- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
- Conclusioni
1. Il fatto
Il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Genova applicava ad un imputato, per il reato di cui agli artt. 81 e 495 cod. pen., la pena di mesi tre e giorni dieci di reclusione, in continuazione con quelle già inflittegli in due precedenti occasioni, rideterminando per l’effetto la pena complessiva in anni uno, mesi nove, giorni dieci di reclusione.
In particolare, il giudice di merito aveva contestualmente concesso la sospensione condizionale della pena, subordinandola alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per quattrocento giorni e complessive sei ore settimanali, da svolgere presso un Comune, ai sensi della Convenzione in essere con il Tribunale di Genova.
Ciò posto, dalla motivazione della sentenza risultava tra l’altro come il difensore dell’imputato, munito di procura speciale, avesse subordinato la richiesta di applicazione della pena alla concessione della sua sospensione condizionale ma, avendo l’imputato già in precedenza usufruito del beneficio, il giudice, ai sensi dell’art. 165, comma secondo, cod. proc. pen., aveva per l’appunto condizionato la sua concessione alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività, unico obbligo ritenuto idoneo nel caso di specie in ragione della natura del reato, considerando implicita nella richiesta di patteggiamento subordinata alla concessione della sospensione condizionale la non opposizione dell’imputato all’applicazione di tale condizione.
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduceva i seguenti motivi: 1) erronea applicazione della legge penale e violazione di legge, rilevandosi un vizio attinente all’espressione della volontà dell’imputato ed eccependo il difetto di correlazione tra la richiesta di patteggiamento e la sentenza; in tal senso ci si doleva circo il difetto della necessaria espressa manifestazione di assenso da parte dell’imputato alla prestazione di attività non retribuita, nonché l’estraneità, all’accordo stipulato dalle parti, della condizione apposta dal giudice alla concessione della sospensione condizionale; 2) erronea applicazione della legge penale e la conseguente illegalità della pena applicata, rilevandosi a tal proposito come il giudice avrebbe determinato la durata dell’attività non retribuita da prestare in favore della collettività in misura superiore al duplice limite massimo edittale stabilito dal combinato disposto degli artt. 165, primo comma, cod. pen., 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. e 54 d.lgs. n. 274 del 2000 in sei mesi o, se inferiore, in misura pari alla durata della pena sospesa.
3. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
La Quinta Sezione penale, cui il ricorso era stato originariamente assegnato, lo rimetteva alle Sezioni Unite penali ravvisando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità su entrambe le questioni sollevate dal ricorrente.
Ciò posto, l’ordinanza di rimessione preliminarmente dava atto come la decisione impugnata si fosse radicata sulla disciplina di cui all’art. 165, primo e secondo comma, cod. pen., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 11 giugno 2004, n. 145, la quale, da un lato ha introdotto, tra gli obblighi a cui la sospensione condizionale della pena può essere subordinata, la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività «se il condannato non si oppone», e dall’altro, eliminando dal secondo comma dell’art. 165 cod. pen. l’inciso «salvo che ciò sia impossibile», ha reso obbligatoria la subordinazione della seconda sospensione condizionale della pena a uno degli obblighi previsti dal primo comma.
Il Collegio rimettente, quindi, risolveva positivamente la questione dell’ammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., rilevando che era stato denunciato un «difetto di correlazione tra richiesta e sentenza» o, comunque, l’illegalità della pena, che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, comprende tutto ciò che attiene al trattamento punitivo e, quindi, anche la sospensione condizionale.
Detto questo, era oltre tutto rilevato come nella giurisprudenza di legittimità si registrassero soluzioni contrastanti sia in ordine alla questione della necessità o meno di un’espressa manifestazione di volontà da parte dell’imputato al fine di subordinare la sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività, sia riguardo alla questione dell’applicabilità a tale prestazione del limite massimo di sei mesi previsto dall’ordinamento del giudice di pace per la durata della pena del lavoro di pubblica utilità.
Nel dettaglio, riguardo alla prima questione, i giudici rimettenti segnalavano come il contrasto nella giurisprudenza di legittimità si ponesse anche al di fuori del rito speciale di applicazione della pena su richiesta delle parti e, in tal senso, si dava atto come, nella giurisprudenza della Cassazione, si registri un contrasto sui caratteri che deve assumere la “non opposizione” nel senso che una tesi ritiene implicito, nella proposizione della richiesta di sospensione condizionale da parte di chi ne abbia già usufruito, il consenso alla subordinazione del beneficio all’adempimento di uno degli obblighi di cui all’art. 165 cod. pen., trattandosi di prescrizione che il giudice deve necessariamente disporre, ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, per concederlo mentre, secondo un diverso indirizzo, invece, la “non opposizione” alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività deve essere manifestata espressamente e personalmente dall’imputato, anche quando la sospensione condizionale sia concessa a persona che ne abbia già usufruito.
Il Collegio rimettente rilevava altresì come il primo dei due indirizzi abbia ricevuto l’autorevole avallo della Corte costituzionale la quale, con l’ordinanza n. 229 del 2020, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 165, secondo comma, cod. pen. nella parte in cui subordina la possibilità di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena a chi ne abbia già goduto alla condizione che egli necessariamente risarcisca il danno o provveda alle restituzioni, senza assegnare alcuna rilevanza al caso in cui ciò non sia possibile.
Chiarito ciò, riguardo alle implicazioni che il contrasto in esame assumeva quando la questione era posta nell’alveo peculiare del rito di cui all’art. 444 cod. proc. pen., l’ordinanza di rimessione rilevava a tal riguardo che, in tale ambito, oltre al tema della non opposizione, veniva in gioco quello del potere del giudice di imporre d’ufficio una condizione estranea all’accordo delle parti.
Orbene, secondo i giudici rimettenti, anche su tale punto si registrava un contrasto interpretativo posto che, alla stregua di un primo orientamento, la richiesta di patteggiamento, presentata da un imputato che in passato ha già usufruito del beneficio, implica di per sé la sua “non opposizione” alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, trattandosi di condizione a cui deve necessariamente essere subordinata la nuova sospensione condizionale della pena mentre, ad esso, se ne contrappone un altro secondo il quale il giudice, ratificando l’accordo intervenuto tra le parti, non può alterare il contenuto dell’accordo stipulato dalle parti e condizionare la sospensione, nemmeno qualora ricorra l’ipotesi disciplinata dal secondo comma dell’art. 165 cod. pen..
Oltre a ciò, la Sezione rimettente segnalava d’altronde come sulla questione, prima della riforma del 2004 che ha reso obbligatoria la subordinazione della sospensione condizionale della pena in caso di seconda concessione del beneficio, fossero intervenute le Sezioni Unite (Sez. U, n. 10 del 11/05/1993) le quali avevano escluso che, in caso di richiesta di applicazione della pena, il giudice potesse subordinare la sospensione condizionale della pena all’adempimento di un obbligo in quanto non gli è consentito alterare i termini del patto intervenuto tra le parti ed inoltre in quanto trattasi di determinazione non necessitata, bensì prevista dalla legge quale esercizio di un potere facoltativo del giudice.
Così, nella giurisprudenza successiva alla novella del 2004, l’orientamento, favorevole a riconoscere al giudice del patteggiamento il potere di condizionare la sospensione nell’ipotesi di reiterazione del beneficio, ha valorizzato il fatto che, in tal caso, si tratta di adempiere ad un obbligo previsto dalla legge, laddove il contrapposto orientamento fa, invece, perno sulla circostanza che la statuizione, pur essendo obbligatoria, non ha un contenuto prefissato, che può essere più o meno afflittiva ed è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice, suscettibile di estrinsecarsi, nel caso del lavoro di pubblica utilità, anche nella determinazione della durata della prestazione.
Terminata la disamina sulla prima questione, quanto alla seconda questione, relativa alla durata massima della prestazione di attività non retribuita a cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena, i giudici rimettenti davano atto dell’esistenza di due indirizzi interpretativi. Un primo orientamento reputa pienamente operante la disciplina dettata per il lavoro di pubblica utilità dettata dall’art. 54, commi 2 e 3, d.lgs. n. 274 del 2000, stante il richiamo di tali disposizioni ad opera dell’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen., ritenendo, conseguentemente, che la prestazione in esame sia soggetta a due limiti massimi cumulativi: quello di sei mesi previsto dall’ordinamento del giudice di pace (pari a centocinquantasei ore, cioè sei ore settimanali per ventisei settimane) o, se inferiore, quello della durata della pena sospesa, previsto dall’art. 165, primo comma, cod. pen..
Secondo un contrapposto orientamento, invece, la durata della prestazione di attività non retribuita a cui può essere subordinata la sospensione condizionale della pena troverebbe la sua disciplina unicamente nella disposizione di cui al primo comma dell’art. 165 cod. pen., poiché l’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. richiama la disciplina di cui al d.lgs n. 274 del 2000 solo in quanto compatibile, e quindi non per gli aspetti compiutamente disciplinati direttamente dal codice penale.
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4. Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
Prima di entrare nel merito delle questioni, le Sezioni Unite procedevano a delimitarle nei seguenti termini: a) «Se, nell’applicare la pena su richiesta delle parti, il giudice possa subordinare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena ad uno degli obblighi previsti dall’art. 165, comma primo, cod. pen. e, in particolare, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività pur in mancanza di esplicito consenso dell’imputato»; b) «Se il computo della durata della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività debba essere effettuato con riferimento solo al criterio dettato dall’art. 165, comma primo, cod. pen., di non superamento della durata della pena sospesa, ovvero anche con riferimento al criterio, di cui al combinato disposto degli artt. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen, e 54, comma 2, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, della durata massima di sei mesi».
Premesso ciò, gli Ermellini notavano che, come rilevato dai giudici rimettenti, in merito alla prima questione, si registrava effettivamente nella giurisprudenza di legittimità un contrasto in merito alla latitudine del potere del giudice che procede ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena concordata dalle parti alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività nel caso in cui l’imputato abbia già usufruito in precedenza del beneficio.
