Le Sezioni Unite sulla notificazione dell’atto di citazione

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Le Sezioni Unite, con una recente sentenza (n. 42603 del 18 ottobre 2023), si sono pronunciate in materia di notificazione dell’atto di citazione: vediamo come.

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Corte di Cassazione – Sezioni Unite – Sentenza n. 41603 del 18/10/2023

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1. Il fatto

Il Giudice di pace di Livorno dichiarava la nullità di un decreto di citazione a giudizio emesso nei confronti di persone imputate del reato di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, commi 5-ter e 5-quater, oltre che di un terzo soggetto, imputato del reato di cui al stesso D.Lgs., art. 10-bis.
Orbene, si rilevava a tal proposito che, per uno di essi, la citazione a giudizio fu notificata presso il difensore di ufficio nonostante quest’ultimo, interpellato ai sensi dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis – introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103 -, avesse rifiutato l’indicazione di domiciliatario mentre, per un altro, la citazione fu notificata al difensore di ufficio presso il cui studio professionale l’imputato aveva eletto domicilio e che però il difensore, come dallo stesso dichiarato all’udienza, non era stato interpellato per il necessario assenso alla domiciliazione ai sensi, ancora una volta, dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis, aggiungendo che, in ogni caso, dal verbale di identificazione redatto nei confronti di A. risultava comunque un domicilio dichiarato.
Dichiarata la nullità della notificazione della citazione a giudizio, il giudice di pace ordinava quindi la trasmissione degli atti al pubblico ministero.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Livorno, ricevuti gli atti, dal canto suo, proponeva ricorso per Cassazione, deducendo l’abnormità dell’ordinanza che, dichiarata la nullità, aveva determinato la regressione del procedimento.
In merito alla posizione di uno tra tali accusati (per mero errore materiale indicato con il nome di un altro), il Procuratore ricorrente richiamava all’uopo la prevalente giurisprudenza di legittimità secondo cui, pur quando il difensore non presti l’assenso alla domiciliazione, le notifiche degli atti sono validamente effettuate con consegna di copia allo stesso difensore, secondo quanto previsto dall’art. 161 c.p.p., comma 4, denunciandosi quindi l’abnormità dell’impugnata ordinanza che aveva determinato una irrimediabile stasi procedimentale, dal momento che la rinnovazione della notifica della citazione a giudizio non può che esser fatta con le stesse modalità di cui al menzionato art. 161, comma 4, già osservate.
In riferimento invece alla posizione di un altro, si osservava che, dalla lettura del verbale di identificazione, nomina del difensore ed elezione di domicilio, si traeva la conclusione secondo la quale difensore di ufficio eletto domiciliatario, a tal fine interpellato, aveva prestato il consenso alla domiciliazione, con la conseguenza che la notifica era stata correttamente eseguita presso di lui, a nulla rilevando che vi fosse anche una dichiarazione di domicilio da parte dell’imputato, osservandosi al contempo che il difensore, soltanto all’udienza, aveva rappresentato, contrariamente a quanto risultante dagli atti, di non essere stato interpellato ai fini della domiciliazione.
Ebbene, da ciò si addiveniva alla conclusione secondo la quale veniva ad essere, ancora una volta, l’abnormità dell’ordinanza impugnata, dal momento che il verbale di identificazione è atto pubblico fidefacente e pertanto la notifica della citazione a giudizio non poteva che essere nuovamente effettuata presso il domicilio eletto, che il giudice aveva ritenuto a torto non valido.

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2. Le questioni di diritto oggetto di contrasto

La Prima Sezione penale della Corte di cassazione, assegnataria del ricorso, lo rimetteva alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di contrasti su due questioni rilevanti ai fini della decisione.
Orbene, quanto alla prima questione, si trattava di appurare se fosse abnorme, in quanto avulso del sistema processuale e comunque idoneo a determinare la stasi del procedimento, il provvedimento del giudice del dibattimento dichiarativo della nullità della citazione a giudizio e, specificamente, il provvedimento con cui il giudice di pace dichiari la nullità dell’autorizzazione alla presentazione immediata dell’imputato ai sensi del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 20-bis per vizi inerenti alla notificazione, e disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero.
