Le rinunce e le transazioni (i c.d. accordi tombali)

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Indice:

  1. Principi generali e diritti oggetto della norma
  2. Il tipo di invalidità
  3. L’ambito di applicazione soggettivo e i limiti temporali per l’impugnazione
  4. Le quietanze liberatorie, le clausole con riserva e le rinunce per comportamenti concludenti (c.d. rinunce tacite)
  5. La conciliazione in sede sindacale: approfondimenti giurisprudenziali
  6. Le sedi protette: una enunciazione residuale

1.Principi generali e diritti oggetto della norma

L’art. 2113 del codice civile, la cui rubrica reca rinunce e transazioni, è stata innovato dall’articolo 6 della legge n. 533 del 1973 introduttiva del rito del lavoro. La norma è realizzata nell’ottica di offrire al prestatore uno strumento idoneo ad impugnare quegli atti che possono essere determinati dalla posizione di soggezione/debolezza cui il prestatore è sottoposto nell’esecuzione del rapporto di lavoro. [1]

In dottrina, in ordine alla causa giuridica dell’invalidità descritta dalla norma sulle rinunce e transazioni, sono state enucleate due teorie: quella soggettiva e quella oggettiva. Secondo la prima, l’invalidità dell’atto di disposizione deriverebbe dall’incapacità giuridica nella quale si andrebbe a trovare il prestatore. In altri termini, la teoria soggettiva, nella fattispecie in esame, individua una presunzione del vizio del consenso.[2] La teoria in discorso è sostenuta dalla giurisprudenza meno recente. Di converso, secondo la teoria oggettiva, la norma in commento nascerebbe da una inconfutabile e precisa volontà del legislatore di sottrarre al lavoratore la facoltà di disporre del diritto inderogabile, non solo in funzione della tutela del suo particolare interesse, ma anche di quello della collettività. [3]

Significata questa doverosa prolusione, è bene far chiarezza sulla portata dei diritti oggetto della norma. In particolare, “l’avere ad oggetto diritti presuppone che questi debbano essere stati (almeno secondo l’assunto del lavoratore) concretamente maturati (come deve ritenersi maturato, ad es., il diritto alla retribuzione per le prestazioni di lavoro effettuate sino a un dato giorno). Eventuali pattuizioni individuali su diritti definibili, ma soltanto per chiarezza esplicativa, come futuri, insomma concernenti un rapporto ancora da iniziare o il futuro svolgimento di un rapporto in atto, sono da considerarsi, secondo la giurisprudenza (che applica, in questo, coerentemente, il principio dell’inderogabilità in pejus), radicalmente nulle, ergo al di fuori dell’ambito precettivo della norma in esame”.[4] La norma, inoltre, fa riferimento a diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili poste dalla legge e dai contratti o accordi collettivi (anche aziendali) e non, dunque, da diritti scaturenti da trattamenti migliorativi di pattuizioni individuali. [5] La dottrina, altresì, effettua un discrimine sui diritti oggetto della norma. Da un lato, passa in rivista quei diritti definiti assolutamente indisponibili, i cui atti esulerebbero dall’applicazione del disposto dell’art. 2113 del codice civile risultando, in tal guisa, completamente nulli. Gli altri diritti, di natura patrimoniale, i c.d. diritti secondari, pur derivando da norme inderogabili di legge, non sarebbero assolutamente irrinunziabili. E per quest’ultimi, orbene, che si applicherebbe il contenuto della norma di cui all’art. 2113 c.c. .

2. Il tipo di invalidità

L’art. 2113 c.c., nel complesso, non definisce il tipo di invalidità delle rinunce e transazioni. In ogni caso, è pacifico che esse siano annullabili e non nulle. [6] La giurisprudenza ritiene, inoltre, che l’annullabilità in parola sia speciale, ovvero si aggiunga – senza sostituirsi – alle cause comuni di invalidità del negozio giuridico che, dunque, possono farsi valere anche decorso il termine di sei mesi.[7]

La suprema Corte, altresì, ha rilevato che l’art. 2113 c.c., non parlando di annullamento, farebbe riferimento alla facoltà del lavoratore di inficiare o meno le rinunce e le transazioni. In altre parole, la possibilità di infirmare le rinunce e le transazioni della norma in questione, costituirebbe l’espressione del mero esercizio di un diritto potestativo del lavoratore. [8] La dottrina, infine, rileva che l’invalidità dichiarata dalla norma non corrisponderebbe ad una nullità insanabile e rilevabile d’ufficio dal giudice, ma ad una invalidità sanabile e financo evitabile se l’atto è sottoscritto in sedi particolari.[9]