Secondo un primo orientamento, decisamente maggioritario nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tale caso la richiesta di concessione del beneficio avanzata nel rito speciale dall’imputato implica il consenso alla subordinazione del beneficio all’adempimento di uno degli obblighi previsti dall’art. 165, comma primo, cod. pen., trattandosi di prescrizione che il giudice deve obbligatoriamente disporre a norma del secondo comma del medesimo articolo (Sez. 3, n. 7604 del 22/10/2019; Sez. 5, n. 49481 del 13/11/2019; Sez. 5, n. 11269 del 16/1/2019; Sez. 5, n. 51755 del 17/10/2018; Sez. 6, n. 19882 del 24/4/ 2018) e, in tal senso si è ulteriormente argomentato come l’imputato, chiedendo la sospensione della pena, «di fatto» esprima la propria non opposizione all’applicazione dell’art. 165, comma secondo, cod. pen., il quale sottrae qualsiasi margine di discrezionalità al giudice nel subordinare il beneficio, se l’imputato stesso ne abbia già usufruito in precedente occasione (Sez. 6, n. 13984 del 4/3/2014).
In alcune pronunzie, inoltre, si è avuto anche cura di ribadire, in continuità con quanto affermato da Sez. U, nella decisione n. 10 del 11/05/1993, che, in linea generale, al giudice al quale sia sottoposta una richiesta concordata di applicazione della pena, subordinata alla sospensione condizionale della stessa, non sia consentito alterare il relativo accordo fra le parti con l’imposizione di una condizione per la fruizione del beneficio che risulterebbe estranea al “patto” siglato dalle parti.
Tuttavia si è al contempo precisato che la validità del principio è limitata all’ipotesi in cui la previsione di obblighi condizionanti l’applicazione del beneficio sia stabilita dalla legge in via facoltativa e non quale obbligo, come, invece e per l’appunto, previsto dal secondo comma dell’art. 165 cod. pen. nel caso in cui l’imputato ne abbia già usufruito (Sez. 3, n. 4426 del 24/10/2019; Sez. 6, n. 11383 del 29/01/2018) fermo restando che la deroga al principio generale dell’intangibilità dell’accordo è stata altresì giustificata evidenziando come il carattere cogente della disposizione da ultima citata sia invero compatibile con lo stesso, in quanto proprio la dimensione obbligatoria dell’istituto configura l’imposizione come una conseguenza necessaria della richiesta di rinnovazione del beneficio e, pertanto, inclusa nell’orizzonte di adesione dell’imputato che proponga un accordo comprendente tale rinnovazione (Sez. 5, n. 13534 del 24/1/2017; nello stesso senso Sez. 3, n. 4426 del 24/10/2019, dep. 2020, per la quale in tal caso la richiesta di patteggiamento deve considerarsi «integrata ex lege»).
Oltre a ciò, era infine evidenziato che, nell’ambito dell’orientamento in esame, non si registra, invece, unanimità di vedute sulla facoltà delle parti di estendere il negozio processuale anche alle prescrizioni cui dovrebbe essere subordinata la concessione della sospensione condizionale nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 165 cod. pen., essendo stata detta facoltà espressamente esclusa in alcune occasioni in ragione della natura cogente della disposizione citata (Sez. 5, n. 11269 del 16/1/2019, omissis, cit.; Sez. 6, n. 19882 del 24/4/2018) e che, invece, di fatto è stata riconosciuta in un caso in cui la Corte ha negato la configurabilità del consenso implicito alle altre condotte riparatorie, laddove l’imputato aveva specificamente prestato il consenso alla subordinazione del beneficio al risarcimento del danno (Sez. 3, n. 7604 del 22/10/2019).
Ciò posto, come accennato, però, nella giurisprudenza della Corte di legittimità, si è manifestato anche un orientamento di segno diametralmente opposto secondo il quale deve, invece, ritenersi preclusa al giudice del patteggiamento la possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena all’adempimento di uno degli obblighi previsti dall’art. 165, primo comma, cod. pen., qualora questo non abbia costituito oggetto dell’accordo tra le parti, anche quando trattasi di prescrizione che il giudice deve necessariamente disporre a norma del secondo comma del medesimo articolo (Sez. 3, n. 25349 del 10/04/2019; Sez. 6, n. 44775 del 20/10/2015; Sez. 2, n. 38783 del 26/10/2006).
In particolare, la Sez. 3, con la pronuncia n. 25349 del 2019, prende le mosse dai principi affermati dalle già menzionate Sezioni Unite n. 10/1993, ma si discosta dall’orientamento precedentemente esaminato, ritenendoli applicabili anche nei casi in cui la sospensione condizionale della pena debba necessariamente essere subordinata dal giudice all’adempimento di uno degli obblighi previsti dalla legge, avendo l’imputato già usufruito del beneficio evidenziando; in proposito è ivi evidenziato come, pur vertendosi in ipotesi di statuizione obbligatoria, essa non abbia un contenuto prefissato in quanto la scelta della specifica misura da applicare e la determinazione delle relative modalità è in definitiva rimessa dal secondo comma dell’art. 165 cod. pen. all’apprezzamento discrezionale del giudice.
Si sostiene, quindi, che non è configurabile un consenso implicito alla subordinazione della sospensione condizionale della pena all’adempimento a uno degli obblighi di legge, neppure allorquando tale subordinazione sia imposta dalla legge, atteso che il contenuto discrezionale della condizione apposta alla concessione del beneficio deve formare oggetto in maniera esplicita del consenso e dell’accordo.
Conseguentemente, nel caso in cui la richiesta di patteggiamento proveniente da un imputato che abbia già usufruito del beneficio abbia avuto ad oggetto soltanto la richiesta (incondizionata) di sospensione condizionale della pena, il giudice, non potendo alterare l’accordo intervenuto tra imputato e pubblico ministero, deve respingere la richiesta di patteggiamento per violazione dell’art. 165, secondo comma, cod. pen..
Precisato ciò, era oltre tutto notato che, sostanzialmente riconducibili all’orientamento in esame, sono anche quelle pronunzie le quali hanno escluso che il giudice del patteggiamento possa discrezionalmente determinare la durata dell’attività non retribuita in favore della collettività a cui le parti abbiano subordinato la richiesta concessione della sospensione condizionale della pena (Sez. 2, n. 27633 del 14/05/2021; Sez. 4, n. 17651 del 11/03/2008) fermo restando che tale principio è affermato sulla premessa che la richiesta di patteggiamento può essere subordinata alla sospensione della pena, a sua volta condizionata ad uno degli adempimenti previsti dall’art. 165 cod. pen. (così, esplicitamente, Sez. 4, n. 17651 del 2008) e che, quindi, tanto la sospensione condizionale della pena, quanto gli obblighi a cui subordinarla, possano formare oggetto dell’accordo tra le parti, rilevandosi al contempo che, al riguardo, la Sez. 2, nella decisione n. 27633 del 2021, ha poi evidenziato come – a differenza di quanto avviene nel rito ordinario, ove, a fronte della richiesta del beneficio da parte dell’interessato, è rimessa al giudice la relativa valutazione “in tutte le sue componenti“, ivi compresa la determinazione della durata della prestazione, in presenza della “non opposizione” del condannato – nel rito ex art. 444 e ss. cod. proc. pen. «il giudice non ha alcun potere discrezionale sulla entità e natura della pena da applicare, dovendosi limitare a ratificare l’accordo tra le parti» e, dunque, proprio per la natura di tale ruolo del giudice, è qualificabile come errore materiale emendabile l’omessa indicazione nel dispositivo della statuizione, richiesta dalle parti, di sospensione dell’esecuzione della pena applicata su richiesta delle parti.
Conseguentemente «in caso di richiesta di applicazione concordata della pena subordinata alla sua sospensione condizionale, le parti possono ulteriormente subordinare la concessione del beneficio [….] alla prestazione da parte dell’imputato di attività non retribuita in favore della collettività, purché
specifichino il termine di durata della prestazione» dovendo il giudice, in mancanza di tale specificazione, rigettare l’istanza di applicazione della pena, in quanto rientra nei poteri dello stesso la determinazione di tale durata, ma non quello di modificare l’accordo tra le parti, integrandolo con la determinazione di tale durata fermo restando che, in senso conforme, si è pronunziata anche la Sez. 4, nella pronuncia n. 17651 del 2008, la quale ha altresì specificato che tale conclusione è coerente con la considerazione per cui un consapevole ed effettivo consenso dell’imputato richiede la previa conoscenza delle modalità dell’obbligo lavorativo, naturalmente anche in termini di durata delle stesse.
Orbene, per le Sezioni Unite, il contrasto descritto doveva essere ricomposto aderendo al secondo degli orientamenti esaminati.
Si evidenziava a tal proposito che la questione controversa riguarda la definizione delle condizioni di operatività, nel rito patteggiato, del disposto dell’art. 165, comma secondo, cod. pen., per il quale la sospensione condizionale della pena, qualora sia concessa a persona che ne abbia già usufruito, deve essere subordinata all’adempimento di uno degli obblighi previsti nel primo comma dello stesso articolo, ossia a quelli della restituzione, del pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno ovvero di provvisionale, della pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno, dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, infine, della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, rilevandosi al contempo che la formulazione vigente delle due disposizioni è frutto delle modifiche apportate dall’art. 2 comma 1, lett. a) e b), legge 11 giugno 2004, n. 145 posto che il testo originario del primo comma dell’art. 165 cod. pen. non contemplava, tra gli adempimenti, cui facoltativamente il giudice poteva subordinare la concessione della sospensione condizionale, anche la prestazione dell’attività non retribuita, mentre il comma successivo rendeva obbligatoria la subordinazione nell’eventualità di una ulteriore concessione del beneficio, a meno che assolvere le condizioni elencate nello stesso primo comma non si rivelasse impossibile.