Invece, in riferimento alla seconda questione, si poneva il problema di stabilire se dovesse procedersi alla notificazione dell’atto introduttivo del giudizio ai sensi dell’art. 157, ed eventualmente dell’art. 159 c.p.p., o invece effettuarsi la notificazione allo stesso difensore ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4, nel caso in cui l’imputato abbia eletto domicilio presso il difensore di ufficio, quest’ultimo non abbia prestato assenso alla domiciliazione secondo quanto disposto dall’art. 162 c.p.p., comma 4-bis, e l’imputato non abbia provveduto a nuove e diverse elezioni di domicilio.
Ebbene, in ordine alla prima questione, si notava come l’orientamento nettamente prevalente si esprima per l’abnormità, e quindi per la ricorribilità per Cassazione, dell’ordinanza di restituzione degli atti al pubblico ministero in ragione della dichiarazione di nullità, per vizi della notificazione, dell’atto di citazione a giudizio.
In particolare, l’abnormità sussisterebbe a condizione che il vizio della citazione afferisca al procedimento di notificazione, perché solo in tali ipotesi la restituzione degli atti è pronunciata in violazione delle norme del codice di rito che, attribuiscono al giudice del dibattimento il potere di rinnovare la citazione e la sua notificazione (v. il combinato disposto dell’art. 484 c.p.p., comma 2-bis, art. 420-quater c.p.p., comma 1 e art. 420 c.p.p., comma 2) e rimane estranea al sistema determinando una indebita regressione del procedimento, fermo restando che tale assunto, fatto proprio già da Sez. U, n. 28807 del 29 /05/2002, era stato ribadito da numerose pronunce, e tra queste da Sez. 1, n. 43486 del 30/09/2021; Sez. 3, n. 28779 del 16/05/2018; Sez. 1, n. 43563 del 10/10/2013; Sez. 1, n. 5477 del 12/01/2010.
Del resto, detti principi, rilevava sempre la Sezione rimettente, sono stati applicati anche al procedimento dinnanzi al giudice di pace, e ciò a prescindere dalle modalità di instaurazione del giudizio, se quindi previste dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 20 o art. 20-bis (v. Sez. 1, n. 20772 del 04/03/2022).
Ciò posto, per un altro minoritario orientamento, invece, non è abnorme il provvedimento con cui si disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero in ragione della nullità del procedimento di notificazione del decreto di citazione, considerato del resto che tra le decisioni, che si sono indirizzate in tal senso, erano menzionate le seguenti: Sez. 2, n. 24633 del 17/07/2020, relativa ad un caso di omessa notifica del decreto di citazione al solo difensore; Sez. 6, n. 9571 del 16/10/2019, che si è occupata della nullità della citazione conseguente alla nullità della dichiarazione di irreperibilità, Sez. 1, n. 2263 del 14/05/2014, riguardante l’omessa traduzione nella lingua nota all’imputato alloglotto della elezione di domicilio presso il difensore di ufficio al quale è stata notificata la citazione a giudizio.
Le predette pronunce, d’altronde, hanno posto in premessa quanto statuito da Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, che ha escluso l’abnormità del provvedimento con cui il giudice del dibattimento, rilevata l’invalidità della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini di cui all’art. 415-bis c.p.p., invero regolarmente eseguita, dichiari erroneamente la nullità del decreto di citazione a giudizio disponendo la trasmissione degli atti al pubblico ministero.
Secondo la ricostruzione fatta propria dalle Sezioni Unite, invero, non possono essere qualificati “anomali” i provvedimenti che siano espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall’ordinamento e che non determinino la stasi del procedimento, come potrebbe dirsi in relazione al caso oggetto di ricorso, dal momento che il pubblico ministero, ricevuti gli atti, può disporre la rinnovazione della notificazione dell’atto irritualmente compiuto o omesso mentre, al contrario, se il provvedimento di restituzione degli atti imponesse all’organo di accusa, in adempimento dell’ordine giudiziale, di compiere un atto nullo, se ne dovrebbe predicare l’abnormità.