3. L’ambito di applicazione soggettivo e i limiti temporali per l’impugnazione

Come accennato in introduzione, l’articolo 2113 del codice civile è stato rivisitato dall’articolo 6 della legge 11.8.1973 n. 533. Prima della promulgazione di quest’ultima, la giurisprudenza riteneva pacifico che la norma in esame trovasse applicazione per i soli lavoratori subordinati. Sennonché, l’ingresso nel nostro ordinamento del rito del lavoro ha espressamente previsto l’applicazione della disciplina in commento ai lavoratori di cui all’art. 409 co. 3 del codice di procedura civile, ovverosia: ai rapporti di lavoro d’agenzia, di rappresentanza commerciale, alle collaborazioni coordinate e continuative e al rapporto di pubblico impiego. [10]

Per quanto attiene ai rapporti d’agenzia, infine, la giurisprudenza ha asserito che esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c. gli atti inerenti alla definizione della provvigione spettante all’agente. [11]

Spostando, ora, il baricentro della disamina sul dies a quo, ovvero sul momento dal quale decorre il termine per impugnare la rinuncia o la transazione, è possibile segnalare, in virtù del secondo comma dell’art. 2113 c.c., che l’impugnazione deve essere fatta “entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro o dalla data della rinunzia o transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima”. L’impugnazione può essere fatta valere con “qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne la volontà”. È irrilevante il termine della pattuizione per l’esecuzione della pattuizione in quanto rileva la data della transazione.[12] In ragione del disposto di cui all’art. 437 del codice di procedura civile, la decadenza del lavoratore della facoltà di impugnare le rinunzie e le transazioni di cui all’art. 2113 c.c., non può essere rilevata d’ufficio dal giudice e non può essere eccepita – per la prima volta – in sede di gravame.

4. Le quietanze liberatorie, le clausole con riserva e le rinunce per comportamenti concludenti (c.d. rinunce tacite)

Le quietanze liberatorie, altrimenti dette quietanze a saldo, sono atti con i quali il prestatore di lavoro libera il datore – rinunciandovi – ad ogni eventuale futura pretesa. Esse non sono atti abdicativi o transattivi ma mere dichiarazioni di scienza; pertanto, in caso di errore, le stesse non precludono la possibilità di agire nel termine prescrizionale per la soddisfazione dei rispettivi diritti. La giurisprudenza, in linea con quanto appena esposto, afferma che si è in presenza di una rinunzia o transazione, allorché il lavoratore – titolare di diritti specifici – determinati o determinabili, abbia scientemente e deliberatamente espresso la volontà di rinunciarvi o di porre fine o di prevenire una lite, attraverso lo scambio di reciproche concessioni con la controparte.[13]

La giurisprudenza, per contro, nel caso di apposizione delle clausole di riserva agli accordi di natura transattiva, informate su criteri di genericità e di unilateralità, esclude che i predetti accordi possano spiegare alcuna forza giuridica, in quanto le suddette clausole debbono intendersi come mere clausole di stile. [14]

Infine, taluna dottrina ritiene che i comportamenti concludenti dei lavoratori atti a manifestare informalmente la propria volontà abdicativa costituiscano l’espressione delle c.d. rinunce tacite. [15]

5.La conciliazione in sede sindacale: approfondimenti giurisprudenziali

L’ultimo comma dell’articolo 2113 c.c. individua le sedi all’interno delle quali gli atti abdicativi di diritti dei lavoratori, ancorché derivanti da norme inderogabili di legge o del contratto collettivo, non sono impugnabili. Nello specifico, le sedi passate in rassegna dal precetto di fonte legale sono quella giudiziale, quella amministrativa (presso la direzione provinciale del lavoro) e quella sindacale. Il legislatore, nella fase di descrizione della norma, ha omesso di indicare – nel testo di quest’ultima – la sede di cui all’art. 420 c.p.c. . Tra le sedi dianzi trascritte, quella sindacale, per diverse ragioni, si presenta vulnerabile nei termini dell’effettiva assistenza del lavoratore. È proprio in ragione di tale assunto che la giurisprudenza ha accompagnato, all’assistenza sindacale, una serie di prescrizioni, acché gli atti addivenuti siano validi e, quindi, possano sfuggire all’impugnabilità del disciplina legale di cui all’art. 2113 del codice civile.