La legge citata ha, dunque, per la Corte di legittimità, integrato l’elenco degli adempimenti previsto dal primo comma, aggiungendovi la possibilità per il giudice di ordinare l’esecuzione di attività non retribuita in favore della collettività, ma solo se l’imputato non vi si opponga e, quindi, conseguentemente, il legislatore ha eliminato l’inciso finale del secondo comma, posto che quantomeno la prestazione dell’attività non retribuita deve ritenersi sempre possibile, atteso che la sua esecuzione dipende esclusivamente dalla volontà dell’imputato di non opporvisi.
In definitiva, per i giudici di piazza Cavour, alla luce delle modifiche apportate dalla novella, qualora intenda reiterare la concessione del beneficio, il giudice deve sempre subordinare la sospensione della pena quantomeno alla prestazione dell’attività non retribuita e, se l’imputato vi si opponga, deve astenersi dall’accordarlo.
Precisato ciò, era altresì osservato come l’indirizzo maggioritario fondi il principio che si intende disattendere proprio sul rinnovato carattere cogente della previsione di cui al secondo comma dell’art. 165, sottolineando come il giudice non possa sottrarvisi nemmeno in caso di patteggiamento giacchè, anche in questo caso, egli deve subordinare la concessione della sospensione della pena ad uno degli adempimenti indicati nel primo comma del medesimo articolo e desumere, in particolare, la non opposizione dell’imputato alla prestazione dell’attività non retribuita dalla stessa richiesta di riconoscimento del beneficio.
In altri termini, secondo questa impostazione, la norma sostanziale rappresenta il fulcro esclusivo attorno al quale è necessario ricostruire la soluzione della questione controversa che rimarrebbe dunque di fatto indifferente al rito con il quale si procede ed è proprio questo approccio, per il Supremo Consesso, a non risultare condivisibile e a rendere preferibile l’indirizzo minoritario, le cui conclusioni costituiscono invece il precipitato di una elaborazione sviluppata in funzione della struttura del rito speciale, senza per questo pretermette o stravolgere il significato dei primi due commi dell’art. 165 cod. pen. visto che il profilo effettivamente problematico, non è quello di stabilire i confini esegetici di tali disposizioni, bensì la tenuta dell’assunto per cui, chiedendo di patteggiare una pena sospesa, l’imputato implicitamente acconsentirebbe alla subordinazione della concessione del beneficio ad una delle prescrizioni imposte dal citato art. 165 cod. pen. ed è, dunque, il contenuto della legge processuale e non già di quella sostanziale ad essere in discussione ed è pertanto dall’assetto del rito speciale che è necessario, sempre ad avviso della Suprema Corte, prendere le mosse.
Detto questo, era altresì notato come nella giurisprudenza di legittimità si sia rapidamente consolidato il principio per cui la richiesta di applicazione della pena e l’adesione prestata dall’altra parte concretano un negozio bilaterale di natura processuale che si perfeziona con la ratifica del giudice (ex multis Sez. 3, n. 10286 del 13/02/2013; Sez. 4, n. 16832 del 11/04/2008; Sez. 3, n. 18735 del 27/03/2001; Sez. 1, n. 1468 del 30/03/1994) fermo restando che esso è stato implicitamente ribadito a livello normativo anche dalla recente riconfigurazione della disciplina dell’impugnazione della sentenza di patteggiamento introdotta nel comma 2-bis dell’artt. 448 cod. proc. pen. ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103.
Più complessa appare, invece, per la Corte di legittimità, l’attività di ricostruzione dei limiti del potere dispositivo delle parti e di quello del giudice cui è affidata la ratifica dell’accordo.
In tal senso è stata invero la Corte costituzionale, nell’immediatezza dell’entrata in vigore del codice, a correggere anzitutto la più stridente aporia del testo originario dell’art. 444, comma 2, cod. proc. pen., dichiarandone l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non consentiva al giudice di valutare
la congruità della pena indicata dalle parti e, conseguentemente, di rigettare la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione (Corte cost., sent. n. 313 del 1990).
Una volta chiarito che quella del giudice del patteggiamento non è una funzione meramente “notarile“, ma, al contrario, assume effettiva natura giurisdizionale (anche quando lo stesso procede alla mera verifica dei profili di legittimità della richiesta e del suo contenuto), è stata ancora la Consulta ad evidenziare l’inscindibile legame esistente tra la componente negoziale del rito e lo spazio cognitivo del giudice, evidenziando che questi rimane vincolato al contenuto dell’accordo sul merito dell’imputazione e della commisurazione della pena concluso dalle parti, nel senso che gli è consentito soltanto di accoglierlo nei termini proposti ovvero di rigettarlo e procedere oltre (Corte cost., n. 66 del 1990; Corte cost., sent. n. 251 del 1991; Corte cost., sent. n. 155 del 1996 e, da ultima, Corte cost., sent. n. 394 del 2002).
Ebbene, proprio sulla scorta del quadro generale dei rapporti tra accordo negoziale e controllo giudiziale disegnato dalla giurisprudenza costituzionale, le Sezioni Unite hanno successivamente definito i poteri del giudice del patteggiamento in ordine alla concessione della sospensione condizionale della pena.
In tal senso le Sez. U, nella pronuncia n. 5882 del 11/05/1993, nel risolvere il contrasto in ordine al potere del giudice di disporre, con la sentenza resa a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., la sospensione condizionale della pena anche quando la concessione del beneficio non abbia formato oggetto della pattuizione, hanno escluso che egli possa, di sua iniziativa, concedere il beneficio, ritenendo tale decisione preclusa, per l’appunto, dal vincolo negativo costituito dai termini dell’accordo intervenuto tra le parti.
Nell’occasione la sentenza n. 5882/1993 ha, però, riconosciuto la possibilità di applicare il beneficio, se vi è il consenso di entrambe le parti, anche qualora l’imputato non abbia subordinato, ai sensi dell’art. 444, comma 3, cod. proc. pen., la richiesta alla sua concessione e, in proposito, la pronunzia in esame ha sottolineato che anche in tale ipotesi la statuizione del giudice trova il suo fondamento primario nella concorde volontà delle parti e che dal contenuto letterale della norma citata si evince come la subordinazione dell’efficacia della richiesta costituisca soltanto uno dei modi attraverso i quali può estrinsecarsi l’accordo sul punto, concludendo che, qualora il giudice ritenga di non poter accogliere la domanda di sospensione, non è tenuto a rigettare il patteggiamento, ma soltanto ad esplicitare in sentenza i motivi della sua decisione.
La giurisprudenza successiva, dal canto suo, ha continuato, anche di recente, a ribadire questi principi, escludendo che il giudice possa concedere d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena, cui le parti non abbiano subordinato la richiesta di applicazione della pena concordata o, comunque, non abbiano concordemente consentito (Sez. 2, n. 42973 del 13/06/2019; Sez. 2, n. 21071 del 15/04/2016; Sez. 3, n. 31633 del 07/04/2015; Sez. 4, n. 40950 del 21/10/2008; Sez. 1, n. 9228 del 14/02/2008; Sez. 4, n. 21508 del 28/02/2007; Sez. 3, n. 40232 del 14/07/2004).
Successivamente le Sez. U, nella decisione n. 10 del 1993, ha, invece, escluso che nel rito speciale il giudice possa, alterando il contenuto dell’accordo intervenuto tra le parti, subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena all’adempimento di un obbligo, alla cui imposizione la legge lo autorizzi.
Dopo aver ribadito il dictum delle Sezioni Unite n. 5882/1993, la pronunzia in esame ha ritenuto illegittima la subordinazione da parte del giudice della sospensione condizionale alla demolizione di un manufatto abusivo, perché così operando era stato aggiunto «un quid non previsto» ai termini della pattuizione inter partes, alterandola «sulla base di una autonoma determinazione del giudice, non necessitata, dato che l’articolo 165 del codice penale gli riconosce un potere di subordinazione ma non stabilisce un obbligo».
La sentenza n. 10/1993, dal canto suo, ha altresì precisato che il giudice del patteggiamento può ordinare la demolizione, trattandosi di sanzione amministrativa obbligatoria, ma non, per l’appunto, anche subordinare d’ufficio alla stessa la sospensione condizionale della pena, avendo, così, introdotto la distinzione tra determinazioni previste dalla legge «quale conseguenza di una decisione giurisdizionale senza lasciare al giudice facoltà di diversamente deliberare», che devono essere adottate con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, anche se non comprese nei termini dell’accordo, «essendo implicito che le parti ne abbiano fatto oggetto di previsione, proprio per l’ineludibilità della conseguenza», e determinazioni considerate dalla legge «quale esercizio di una facoltà del giudice».
Queste ultime, se non previste dall’accordo (e a maggior ragione se escluse), non possono essere adottate dal giudice, al quale «non rimane altra opzione tra quelle di aderire al patto ovvero, nell’ipotesi contraria, respingere il patto per procedere al giudizio ordinario, all’esito del quale sarà adottata decisione coerente allo schema previsto dalla legge, lasciando spazio alle parti per l’esercizio della facoltà di impugnazione anche nel merito, non prevista per il caso di definizione concordata» fermo restando che questa affermazione ha introiettato e sviluppato i principi già abbozzati da Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992, e Sez. U, n. 4901 del 27/03/1992.
Quest’ultima pronunzia, in particolare, in motivazione, ha sottolineato come l’art. 444 cod. proc. pen. costituisca la base legale del patteggiamento e come, pertanto, sia quest’ultimo a definire, al contempo, il contenuto dell’accordo delle parti ed il confine del suo carattere vincolante per il giudice.
La giurisprudenza di legittimità, pur a seguito del mutamento del quadro normativo di riferimento, non si è più discostata da questi approdi, quantomeno con riguardo all’ipotesi di subordinazione facoltativa della sospensione condizionale agli obblighi previsti dal primo comma dell’art. 165 cod. pen. (Sez. 3, n. 16624 del 06/03/2020; Sez. 3, n. 57593 del 25/10/2018; Sez. 4, n. 31441 del 09/07/2013; Sez. 6, n. 13905 del 11/03/2010; Sez. 3, n. 19788 del 28/02/2003) considerato che, nel caso della reiterazione del beneficio, è invece insorto il conflitto interpretativo di cui si tratta.