L’assunto conclusivo era dunque che l’illegittimità di un provvedimento non giustifica di per sé l’impugnabilità per abnormità, perché, se così fosse, si svuoterebbe di portata precettiva il principio di tassatività delle impugnazioni.
Ebbene, a fronte di ciò, si evidenziata quindi che, indipendentemente dalla correttezza o meno dell’applicazione dell’art. 143 disp. att. c.p.p., la restituzione degli atti è espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall’ordinamento processuale in stretta connessione con il potere di dichiarare la nullità, anche delle notificazioni, tenuto conto altresì del fatto che essa, peraltro, non determina la stasi del procedimento, posto che alla regressione può porsi rimedio con legittime attività propulsive del pubblico ministero.
In quest’ambito, del resto, precisava la Sezione rimettente, si collocano le pronunce che escludono l’abnormità delle ordinanze con cui il giudice di pace, rilevata la irritualità della notificazione della citazione a giudizio nelle forme della presentazione immediata ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 20-bis disponga la rinnovazione della notifica tramite la polizia giudiziaria con restituzione degli atti al pubblico ministero (Sez. 1, n. 30504 del 15/06/2010; Sez. 1, n. 180 del 01/12/2010; Sez. 1, n. 587 del 10/12/2010).
Si riteneva di conseguenza che il regresso per nullità dell’atto introduttivo, alla luce dei moduli procedimentali previsti dal D.Lgs. n. 274 del 2000, artt. 20-bis e 20-ter per il procedimento dinnanzi al giudice di pace, è fisiologico dal momento che la restituzione degli atti non costringe il pubblico ministero a procedere ad atti nulli e non produce alcuna irreversibile situazione di stallo.
Chiarito ciò, quanto invece alla seconda questione, la Sezione rimettente poneva in evidenza che, secondo alcune decisioni, ove il difensore d’ufficio non presti l’assenso alla domiciliazione, l’atto va comunque notificato al medesimo difensore in forza del disposto dell’art. 161 c.p.p., comma 4, per evitare che si determini una situazione di stallo non altrimenti superabile (in tal senso, Sez. 2, n. 27935 del 03/05/2019, e Sez. 2, n. 10358 del 14/01/2020).
Il rifiuto del difensore domiciliatario determina l’inidoneità del domicilio eletto e quindi determina la condizione per procedere alla notificazione mediante consegna di copia allo stesso (Sez. 5, n. 33882 del 04/05/2017).
Per un altro orientamento, invece, la soluzione appena prospettata finisce per rendere inoperante la disposizione dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis, eludendone la finalità, sicché, se il difensore non accetta la domiciliazione e l’imputato non provvede ad una nuova e diversa elezione di domicilio, si deve procedere mediante notifica secondo le disposizioni degli artt. 157 e 159 c.p.p. (Sez. 1, n. 17096 del 09/03/2021; Sez. 5, n. 325856 del 14/06/2022).
Pertanto, il mancato assenso del difensore presso il quale è eletto domicilio è causa, per le pronunce che hanno dato corpo a questo diverso indirizzo, dell’inefficacia della elezione, della sua radicale insussistenza e non già della inidoneità o della insufficienza della indicazione del domicilio, fermo restando che, in tal modo, la disposizione dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis, si inserisce coerentemente in un quadro normativo che rifugge da meccanismi presuntivi di conoscenza legati alla mera regolarità formale del procedimento di notificazione e garantisce “che l’assenza al processo dell’imputato sia ascrivibile ad una determinazione di rinuncia volontaria e non alle disfunzioni che possono crearsi nel rapporto professionale con un difensore di ufficio, destinatario di un’elezione di domicilio rifiutata e resa priva di efficacia”, in linea con le argomentazioni e il principio di diritto espresso da Sez., U, n. 23948 del 28/11/2019.

