234)

1. La questione

La Corte di Appello di Milano confermava una sentenza con cui il Tribunale di Milano aveva condannato l’imputato alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e di bancarotta fraudolenta documentale in rubrica ascrittigli, in qualità di liquidatore alla data del fallimento di una società dichiarata fallita in epoca successiva.

Orbene, avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato e, tra le doglianze ivi addotte, era proposta una censura per violazione di legge, in punto di ritenuta utilizzabilità delle dichiarazioni rese da imputato di procedimento connesso, riportate de relato dal curatore fallimentare.


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2. La soluzione adottata dalla Cassazione

La Suprema Corte procedeva alla reiezione del motivo summenzionato.

In particolare, gli Ermellini, una volta richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nell’ipotesi in cui con il ricorso per Cassazione si lamenti, come nel caso in esame, l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza“, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (cfr. Cass., Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016; Cass., Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017; Cass., Sez. 5, n. 31823 del 06/10/2020; Cass., Sez. 5, n. 31823 del 6/10/2020), evidenziavano come invece siffatto onere, a loro avviso, non risultasse essere stato adempiuto dal ricorrente che si sarebbe limitato ad affermare, in maniera apodittica, come la condanna dell’imputato fosse fondata unicamente sulle propalazioni del coimputato in un procedimento connesso le cui dichiarazioni erano state utilizzate dal curatore fallimentare per ricostruire le vicende della società fallita, senza confrontarsi con l’articolato percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente come i giudici di seconde cure avessero comunque fatto buon governo dei principi, frutto della elaborazione della giurisprudenza di legittimità, condivisa dalla Suprema Corte nella fattispecie in esame, secondo cui è utilizzabile, quale prova a carico dell’imputato, anche la testimonianza indiretta del curatore fallimentare sulle dichiarazioni accusatorie resegli da un coimputato non comparso al dibattimento e trasfuse dallo stesso curatore nella relazione redatta ai sensi dell’art. 33 I. fall., da valutare unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità, ai sensi dell’art. 192, comma terzo, c.p.p., osservandosi al riguardo che costituisce principio consolidato quello in base al quale, in tema di prova documentale, le relazioni e gli inventari redatti dal curatore fallimentare sono sicuramente ammissibili in ogni caso e non solo quando siano ricognitivi di una organizzazione aziendale e di una realtà contabile atteso che gli accertamenti documentali e le dichiarazioni ricevute dal curatore costituiscono prove rilevanti nel processo penale al fine di ricostruire le vicende amministrative della società.

Da ciò se ne faceva conseguire come, da un lato, fosse reputato corretto l’inserimento della relazione diretta al giudice delegato nel fascicolo processuale in quanto il principio di separazione delle fasi non si applica agli accertamenti aventi funzione probatoria, preesistenti rispetto all’inizio del procedimento o che appartengano comunque al contesto del fatto da accertare, dall’altro, potesse essere veicolate attraverso lo scritto del curatore i contributi di conoscenza forniti dalle persone che lo stesso ha avuto modo di ascoltare e le cui parole ha verbalizzato.

Da ultimo, era altresì rilevato che, da una parte, nondimeno, se le persone, che il curatore aveva esaminato, rivestono il ruolo di indagati o imputati nel medesimo procedimento e procedimento connesso o collegato, tali dichiarazioni vanno valutate alla luce del terzo comma dell’articolo 192 cpp, in quanto non può certo essere il “filtro” consistente nell’intervento del curatore quel che può valere a far derogare dalla predetta regola di valutazione” (cfr. Cass., Sez. 5, n. 3885 del 9.12.2014; Cass., Sez. 5, n. 20090 del 17.4.2015), dall’altra, appariva essere, sempre ad avviso del Supremo Consesso, del tutto generico il richiamo alla giurisprudenza della C.E.D.U., operato dall’imputato nel ricorso, posto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, il principio, espresso dalla Corte EDU (sentenze 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito e 27 aprile 2004, Kansa’ c. Regno Unito), secondo cui il diritto inglese viola l’art. 6 della CEDU nella parte in cui consente l’utilizzo contro il fallito delle dichiarazioni rese al curatore ed ottenute esercitando poteri obbligatori non è applicabile al diritto nazionale per la diversità dei poteri riconosciuti al curatore dalla legge fallimentare italiana e di conseguenza non preclude la possibilità di utilizzare le dichiarazioni rese dal fallito ed inserite nella relazione ex art. 33 legge fall. (cfr. Cass., Sez. 5, n. 38431 del 17.5.2019).

3. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse specialmente nella parte in cui è ivi chiarito che, secondo giurisprudenza costante, in tema di prova documentale, le relazioni e gli inventari redatti dal curatore fallimentare sono sicuramente ammissibili in ogni caso e non solo quando siano ricognitivi di una organizzazione aziendale e di una realtà contabile atteso che gli accertamenti documentali e le dichiarazioni ricevute dal curatore costituiscono prove rilevanti nel processo penale, al fine di ricostruire le vicende amministrative della società.

E’ dunque sconsigliabile, perlomeno alla stregua di questo approdo ermeneutico, intraprendere una linea difensiva che, al contrario, circoscriva la rilevanza probatoria, nei termini di prova documentale, delle relazione e degli inventari redatti dal curatore fallimentare, in punto di ammissibilità, nei soli casi in cui essi siano ricognitivi di una organizzazione aziendale e di una realtà contabile.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatta tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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