Peraltro, come già ricordato, anche le pronunzie di entrambi gli orientamenti in contrasto hanno evocato la sentenza n. 10/1993, concordando sull’immutata validità dei principi affermati dalla medesima e dividendosi soltanto sull’estensione del loro ambito applicativo.
Le sentenze n. 5882/1993 e n. 10/1993, del resto, unitamente considerate, hanno costituito la base della successiva elaborazione del rapporto tra il contenuto negoziale dell’accordo ed i poteri del giudice svolta dalle Sezioni Unite.
Quello sulla portata costitutiva dell’accordo, invero, ha rappresentato il canone esegetico di riferimento sul quale il Supremo Collegio ha fondato la soluzione delle più diverse questioni insorte nell’applicazione del rito speciale, da quelle relative alla natura della sentenza di patteggiamento ed al regime della sua impugnabilità, a quella concernente il contenuto degli oneri motivazionali del giudice sulla ricorrenza dei presupposti per il proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (tra le altre, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010; Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005; Sez. U, n. 18 del 21/06/2000; Sez. U, n. 3 del 25/11/1998; Sez. U, n. 5 del 28/05/1997; Sez. U, n. 3600 del 26/02/1997; Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995).
Parimenti, il principio, per cui l’orizzonte decisionale del giudice è condizionato solo da un accordo vincolato alla tipicità dei suoi contenuti, per come legislativamente predefiniti, ha costituito il comune terreno di coltura di quelle pronunzie che hanno concorso a definire l’ambito delle statuizioni che lo stesso giudice può autonomamente adottare, in quanto sottratte al potere dispositivo delle parti e, in tal senso, Sez. U, n. 21369 del 26/09/2019, Sez. U, n. 20 del 21/06/2000, e Sez. U, n. 8488 del 27/05/1998, hanno ribadito che con la sentenza di patteggiamento devono essere sempre applicate le sanzioni amministrative accessorie che ne conseguono di diritto, mentre Sez. U, nella pronuncia n. 20 del 27/10/1999, ha precisato come, con la stessa sentenza, il giudice sia tenuto a dichiarare, ai sensi del comma 1 dell’art. 537 cod. proc. pen., l’accertata falsità di atti o di documenti.
Ciò posto, a questo punto della disamina, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come, a sua volta, lo scenario normativo, entro il quale l’illustrata elaborazione interpretativa si era sviluppata, non fosse rimasto immutato, atteso che il legislatore era ripetutamente intervenuto nel corso degli anni sullo statuto del rito speciale.
Ebbene, le Sezioni Unite ripercorrevano questi interventi legislativi nei seguenti termini: “Così la legge 16 dicembre 1999, n. 479, recependo il dictum della già citata sentenza n. 313 del 1990 della Corte costituzionale, ha introdotto la previsione espressa del giudizio di congruità della pena, mentre la legge 27 marzo 2001, n. 97, ha stabilito l’efficacia della sentenza di patteggiamento nel giudizio disciplinare. Ben più rilevante è stato l’intervento effettuato con la legge 12 giugno 2003, n. 134, che, oltre ad introdurre la revisione della sentenza di applicazione della pena e la possibilità di disporre con la stessa anche la confisca facoltativa, ha esteso la possibilità di accedere al rito anche per patteggiare una pena detentiva fino a cinque anni, confinando però l’operatività delle misure premiali complementari previste dall’art. 445, primo comma, cod. proc. pen., al caso in cui la pena concordata sia contenuta entro il limite originariamente previsto di due anni. Infine, la già citata legge 23 giugno 2017, n. 103, ha circoscritto la ricorribilità della sentenza ai soli casi in cui l’accordo non si sia formato legittimamente o non si sia tradotto fedelmente nella sentenza, ovvero il suo contenuto presenti profili di illegalità per la qualificazione giuridica del fatto, per la pena o per la misura di sicurezza. (…) Negli ulteriori e più recenti interventi normativi che hanno interessato la disciplina del patteggiamento, il legislatore ha, invece, inequivocabilmente rivelato di voler ampliare i contenuti negoziali del rito. In questo senso va infatti segnalato l’art. 1, comma 4, lett. d) della legge 9 gennaio 2019, n. 3, che ha introdotto nell’art. 444 cod. proc. pen. l’inedito comma 3-bis, il quale, ancorchè limitatamente ai procedimenti per i reati contro la pubblica amministrazione selezionati dalla norma, consente all’imputato di subordinare la propria richiesta alla «esenzione» dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen. ovvero all’estensione alle stesse della sospensione condizionale, ma con effetto vincolante per il giudice. Ancora più significativa risulta la riforma avviata dalla legge 27 settembre 2021, n. 134 – con la quale è stata conferita al Governo delega per la modifica del codice di rito – il cui art. 1, comma 10, lett. a) n. 1), ha rimesso al legislatore delegato il compito di prevedere, per il caso di applicazione di una pena superiore ai due anni, la possibilità che l’accordo tra le parti abbia ad oggetto anche le pene accessorie e la loro durata, nonché la confisca facoltativa e la determinazione del suo oggetto ed ammontare. E’ ovviamente necessario attendere la concreta declinazione che la direttiva menzionata avrà in sede di attuazione della delega, ma è comunque già evidente l’intenzione del legislatore di affermare la piena negoziabilità del trattamento sanzionatorio penale nel suo complesso considerato, includendo nel suo perimetro anche la confisca facoltativa, ancorchè questa abbia formalmente natura di misura di sicurezza. Non di meno, l’intenzione di rimettere alle parti la possibilità di non limitare l’accordo alla misura della pena costituisce altrettanto inequivocabile conferma della validità dell’impostazione seguita dalla giurisprudenza di legittimità nel riconoscere nel negozio processuale un contenuto “necessario” (quello relativo al merito dell’imputazione e, per l’appunto, alla misura della pena) ed uno, invece, solo “facoltativo” od “eventuale”. Per contro l’esclusione dalla previsione in esame delle sanzioni amministrative la cui applicazione è affidata al giudice penale, si rivela, a sua volta, una implicita conferma della correttezza del consolidato orientamento in proposito assunto dalle Sezioni Unite (…)”.
Concluso tale excursus normativo, gli Ermellini notavano come, dal canto suo, la giurisprudenza abbia percepito negli interventi riformatori illustrati una progressiva mutazione del modulo consensuale di definizione del processo, ed in tal senso, le Sezioni Unite, nella decisione n. 17781/2005, attribuendo alla clausola di equiparazione contenuta nell’ultima parte dell’art. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen. un significato diverso dal passato, soprattutto alla luce della disciplina riservata all’ipotesi di patteggiamento “allargato“, hanno anzitutto riconosciuto alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti «tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse» e quindi affermato, sovvertendo così il consolidato orientamento di segno contrario espresso in precedenti occasioni, che tale sentenza costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, primo comma, cod. pen., della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa mentre, successivamente, le Sez. U, nella pronuncia n. 21368 del 26/09/2019, ha invece ritenuto che dalla successione delle riforme emerga una più ampia valorizzazione della logica negoziale del rito, tesa a riconoscere anche all’accordo stipulato dalle parti la possibilità di assumere contenuti che trascendono quello “necessario” definito dall’art. 444, comma 1, cod. proc. pen. fermo restando che, facendo leva sull’esplicita evocazione delle misure di sicurezza nell’inedita disciplina della ricorribilità della sentenza di patteggiamento introdotta nel comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., la pronunzia menzionata è conseguentemente giunta a riconoscere la facoltà delle parti di concordarne l’applicazione, con eguale valore vincolante per il giudice dell’accordo stipulato sulla pena, al quale, anche in tal caso, è consentito solo recepire integralmente il patto ovvero rigettare la richiesta.
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Ebbene, per il Supremo Consesso, l’elaborazione compiuta nell’arco di tre decenni dalle Sezioni Unite in ordine ai rapporti tra la base negoziale del rito ed il potere decisionale del giudice, consente di potere affermare come l’equilibrio del modello processuale consista nella necessaria corrispondenza tra le due componenti menzionate.
In effetti, se è vero che il ruolo assegnato al giudice non è meramente “notarile” atteso che, nell’accogliere o rigettare la richiesta di patteggiamento, egli esercita un potere tipicamente giurisdizionale, il suo orizzonte decisionale è, però, definito dal contenuto dell’accordo raggiunto dalle parti, residuando in suo favore spazi cognitivi autonomi limitatamente a quei contenuti estranei, per loro natura o per espressa volontà della legge, alla struttura negoziale del rito e la cui ampiezza varia, a causa del regime differenziato introdotto dalla legge n. 134 del 2003, in ragione dell’entità della pena in concreto concordata (sottolineandosi del resto come la geometria variabile del potere decisionale del giudice, anche nel caso del patteggiamento c.d. “allargato“, dipenda non solo dalla disciplina normativa, ma inevitabilmente anche dalla scelta operata dalle parti).
Attraverso l’evoluzione normativa dell’istituto e la sua elaborazione giurisprudenziale, deve dunque per la Cassazione ritenersi sia emerso nel tempo, con sempre maggiore nitidezza, come l’essenza del patteggiamento non si esaurisca nella retribuzione premiale della rinunzia dell’imputato a contestare l’accusa ed al contraddittorio sulla prova, ma sia definita altresì dalla prevedibilità in concreto della decisione, ossia della possibilità offerta allo stesso imputato di avere il controllo sul contenuto della sentenza atteso che, se la struttura negoziale del rito ne assicura la compatibilità costituzionale in virtù dello schema derogatorio di cui all’art. 111, comma 5, Cost., è necessario che l’imputato, nel disporre dei propri diritti costituzionalmente garantiti, possa determinarsi nella piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche della sua rinunzia (cfr. Corte cost., sent. n. 394 del 2002,), trattandosi di una consapevolezza che non può ritenersi sussistente se la decisione che recepisce l’accordo sulla pena può assumere contenuti che trascendono quelli concordati o predeterminati dalla legge (che, in quanto tali, sono prevedibili dalle parti al momento in cui concludono l’accordo).