3. Notificazione dell’atto di citazione: la soluzione delle Sezioni Unite

Le Sezioni unite, prima di entrare nel merito delle questioni proposte, procedevano ad una loro individuazione nei seguenti termini: “se, nella vigenza della normativa antecedente il D.Lgs. n. 150 del 2022, qualora l’imputato elegga domicilio presso il difensore di ufficio e quest’ultimo non accetti la elezione, possa ugualmente effettuarsi la notificazione dell’atto di citazione a giudizio al medesimo difensore a norma dell’art. 161 c.p.p., comma 4, ovvero la stessa sia nulla, dovendo procedersi alla notificazione con le modalità di cui all’art. 157 ed eventualmente art. 159 c.p.p.”; “se il provvedimento con cui il giudice del dibattimento dichiari la nullità dell’atto di citazione a giudizio per vizi relativi alla sua notificazione e disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero sia abnorme, perché avulso dal sistema processuale e, comunque, idoneo a determinare la stasi del procedimento ovvero costituisca invece espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall’ordinamento processuale”.
Detto questo, ricostruito l’iter giudiziario da cui erano sorte le suddette questioni e il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento volto ad appurare la correttezza, o meno, della premessa sulla cui base la pubblica accusa ossia, come visto prima, se il verbale di identificazione è atto pubblico fidefacente e pertanto la notifica della citazione a giudizio non può che essere nuovamente effettuata presso il domicilio eletto, che il giudice aveva ritenuto a torto non valido, preso atto di come non fosse in discussione la vocazione di garanzia della disposizione di cui all’art. 162, co. 4-bis, c.p.p., per le Sezioni unite, però, si evidenziava come siffatto precetto normativo nulla dica su quali siano le conseguenze del mancato assenso del difensore alla domiciliazione.
Orbene, a fronte di ciò, ci si è così posto il quesito di quale sia la sorte dell’elezione di domicilio, se essa possa o no ricondursi alle ipotesi annoverate dall’art. 161 c.p.p., comma 4, e quindi possa essere assimilata alla mancanza o alla inidoneità o, ancora, alla insufficienza, con il corollario che la notificazione, non andata a buon fine per il mancato assenso del difensore, andrebbe rinnovata nelle forme della consegna di copia dell’atto allo stesso, epilogo questo che non si differenzia all’evidenza dalla modalità di notificazione fondata sull’elezione di domicilio e il cui mancato perfezionamento ha dato causa alla reiterazione delle operazioni di notifica.
Dunque, a proposito di tale problematica giuridica, il Supremo Consesso notava come alcune decisioni (Sez. 2, n. 10358 del 14/01/2020, e Sez. 2, n. 27935 del 03/05/2019) abbiano affermato il principio di diritto per il quale “in tema di elezione di domicilio effettuata dall’imputato presso il difensore d’ufficio, qualora quest’ultimo non accetti la veste di domiciliatario, come consentito dall’art. 162 c.p.p., comma 4-bis introdotto della L. 23 giugno 2017, n. 103, e l’imputato non provveda ad effettuare una nuova e diversa elezione di domicilio, si deve procedere comunque mediante notifica allo stesso difensore ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4, diversamente determinandosi una situazione di stallo non superabile”, evidenziandosi a tal fine evidenziato che l’onere dell’imputato, di conservare i rapporti con il domicilio eletto, ricorre anche nel caso in cui l’elezione sia fatta presso il difensore di ufficio, aggiungendo che, proprio attraverso l’indicazione del difensore quale domiciliatario, si instaura un rapporto che, seppure non equiparabile al mandato difensivo fiduciario, rivela l’esistenza di un legame di “pur contenuto affidamento fra l’indagato e il professionista”. Hanno quindi proseguito richiamando la giurisprudenza formatasi prima della novella del 2017, per la quale il rifiuto del difensore domiciliatario di ricevere l’atto rende l’elezione inidonea al fine con conseguente ricorso alla procedura di notificazione mediante consegna di copia al difensore, sia esso di fiducia o d’ufficio, a norma dell’art. 161 c.p.p., comma 4, (Sez. 5, n. 33882 del 04/05/2017; Sez. 1, n. 4783 del 25/01/2012; Sez. 4, n. 31658 del 20/05/2010; Sez. 5, n. 8825 del 20/06/1997), fermo restando che le medesime pronunzie hanno concluso per la persistente validità di questa impostazione interpretativa anche dopo l’introduzione nel sistema codicistico dell’art. 162, comma 4-bis, in forza del rilievo per il quale il procedimento, se si ritiene che il difensore dissenziente non possa ricevere la notificazione secondo il meccanismo succedaneo dell’art. 161 c.p.p., comma 4, entrerebbe in una situazione di stallo. In altri termini, il mancato assenso del difensore d’ufficio si sostanzierebbe nella inidoneità del domicilio eletto, secondo la previsione del menzionato art. 161, comma 4.