Innanzitutto, per la conciliazione in sede sindacale, la giurisprudenza ha enucleato due teorie: la prima prevede che la conciliazione in sede sindacale possa venire, allorquando la determinazione dell’organo sia stabilita dalla contrattazione collettiva.[16] La seconda, invece, prevede che la conciliazione possa venire anche nel silenzio del contratto collettivo o con modalità differenti da quanto indicato in quest’ultimo, purché risulti sottoscritta da entrambi le parti e dal rappresentante sindacale di fiducia del lavoratore. [17] Parte della dottrina, infine, ritiene che la conciliazione sindacale possa aver sempre luogo, giacché una preclusione in tal senso defrauderebbe il lavoratore del suo diritto di conciliare nella sede in questione. In ogni caso, la giurisprudenza ha enunciato il novero dei requisiti sostanziali, affinché il c.d. accordo tombale, stipulato nella sede sindacale, sia valido e dunque non impugnabile. A tal proposito, è necessaria l’effettiva partecipazione del lavoratore. [18] Quest’ultimo, affinché la sede sindacale possa configurarsi e quindi rilevi il disposto del comma 4 dell’articolo 2113 c.c., deve personalmente partecipare alla trattativa. Anche il rappresentante sindacale deve parteciparvi effettivamente. Ciò significa che egli deve rendere edotto il lavoratore dei suoi diritti e  questi deve essere messo nelle condizioni di essere consapevole delle proprie pretese.[19] La sede sindacale, per di più, deve essere quella delle associazioni sindacali maggiormente rappresentative e le conciliazioni devono avvenire, comunque, nel rispetto di quanto stabilito dal contratto collettivo. [20]

6. Le sedi protette: una enunciazione residuale

Volgendo al termine della lettura del tema, è necessario passare in rivista le sedi protette, all’interno delle quali è possibile addivenire alla stipula degli accordi che sono sottratti dal disposto del comma 3 dell’art. 2113 c.c. .

Dapprima dobbiamo segnalare la sede giudiziale di cui all’art. 185 c.p.c., e collegata quella di cui all’art. 420 c.p.c., nelle quali al lavoratore è concessa la garanzia della presenza del magistrato e l’assistenza del suo procuratore. Un’ulteriore sede protetta è quella di cui all’art. 410 c.p.c. dove il lavoratore, a seguito della novella legislativa del 2010, può esperire il tentativo di conciliazione innanzi alle commissioni di conciliazione istituite presso la direzione provinciale del lavoro.

Le rinunzie e le transazioni, inoltre, possono avere luogo – in ossequio a quanto previsto dall’art. 82 del dlgs. n. 276/2003 – avanti alle sedi di certificazione.

Il riferimento della norma, altresì, alle sedi ivi individuate agli articoli 412- ter e 412- quater, permette la stipula delle rinunce e delle transazioni nell’arbitrato di lavoro. Solo per inciso, pare il caso di ricordare che l’anzidetto arbitrato è di natura irrituale e, pertanto, soggetto al regime delle norme sull’invalidità di cui all’art. 808 ter c.p.c. . Esso, infine, culmina con la pronuncia di un lodo avente soltanto effetti negoziali.

 


Note:

[1] Cfr. Scognamiglio, Diritto del lavoro, Jovene editore, Napoli, 1990, pag. 436

[2] Cfr. Santoro Passarelli, L’invalidità delle rinunzie e transazioni del prestatore di lavoro, in GCCC, 1948, II; G. Giugni, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore; riesame critico, in DL, 1970

[3] Cfr. U. Prosperetti, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Milano, 1955; Riva Sanseverino, Dell’impresa in generale, in Comm. Scialoja, Branca, sub. Artt. 2060-2134, Bologna – Roma, 1977; Del Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1979; P. Fabris, L’indisponibilità dei diritti del lavoratore, Milano, 1978

[4] Così, R. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffré Francis Lefebvre, 2020, cit. pag. 366. Per la giurisprudenza di riferimento vedi C. 12561/2006; C. 13834/2001; C. 3093/1992.

[5] Cfr. F. Carresi, La transazione, in Tratt. Vassalli, Torino, 1966, ID.; Grezzi Romagnoli, Il rapporto di lavoro, Bologna, 1984, pag. 366; G. Pera, sub. Art. 2113, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, in Comm. Schlesinger, Milano, 1990.

[6] C. 20867/2006; C. 15792/2006, in Leggi d’Italia

[7] C. 17785/2002, in Leggi d’Italia

[8] C. 11616/1999, in Leggi d’Italia

[9] R. Del Punta, op. cit.

[10] C. 2734/2004; C. 9636/2003; C. 1107/2002; C. St. 19.9.1991, n. 1150 in Leggi d’Italia

[11] Cfr. C. 9636/2004

[12] C. 2483/1980, in Leggi d’Italia

[13] C. 11536/2006; C. 11627/2004; C. 10172/2004; C. 10193/2002; C. 12374/1997, in leggi d’Italia.

[14] C. 11248/1997, in Leggi d’Italia

[15] Cfr. Maresca, La prescrizione dei crediti di lavoro, Milano, 1983

[16] C.12858/2003

[17] C. 3237/2011

[18] Pretura di Verona 2/11/1983

[19] C. 16154/2021; C. 12858/2003

[20] V. Trib. Di Roma, sez. lav., 8 maggio 2019 n. 4354 (est. Cacace); vedi anche la nota di chiarimento dell’ispettorato Nazionale del lavoro del 17 maggio 2018 n. 163

Dott. Domenico Giardino

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