Ed è proprio ad una maggiore coscienza del valore incentivante e di garanzia della prevedibilità della decisione che possono dunque, per la Corte di legittimità, attribuirsi le scelte operate dal legislatore nel tempo al fine di ridurre gli spazi di integrazione della base negoziale espressamente attribuiti al giudice dall’assetto normativo originario, così come l’impegno serbato dalle Sezioni Unite nel correggere interpretazioni emerse nella giurisprudenza di merito e in quella delle Sezioni semplici e tese a riconoscerne di ulteriori, sfruttando l’ambigua o lacunosa formulazione di tale assetto originario, fermo restando che le scelte normative ed interpretative risultano poi in sintonia con il volto convenzionale delle procedure transattive diffusesi negli ordinamenti processuali europei per come definito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e, segnatamente, Corte EDU, 29/04/2014, Natsvlishvili e Togonidze contro Georgia, la quale ha stabilito come la rinunzia dell’imputato alle proprie prerogative processuali in cambio di una riduzione della pena possa ritenersi conforme al sistema convenzionale purchè, oltre alla previsione di un controllo giudiziale del contenuto dell’accordo e della correttezza delle modalità con le quali è stato raggiunto, venga garantita la consapevolezza dell’imputato sulle conseguenze legali del medesimo accordo.
E’ dunque alla luce di queste coordinate esegetiche che, per la Corte di Cassazione, va rinvenuta la soluzione della questione controversa muovendo per l’appunto e come già accennato dallo statuto del rito speciale.
Se, invero, l’art. 444 cod. proc. pen. costituisce la base legale del patteggiamento, definendo il contenuto del negozio stipulato tra le parti ed il confine del suo carattere vincolante per il giudice, non è dubbio che, ai sensi del terzo comma del suddetto articolo, l’accordo può riguardare anche la concessione della sospensione condizionale della pena.
Dal tenore di tale disposizione implicitamente si ricava in effetti che all’imputato ed al pubblico ministero è riconosciuta la facoltà di concordare il beneficio anche quando alla sua concessione non viene espressamente subordinata l’efficacia della richiesta di applicazione della pena ed è sempre la norma menzionata a stabilire l’effetto vincolante dell’eventuale estensione dell’accordo alla sospensione della pena, limitandolo all’ipotesi in cui la sua concessione sia stata posta come condizione necessaria del negozio processuale.
Ma, come precisato da Sezioni Unite n. 5882/1993 e dalla giurisprudenza successiva, ciò non significa che, in assenza di qualsiasi pattuizione sul punto, il giudice non sia in alcun modo vincolato dalla scelta operata dalle parti e possa, dunque, autonomamente concedere il beneficio posto che la stessa attribuzione a queste ultime della facoltà di estendere l’accordo alla sospensione e di modulare l’effetto vincolante della relativa pattuizione implica che è loro parimenti assegnata quella di non invocare il beneficio, e ciò altro non significa che la concessione della sospensione rientra nel potere dispositivo delle parti ma che, in deroga a quanto previsto dal comma 2 dell’art. 444 cod. proc. pen., il successivo terzo comma limita l’effetto vincolante dell’accordo sul punto al solo caso in cui l’efficacia della richiesta di applicazione della pena sia stata espressamente subordinata alla sua sospensione.
In assenza di tale condizione, dunque, per la Suprema Corte, eccezionalmente al giudice è consentito accogliere il patteggiamento anche senza recepire l’accordo nella sua interezza, mentre proprio la configurazione normativa dei limiti della clausola derogatoria gli impedisce di decidere ultra petitum, accordando il beneficio quando le parti non ne hanno richiesto la concessione, tenuto conto altresì del fatto che il divieto di ultrapetizione è stato poi assunto dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 10/1993, a fondamento dell’esclusione del potere del giudice di integrare il patto intervenuto tra le parti nell’esercizio di mere facoltà conferitegli dalla legge e, in particolare, subordinando la concessione della sospensione condizionale della pena oggetto dell’accordo ad una delle prescrizioni previste dall’art. 165, comma primo, cod. pen..
La pronunzia citata, in maniera ancora più esplicita rispetto a come si erano espresse le Sezioni Unite, nella decisione n. 5882/1993, ha fatto discendere il limite del potere del giudice dall’impostazione negoziale del rito, sottolineando però come ad essa sia immanente la garanzia della prevedibilità del contenuto della decisione che recepisce l’accordo.
Ad ogni modo, se entrambi gli orientamenti in contrasto hanno richiamato la sentenza n. 10/1993, l’orientamento maggioritario le attribuisce, però, un significato che trascende il suo effettivo contenuto e che, in parte, lo travisa, essendo indubbio – come pure si è obiettato – che il contesto normativo, in riferimento al quale il Supremo Collegio si è pronunziato, era quello precedente alle modifiche apportate all’art. 165 cod. pen. dalla legge n. 145 del 2004, è però necessario, per la Corte di legittimità, rammentare che, anche prima della novella legislativa, il secondo comma dell’articolo citato già obbligava il giudice, in caso di reiterazione del beneficio, a subordinare la sospensione condizionale ad una delle prescrizioni previste dal comma precedente, mentre la clausola «salvo che ciò sia impossibile», poi eliminata dalla citata riforma, stava semplicemente a significare che nell’eventualità della concreta inattuabilità di tali prescrizioni l’effetto condizionante di tale obbligo veniva meno ed il beneficio, una volta concesso, non poteva essere revocato (ex multis Sez. 1, n. 24714 del 08/05/2003; Sez. 2, n. 1656 del 06/03/1998).
In realtà, per la Cassazione, laddove la sentenza n. 10/1993 ha distinto le determinazioni imposte al giudice da quelle che costituiscono esercizio di una mera facoltà che gli è attribuita, non ha fatto alcun riferimento alla previsione del secondo comma dell’art. 165 cod. proc. pen. – nemmeno evocato in motivazione, anche perché la fattispecie in decisione aveva ad oggetto un caso di subordinazione facoltativa della sospensione condizionale – ma si è limitata ad affermare il principio generale per cui il decidente è tenuto autonomamente ad adottare con la sentenza di patteggiamento soltanto quelle statuizioni la cui applicazione gli è imposta dalla legge.
Principio che la citata pronunzia ha espressamente giustificato in riferimento all’impossibilità di prevedere al momento dell’accordo il contenuto della sentenza che lo trascende, salvo, per l’appunto, nell’ipotesi in cui il giudice non abbia potuto diversamente determinarsi, perchè è la legge ad imporne l’adozione, rimanendo in tale caso implicito che le parti ne abbiano fatto oggetto di previsione, proprio per l’ineludibilità della conseguenza.
Ebbene, le Sezioni Unite, con la pronuncia qui in commento, intendevano ribadire tale principio in quanto, come si è accennato, lo stesso è intimamente connaturato all’impianto negoziale del rito e condizione della sua compatibilità costituzionale e convenzionale, rilevandosi però al contempo che, proprio per tale ultima ragione, deve esserne precisata la sua effettiva estensione nel senso che, se non può dubitarsi che esso riguardi anzitutto quelle statuizioni di cui la legge impone l’adozione in quanto sottratte al potere dispositivo delle parti, come nel caso, ad esempio, dell’applicazione con la sentenza di patteggiamento delle sanzioni amministrative accessorie dato che, in tal caso, nemmeno si pone il pericolo di una alterazione dell’accordo, per il semplice motivo che le parti non possono disporre con effetto vincolante per il giudice dell’an o del quomodo di determinazioni che non rientrano nella base legale del negozio processuale, qualora, invece, la statuizione normativamente imposta incida su uno degli aspetti negoziabili dalle parti, affinchè il giudice possa adottarla anche prescindendo da una manifestazione di volontà di queste ultime, è necessario che il suo contenuto sia predeterminato dalla legge poiché, soltanto in questo caso, può effettivamente ritenersi che il silenzio delle parti sul punto costituisca implicita adesione alla successiva determinazione giudiziale in quanto, nella consapevolezza dell’imposizione normativa, le stesse sono state in grado di prevederne l’integrale contenuto; in altri termini, quando la legge impone al giudice di adottare una prescrizione non prevista dall’accordo (seppure negoziabile dalle parti), ma allo stesso tempo gli attribuisce il potere di determinarne in concreto il contenuto, non è dubbio che l’esito della sua deliberazione sul punto non è più prevedibile e non può pertanto ritenersi che l’imputato abbia avuto piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche della sua scelta al momento in cui ha eletto il rito speciale e rinunziato all’esercizio dei propri diritti.
Di conseguenza, alla luce delle rassegnate conclusioni, è a questo punto inevitabile ritenere, per la Corte di legittimità, che la soluzione corretta della questione controversa sia quella propugnata dall’indirizzo minoritario.
Al giudice del patteggiamento, invero, non è consentito subordinare motu proprio la concessione della sospensione condizionale concordata dalle parti ad uno degli obblighi previsti dall’art. 165 cod. pen., anche nel caso di reiterazione del beneficio atteso che la scelta della prescrizione da imporre e la modulazione del relativo contenuto non sono elementi predeterminati dalla legge, ma rimessi alla discrezionalità del decidente, con la conseguente sottrazione alle parti della possibilità di prevedere come verrà in concreto esercitato il relativo potere.
Da ciò se ne faceva conseguire come risulti fuorviante il dato sul quale l’orientamento maggioritario fonda le proprie conclusioni, ossia il carattere cogente del disposto del secondo comma dell’art. 165 cod. pen. dal momento che l’attuazione dell’obbligo di subordinare la concessione del beneficio ad una prestazione necessita, comunque, della mediazione dei poteri discrezionali del giudice, il cui concreto esercizio rimane imprevedibile per l’imputato, pur riflettendosi in misura rilevante su diritti fondamentali, nonché sulla stessa eseguibilità della pena patteggiata ed è dunque escluso che lo stesso imputato abbia, in tal caso, la necessaria consapevolezza delle conseguenze giuridiche della sua richiesta nel momento in cui la presenta.
La determinazione della prestazione e delle sue modalità di esecuzione, per la Corte, non possono, quindi, considerarsi la mera conseguenza di un automatismo normativo implicitamente accettato all’atto della subordinazione dell’accordo al riconoscimento della sospensione condizionale, come, invece, ritenuto dalle pronunzie riconducibili al succitato orientamento, fermo restando però che respingere tale impostazione non significa, peraltro, che la previsione di cui al secondo comma dell’art. 165 cod. pen. perda il suo carattere cogente e che l’imputato può potestativamente paralizzarne l’operatività, ottenendo la concessione del beneficio anche senza condizionarlo all’esecuzione di una delle prestazioni di cui è, invece, imposta l’applicazione giacché l’equivoco, sotteso all’interpretazione proposta dall’orientamento maggioritario è che riconoscere al giudice il potere di integrare l’accordo condizionando la concessione del beneficio richiesto sia imposto dalla necessità di non disapplicare la norma sostanziale mentre la natura obbligatoria di quest’ultima non viene meno solo perché le parti non ne hanno previsto l’applicazione.
Di conseguenza, è escluso che il giudice abbia il potere di concedere la sospensione della pena senza subordinarla ad una delle prestazioni indicate dall’art. 165 cod. pen. quando ciò è imposto dalla norma, così come, allo stesso modo, però, e per le ragioni già esposte, non può essere riconosciuto al giudice il potere di integrare la richiesta, una volta che le parti hanno vincolato, ai sensi dell’art. 444, comma 3, cod. proc. pen., la decisione finale alla concessione del beneficio.
Il conflitto tra le due norme è, peraltro, per le Sezioni Unite, solo apparente, poiché quella processuale impone il rigetto integrale della richiesta di patteggiamento subordinata alla concessione della sospensione condizionale quando il giudice ritiene che il beneficio non possa essere riconosciuto, essendo certamente quest’ultimo non riconoscibile qualora l’effetto vincolante dell’accordo non consenta di dare attuazione al disposto l’art. 165, comma secondo, cod. pen., pur ricorrendo i presupposti per la necessaria applicazione di tale norma.
Non potendo, quindi, concedere la sospensione in maniera incondizionata, il giudice si trova nell’impossibilità di accogliere la richiesta di concessione della sospensione condizionale della pena e deve, conseguentemente, rigettare il patto nella sua integralità ed è di conseguenza onere delle parti che intendano avvalersi della clausola di cui all’art. 444, comma 3, cod. proc. pen., pattuire anche le condizioni che consentono di concedere il beneficio nel rispetto del citato secondo comma dell’art. 165, cod. pen..
Ciò posto, a questo punto della disamina, era per la Sezioni Unite necessario chiarire che le parti possono, per l’appunto, accordarsi anche sulla subordinazione della sospensione condizionale ad uno dei menzionati obblighi dal momento che anche questa affermazione, per la Corte di legittimità, trova un solido fondamento nel disposto dell’art. 444, comma 3, cod. proc. pen., dal quale – in accordo con le Sezioni Unite n. 5882/1993 e con la giurisprudenza successiva – va tratta la conclusione che la richiesta del beneficio può, per implicita volontà legislativa, costituire un elemento dell’accordo negoziale sebbene le parti non abbiano subordinato quest’ultimo al recepimento di tale richiesta.
Se la concessione della sospensione condizionale rientra nel potere dispositivo delle parti è, infatti, illogico ritenere, come pure hanno fatto alcune pronunzie (Sez. 5, n. 11269 del 16/1/2019; Sez. 6, n. 19882 del 24/4/2018), che tale potere non riguardi anche le condizioni alle quali il beneficio viene riconosciuto attese che le stesse sono parte integrante della disciplina dell’istituto ed influiscono in maniera tutt’altro che marginale sulla sua concreta applicazione e sui diritti dell’imputato.
Semmai la questione, per la Corte, è un’altra, ossia quale sia il valore vincolante per il giudice della clausola che ha ad oggetto la subordinazione della sospensione della pena, ma in proposito, sempre ad avviso delle Sezioni Unite, è agevole riconoscere che, una volta ammessa la negoziabilità di tale aspetto, una divergente decisione del giudice si risolverebbe comunque in una inammissibile alterazione dell’accordo, tale da rendere non più prevedibile il contenuto della sentenza, essendo dunque evidente che, anche in tal caso, lo stesso giudice potrà o recepire l’accordo nella sua totalità ovvero rigettare integralmente la richiesta di patteggiamento, valutando incongrue le scelte operate dalle parti.
Oltre a ciò, era altresì fatto che presente come, alla luce di tali considerazioni, sia poi indubitabile che – come sostenuto in alcune pronunzie dell’orientamento minoritario (Sez. 2, n. 27633 del 14/05/2021; Sez. 4, n. 17651 del 11/03/2008) – rientri nel potere negoziale delle parti non solo l’indicazione dell’obbligo cui subordinare la concessione del beneficio, ma anche del suo contenuto.
Con riguardo allo specifico caso della prestazione di attività non retribuita, ciò significa, per la Cassazione, che le parti hanno dunque la facoltà di concordarne durata e modalità di esecuzione, vincolando il giudice alla loro pattuizione, tenuto conto altresì del fatto che, a ulteriore corollario, era poi precisato che, qualora l’imputato non abbia personalmente prestato il proprio consenso al patto conferendo invece a tal fine procura speciale al proprio difensore, è compito del giudice verificare – eventualmente avvalendosi dei poteri attribuitigli dall’art. 446, comma 5, cod. proc. pen. – l’effettiva legittimazione di quest’ultimo a concordare anche l’imposizione degli obblighi previsti dall’art. 165 cod. pen. ed il loro contenuto.
Infine era chiarito come la violazione del divieto di subordinare ex officio la sospensione condizionale in caso di reiterazione della richiesta del beneficio non operi esclusivamente nell’ipotesi disciplinata dal menzionato terzo comma dell’art. 444 cod. proc. pen. posto che il riconoscimento della sospensione condizionale può costituire oggetto dell’accordo anche qualora l’efficacia della richiesta di patteggiamento non venga subordinata alla sua concessione fermo restando che, in tal caso, l’effetto vincolante del negozio processuale non si estende, per implicita volontà del legislatore, al suo contenuto eventuale, ben potendo il giudice accogliere il patteggiamento senza riconoscere il beneficio mentre ciò che non gli viene consentito, invece, è integrare il patto, subordinando la sospensione ad un obbligo non previsto dalle parti, poiché, ancora una volta, la loro volontà non è interpretabile in termini di implicito consenso all’esercizio dei poteri discrezionali del giudice in ordine alla selezione e configurazione dell’obbligo subordinante, il che non significa che lo stesso giudice – come avviene, all’opposto, nell’ipotesi in cui l’efficacia della richiesta di applicazione della pena venga subordinata al riconoscimento del beneficio – sia tenuto a rigettare il patteggiamento, potendo egli limitarsi a non concedere la sospensione condizionale della pena, giustificando la propria decisione proprio in riferimento alla mancata previsione della condizione di cui il secondo comma dell’art. 165 cod. pen. pretende, invece, l’applicazione.
Così ricostruito il sistema, quindi, per il Supremo Consesso, perde a questo punto di significato l’ulteriore questione – pure prospettata dall’ordinanza di rimessione – relativa all’idoneità della mera richiesta di concessione della sospensione condizionale formulata con il patteggiamento ad integrare implicitamente il requisito, previsto dall’art. 165 cod. pen., della “non opposizione” dell’imputato alla subordinazione del beneficio alla prestazione dell’attività non retribuita in favore della collettività atteso che, una volta escluso che il giudice abbia, nel rito speciale, il potere di integrare o modificare l’accordo che non contempli la subordinazione della concessione del beneficio ovvero lo subordini ad uno degli altri obblighi previsti dalla legge, risulta irrilevante stabilire se siglando il patto abbia o meno implicitamente inteso non opporsi alla prestazione di tale attività.
Per converso, qualora già le parti si siano accordate per subordinare alla medesima attività la concessione della sospensione condizionale, per la Suprema Corte, è ovvio che in questo caso l’adesione dell’imputato al patto in tal senso configurato realizza il presupposto richiesto dal primo comma del citato art. 165 cod. pen. per l’imposizione dell’obbligo.
Sulla prima questione sollevata dall’ordinanza di rimessione, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, era dunque formulato il seguente principio: «Nel procedimento speciale di cui all’art. 444 cod. proc. pen., l’accordo delle parti sulla applicazione di una pena detentiva di cui viene richiesta la sospensione condizionale deve estendersi anche agli obblighi ulteriori eventualmente connessi ex lege alla concessione del beneficio, indicandone, quando previsto, la durata, con la conseguenza che, in mancanza di pattuizione pure su tali elementi, la sospensione non può essere accordata e, qualora al suo riconoscimento sia stata subordinata l’efficacia della stessa richiesta di applicazione della pena, questa deve essere integralmente rigettata».
Formulato questo primo principio di diritto, gli Ermellini rilevavano come esso fosse dirimente ai fini dell’accoglimento del primo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento del secondo.
Premesso ciò, si postulava che, non di meno, come denunziato dall’ordinanza di rimessione, anche sul tema attinto da tale ultima censura si registrava un perdurante contrasto nella giurisprudenza di legittimità ed era dunque necessario, per la Corte di legittimità, provvedere alla sua ricomposizione, stante la rilevanza della questione.
In particolare, il contrasto in questione, per come rilevato dall’ordinanza di rimessione, attineva all’applicabilità o meno del limite di durata massima di sei mesi, stabilito dall’art. 54, secondo comma, d.lgs n. 274 del 2000, per la pena alternativa del lavoro di pubblica utilità prevista per i reati di competenza del giudice di pace, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività a cui il giudice può subordinare la sospensione condizionale della pena, ai sensi dei commi primo e secondo dell’art. 165 cod. pen. e, dunque, sull’estensione del rinvio operato dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. alla disciplina dettata dalla prima disposizione citata.
In proposito erano evidenziati i seguenti profili: “L’art. 165 cod. pen. consente la subordinazione della sospensione condizionale alla prestazione da parte dell’imputato di attività non retribuita in favore della collettività per un tempo, comunque, non superiore alla durata della pena la cui esecuzione sia stata sospesa. L’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. impone, in caso di effettiva subordinazione del beneficio, l’osservanza, tra l’altro, delle disposizioni di cui all’art. 54, commi 2, 3, 4 e 6, d.lgs. n. 274 del 2000, in quanto compatibili. Quest’ultimo articolo, nella parte richiamata dalla precedente disposizione, prevede che: a) la durata del periodo in cui il condannato deve prestare il lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a dieci giorni, né superiore a sei mesi; b) l’attività deve essere svolta, con modalità ed in tempi che non pregiudichino le esigenze primarie del condannato, nell’ambito territoriale della provincia di sua residenza per non più di sei ore settimanali, limite derogabile, ove il condannato lo richieda, sempre che esso non comporti un impegno quotidiano superiore alle otto ore; c) le linee guida di svolgimento di tale attività devono essere oggetto, in via generale, di determinazione da pare del Ministero della Giustizia, d’intesa con la Conferenza Unificata Stato-Regioni e Stato-Città di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997”.
Concluso questo excursus normativo, sotto il profilo interpretativo, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come, secondo un primo orientamento – che valorizza in tal senso proprio il rinvio operato dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. ai commi 2 e 3 dell’art. 54 del d.lgs n. 274 del 2000 – la durata della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività prevista dall’art. 165 cod. pen. sarebbe soggetta al limite massimo di sei mesi per sei ore settimanali ivi previsto per la pena del lavoro di pubblica utilità, salvo che il condannato, al fine di abbreviarne i tempi di esecuzione, chieda lo svolgimento della prestazione per una durata settimanale superiore, che non può comunque eccedere le otto ore di durata giornaliera (Sez. 5, n. 8454 del 6/12/2019; Sez. 4, n. 20297 del 05/03/2015) rilevandosi al contempo che, in realtà, nell’ambito di tale orientamento, si era avuto modo di precisare come, dal combinato disposto delle disposizioni menzionate in precedenza, si ricava che la durata della prestazione di attività non retribuita sarebbe soggetta a due limiti massimi cumulativi: quello di sei mesi previsto dall’art. 54, commi 2 e 3, d.lgs n. 274 del 2000, per come richiamato dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen., e, se inferiore, quello della durata della pena sospesa, previsto dall’art. 165, comma primo, cod. pen. (Sez. 3, n. 17131 del 24/04/2015; Sez. 1, n. 32649 del 16/06/2009).
Secondo un altro e contrapposto orientamento, invece, la durata massima della prestazione in esame trova la sua disciplina esclusivamente nella disposizione di cui all’art. 165, comma primo, cod. pen., per la quale la stessa corrisponde alla durata della pena sospesa e, in accordo con tale opzione interpretativa, non sono stati dunque stimati applicabili i limiti previsti per la pena del lavoro di pubblica utilità dall’art. 54, commi 2 e 3, d.lgs n. 274 del 2000, in quanto tali disposizioni sono richiamate dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. solo «in quanto compatibili» con la disciplina di cui all’art. 165 cod. peri., formula che deve essere tradotta nel senso che il rinvio non riguarda quella parte di disciplina la quale trova già una sua autonoma ed espressa regolamentazione nella norma del codice, come avviene, per l’appunto, con riguardo alla determinazione della durata massima della prestazione (Sez. 3, n. 6519 del 16/09/2019; Sez. 7, n. 6898 del 14/12/2018), deducendosi contestualmente che, da un lato, a sostegno di tali conclusioni, è stato altresì precisato come sia irragionevole ritenere che il legislatore, con la medesima disciplina di cui alla legge n. 145 del 2004, abbia inteso introdurre la regola nelle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale e una sua mera specificazione nel corpo del codice penale, dall’altro, nell’ambito del medesimo orientamento, è stato tuttavia ritenuto (in sintonia con quello contrapposto) che la durata minima della prestazione di attività non retribuita di cui all’art. 165 cod. pen. sia quella di dieci giorni prevista dall’art. 54, comma 2, del d.lgs. n. 274 del 2000, stante per l’appunto il rinvio operato a tale disposizione dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. e la mancanza di un’autonoma regolamentazione sul punto da parte della disposizione codicistica (Sez. 3, n. 6519 del 16/09/2019).
Orbene, le Sezioni Unite ritenevano di dover aderire al primo degli indirizzi illustrati stimandolo quale quello in grado di coniugare il rispetto dei dati normativi di riferimento con la natura dell’istituto, il quale era descritto nei seguenti termini: “Come noto, quello che viene comunemente inteso come “lavoro di pubblica utilità” trova il suo remoto antecedente storico negli artt. 19 e 22 del Codice Zanardelli del 1889, il quale prevedeva la prestazione di «opere specifiche in favore dello Stato e degli enti locali» ovvero «d’opera in lavori di pubblica utilità» quale sanzione sostitutiva della detenzione o dell’arresto. Nell’ambito del sistema penale vigente l’istituto ha, invece, assunto funzioni diverse in ragione dei differenti contesti normativi in cui è stato dispiegato e che ne hanno condizionato la specifica regolamentazione. In tal senso il precursore del lavoro di pubblica utilità è stato il “lavoro sostitutivo”, introdotto dagli artt. 102 e 105 della legge n. 689 del 1981 come sanzione sostitutiva di quelle pecuniarie rimaste ineseguite per l’insolvenza del condannato. L’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000 ha, invece, espressamente elevato per la prima volta il “lavoro di pubblica utilità” a pena principale, pur attribuendogli nel successivo art. 55 anche la funzione di sanzione in cui si converte la pena pecuniaria rimasta ineseguita per insolvibilità del condannato. Per l’art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990 (introdotto dalla legge n. 49 del 2006 e successivamente modificato dalla legge n. 79 del 2014), la prestazione di lavoro di pubblica utilità assume la qualifica di pena “alternativa” a quelle detentive epecuniarie previste per i reati in materia di stupefacenti, qualora la condanna riguardi fatti di lieve entità commessi da soggetto tossicodipendente. L’art. 224-bis cod. strada stabilisce che il “lavoro di pubblica utilità consistente nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività” è una sanzione amministrativa accessoria riservata a colui che venga condannato alla pena della reclusione per un delitto colposo commesso in violazione delle norme dello stesso codice. A sua volta, l’art. 186, comma 9-bis del medesimo cod. strada lo configura, invece, come pena sostitutiva di quelle detentive e pecuniarie previste per il reato di guida in stato di ebbrezza. Da ultimo, la prestazione di lavoro non retribuito di pubblica utilità diviene, ai sensi dell’art. 168-bis, comma 3, cod. pen., condizione cui è subordinata la concessione della messa alla prova, mentre la sua effettiva prestazione è presupposto della valutazione positiva dell’esito della prova e, quindi, della fattispecie estintiva del reato. Infine, va ricordato che l’art. 1, comma 1, lett. i) ed I) della legge 28 aprile 2014, n. 67, nel conferire delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio, aveva previsto l’introduzione del “lavoro di pubblica utilità” come sanzione sostitutiva di quelle della reclusione e dell’arresto domiciliare, da comminarsi per i reati puniti con la reclusione fino a cinque anni. La delega, peraltro, non è mai stata attuata ed è scaduta il 16 gennaio 2015, ma è stata riproposta nella già citata legge n. 134 del 2021, che, all’art. 1, comma 17, lett. b) ed e), ha indicato il lavoro di pubblica utilità tra le sanzioni sostitutive, rispettivamente, delle pene detentive brevi di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689, nonchè di quella applicata ex art. 444 cod. proc. pen., se non superiore ai tre anni, ovvero con il decreto penale di condanna. (…) L’art. 165 cod. pen. configura, invece, la prestazione di “attività non retribuita in favore della collettività” come condizione alla quale può o deve essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena. In proposito, si è osservato come dai lavori parlamentari della legge n. 145 del 2004 – cui, come più volte ricordato, si deve la vigente formulazione dell’articolo – emerge che tale configurazione «si iscrive in un disegno di potenziamento degli aspetti di probation già presenti nell’istituto della sospensione condizionale, in funzione in certo modo riequilibrante dell’ampliamento dei limiti della pena sospendibile e della riduzione e differente modulazione dei termini per la estinzione del reato e per la riabilitazione pure operati dal menzionato intervento legislativo» (Sez. 1, n. 32649 del 16/06/2009, omissis, cit.). E’ dunque evidente come, in questo contesto, la prestazione dell’attività non retribuita assuma una funzione non omologabile a quella di una sanzione, pur attribuitale dal legislatore in altre occasioni, ma semmai lontanamente assimilabile (nonostante le profonde differenze che caratterizzano i due istituti) a quella di cui è investita nella disciplina della messa alla prova, della quale, infatti, la riforma
della sospensione condizionale effettuata nel 2004 è stata talvolta considerata una sorta di anticipazione. Ciò non esclude, però, che tale misura sia modellata sui medesimi parametri qualitativi e quantitativi delle pene, principali e sostitutive, che con diversa etichetta hanno i medesimi contenuti in altri contesti normativi, il che ne rivela senza dubbio la sostanza afflittiva, peraltro evidente attesa la sua capacità di impattare, limitandoli, su diritti fondamentali del condannato. (…) E’ ancora opportuno sottolineare come un ulteriore tratto comune alle poliformi manifestazioni del lavoro di pubblica utilità nelle diverse articolazioni dell’ordinamento in cui è stato configurato è costituito dalla richiesta della necessaria adesione dell’imputato alla comminatoria della prestazione. Non si tratta di un mero aspetto procedurale, bensì di uno dei fondamenti della legittimità dell’istituto, atteso che in nessun modo l’imposizione imperiosa di una prestazione lavorativa gratuita sarebbe compatibile coi precetti di cui agli 27 e 36 Cost. e con quanto disposto dall’art. 4, § 2, CEDU, per cui «nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio». Peraltro anche tale requisito assume differenti sfumature nelle varie declinazioni dell’istituto, richiedendo le norme ora l’iniziativa dello stesso imputato, ora l’acquisizione del suo consenso o, infine, come per l’appunto nel caso dell’art. 165, comma primo, cod. pen., la sua “non opposizione” alla subordinazione della sospensione condizionale. Formula questa prescelta dal legislatore al fine di coniugare la necessità dell’adesione dell’imputato all’assoggettamento all’obbligo con l’esigenza di evitare che la eventualmente preordinata astensione dal manifestare la propria volontà in proposito possa di fatto paralizzare la decisione del giudice di subordinare la concessione sospensione condizionale. Il che non autorizza a desumere la “non opposizione” da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una inequivoca manifestazione di volontà in tal senso. (…) Va infine osservato che, nel variegato orizzonte normativo illustrato in precedenza, soltanto l’art. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990 e l’art. 186, comma 9-bis, cod. strada, rinviano all’art. 54, d.lgs. n. 274 del 2000. Al contrario di quello operato dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. – che è invece subordinato alla clausola di “compatibilità” della disciplina mutuata con quella dettata dall’art. 165 cod. pen. – il rinvio operato dalle disposizioni summenzionate ha, però, carattere incondizionato e omnicomprensivo, comprendendo pacificamente anche la previsione relativa ai limiti, minimi e massimi, di durata dell’attività lavorativa indicati nel citato art. 54”.
Conclusa questa disamina di ordine normativo, le Sezioni Unite ritenevano come il contrasto andasse ricomposto nel senso che la durata massima della prestazione di attività non retribuita deve ritenersi soggetta a due limiti massimi cumulativi.
Tale prestazione, cioè, non può essere applicata per una durata eccedente la misura della pena sospesa, come previsto dal primo comma dell’art. 165 cod. pen., e comunque non può avere una durata superiore ai sei mesi fissati dal secondo comma dell’art. 54 d.lgs. n. 274 del 2000, qualora l’entità della pena sospesa sia più elevata, evidenziandosi a tal proposito come tale affermazione trovi anzitutto fondamento nel confronto con il testo delle norme di riferimento, essendo incontestabile che, se le due disposizioni da ultime citate prevedano due limiti edittali massimi tra loro diversi, è però apodittico, per la Corte di legittimità, sostenere che gli stessi siano solo per questo incompatibili e non, invece e per l’appunto, cumulabili.
Le sentenze iscrivibili nell’orientamento che si intende disattendere, al fine di giustificare l’assunto, sono quindi costrette, per la Cassazione, a ricorrere ad una interpretazione dell’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. che trascende il suo significato visto che tale ultima disposizione si limita a condizionare il rinvio alle norme dell’ordinamento del giudice di pace alla loro compatibilità con quelle previste dall’art. 165 cod. pen., ma non afferma in alcun modo che tale “compatibilità” sia automaticamente esclusa nel caso queste ultime già regolamentino alcuni aspetti del lavoro di pubblica utilità; in altri termini, la disposizione di coordinamento, secondo la funzione che le è propria, si limita a stabilire le condizioni di operatività del rinvio sulla base delle quali deve essere risolto l’eventuale conflitto tra la norma ricevente e quella richiamata e, quindi, la sterilizzazione del rinvio presuppone l’accertamento di un profilo di effettiva incompatibilità del contenuto delle due norme mentre le pronunzie menzionate si sono, invece, limitate a postularla, senza spiegare le ragioni per cui la previsione codicistica e quella dell’ordinamento del giudice di pace sarebbero logicamente inconciliabili.
Peraltro, sempre ad avviso degli Ermellini, se effettivamente l’intenzione del legislatore fosse stata quella di rendere del tutto autonoma la disciplina codicistica dei limiti massimi di durata dell’attività non retribuita, diversa sarebbe stata la formulazione della disposizione di coordinamento che si sarebbe limitata a rinviare all’art. 54 d.lgs. n. 274 del 2000 per tutti i profili non già espressamente regolamentati nell’art. 165 cod. pen..
Invece l’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. impone testualmente l’osservanza delle disposizioni dettate nell’ordinamento del giudice di pace, ossia impone di completare attraverso le medesime la disciplina dell’istituto eventualmente contenuta nella norma del codice penale, salvo che le stesse si rivelino effettivamente incompatibili con quest’ultima.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente come i risultati dell’interpretazione testuale del compendio normativo di riferimento trovino poi corrispondenza in alcune osservazioni di carattere sistematico e in tal senso si premetteva, però, che Sez. 3, n. 6519 del 2019, omissis e Sez. 7, n. 6898 del 2019, hanno affermato il principio, non condiviso nel caso di specie, per cui il limite massimo dell’attività non retribuita sarebbe esclusivamente quello determinato dal primo comma dell’art. 165 cod. pen., al fine di consentire al giudice di estenderne la durata anche oltre l’orizzonte fissato dalla norma richiamata dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. posto che, in entrambe le fattispecie oggetto delle citate pronunzie, la pena sospesa applicata all’imputato era ampiamente superiore ai sei mesi previsti dall’art. 54, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000 come limite massimo per la durata del lavoro di pubblica utilità.
Era però evidenziato come, nelle altre ipotesi in cui tale ultima disposizione, sia stata richiamata al fine di mutuarne la disciplina – ossia, negli artt. 73, comma 5-bis, d.P.R. n. 309 del 1990 e 186, comma 9-bis, d.lgs. n. 185 del 1992 – il legislatore ha sì fissato in maniera autonoma i limiti di durata del lavoro di pubblica utilità in misura corrispondente alla pena che la sua prestazione è deputata a sostituire, ma pur tuttavia, nelle summenzionate occasioni, è stato anche precisato espressamente di voler derogare in tal modo a quanto previsto dall’art. 54, precisazione invece assente sia nell’art. 165 cod. pen., che nell’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen..
Non solo, le menzionate deroghe sono state stabilite in riferimento a contesti normativi nei quali al lavoro di pubblica utilità è stata attribuita una funzione propriamente sanzionatoria, che appare ragione sufficiente a giustificare la scelta legislativa, mentre non è così nell’ipotesi della subordinazione della sospensione condizionale, dove l’imposizione della prestazione non persegue una finalità punitiva, ancorché, come si è detto, la misura presenti inevitabilmente un contenuto anche afflittivo.
Appare pertanto, per la Corte di Cassazione, più aderente alla ratio del compendio normativo di riferimento concludere che, attraverso il rinvio operato dall’art. 18-bis disp. coord. trans. cod. pen. all’art. 54 d.lgs. n. 274 del 2000, il legislatore abbia proprio inteso configurare un correttivo idoneo ad evitare che il parametro di commisurazione della durata della prestazione cui viene subordinata la concessione della sospensione condizionale indicato nel primo comma dell’art. 165 cod. pen. possa tradursi in un eccesso di afflittività di una misura che non è destinata a sostituire la pena.
Ciò porta quindi le Sezioni Unite ad affermare che i limiti fissati, rispettivamente, dalla norma codicistica e da quella prevista dall’ordinamento del giudice di pace, si cumulano nel senso che il loro combinato disposto impone al giudice di parametrare la durata dell’attività non retribuita entro il limite massimo di sei mesi ovvero di quello determinato dalla misura della pena sospesa, se questa risulta inferiore a sei mesi.
In ordine alla seconda questione sollevata dall’ordinanza di rimessione, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, era dunque formulato il seguente principio: «La durata della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività soggiace a due limiti massimi cumulativi: quello di sei mesi, previsto dal combinato disposto degli artt. 18 bis disp. coord. trans. cod. pen. e 54, comma 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, e, se inferiore, quello stabilito dall’art. 165, primo comma, cod. pen. in relazione alla misura della pena sospesa»
5. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse.
In tale pronuncia, infatti, le Sezioni Unite intervengono sulla sospensione condizionale della pena formulando, componendo dei pregressi contrasti giurisprudenziali, due principi di diritto.
In particolare, in questo arresto giurisprudenziale, si afferma, da un lato, che, nel procedimento speciale di cui all’art. 444 cod. proc. pen., l’accordo delle parti sulla applicazione di una pena detentiva di cui viene richiesta la sospensione condizionale deve estendersi anche agli obblighi ulteriori eventualmente connessi ex lege alla concessione del beneficio, indicandone, quando previsto, la durata, con la conseguenza che, in mancanza di pattuizione pure su tali elementi, la sospensione non può essere accordata e, qualora al suo riconoscimento sia stata subordinata l’efficacia della stessa richiesta di applicazione della pena, questa deve essere integralmente rigettata, dall’altro, la durata della prestazione di attività non retribuita a favore della collettività soggiace a due limiti massimi cumulativi: quello di sei mesi, previsto dal combinato disposto degli artt. 18 bis disp. coord. trans. cod. pen. e 54, comma 2, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, e, se inferiore, quello stabilito dall’art. 165, primo comma, cod. pen. in relazione alla misura della pena sospesa.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta, per un verso, nel caso di c.d. patteggiamento, si raggiunga un “accordo” che prevede la sospensione condizionale della pena, per altro verso, si debba stabilire la durata della prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codeste tematiche giuridiche sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.
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