Altre decisioni (Sez. 5, n. 32586 del 14/06/2022, e Sez. 1, n. 17096 del 09/03/2021), all’opposto, hanno ragionato in modo tutt’affatto diverso, individuando nel contrario orientamento “una lettura inesatta e limitata del sistema processuale di garanzia delineato dal legislatore e dalla giurisprudenza di legittimità al fine di consentire all’imputato di essere consapevole del processo celebrato nei suoi confronti e, eventualmente, della scelta di non parteciparvi personalmente ma soltanto venendo rappresentato dal proprio difensore” (in tal senso Sez. 5, n. 32586 del 14/06/2022).
Secondo quanto argomentato dalla sentenza n. 17096 del 2021, la soluzione di far operare il meccanismo di cui all’art. 161 c.p.p., comma 4, nel caso di mancato assenso alla domiciliazione del difensore di ufficio, finisce con l’eludere le finalità di garanzia sottese alla disposizione introdotta dalla novella del 2017, rendendo sostanzialmente irrilevante il nuovo modulo con cui si perfeziona l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio.
Con l’attenzione rivolta all’ampia casistica di soggetti privi di difensore di fiducia e non in grado di indicare un luogo ove ricevere le notificazioni degli atti perché privi di fissa dimora, la sentenza appena citata ha osservato che l’inefficacia dell’elezione di domicilio va interpretata come insussistenza e non soltanto come inidoneità o insufficienza della stessa.
Se infatti si ammettesse che al mancato assenso del difensore alla domiciliazione possa seguire la notifica mediante consegna di copia dell’atto allo stesso difensore secondo il meccanismo di cui all’art. 161 c.p.p., comma 4, si cadrebbe nel sistema presuntivo di conoscenza degli atti, incentrato sulla mera regolarità formale del procedimento di notificazione, con sacrificio dell’esigenza di una informazione effettiva e della conseguente possibilità di procedere validamente in assenza dell’imputato.
L’unica soluzione sistematicamente coerente sarebbe che, in esito al mancato perfezionamento dell’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, si dia seguito alla rinnovazione del procedimento notificatorio secondo le disposizioni dell’art. 157 c.p.p., con eventuale possibilità di dichiarazione di irreperibilità ex art. 159 c.p.p. ove l’imputato non sia rintracciato nei luoghi indicati.
D’altronde, ha osservato la sentenza n. 32856 del 2022, la disposizione dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis, “si inserisce innegabilmente in un contesto normativo ed interpretativo orientato a garantire che l’assenza al processo dell’imputato sia ascrivibile ad una determinazione di rinuncia volontaria e non alle disfunzioni che possono crearsi nel rapporto professionale con un difensore d’ufficio, destinatario di un’elezione di domicilio rifiutata e resa priva di efficacia”.
Ne è prova, si può ora aggiungere, il percorso tracciato dalla giurisprudenza delle Sezioni unite che, dopo la citata sentenza n. 23948 del 2019, hanno chiarito che “e’ compito, dunque, del giudice della cognizione… accertare la rituale instaurazione del contraddittorio e la corretta costituzione del rapporto processuale, in modo da garantire che la mancata partecipazione dell’imputato sia ascrivibile alla conoscenza del processo e ad una determinazione volontaria, In dipendenza della ricezione personale dell’atto di citazione in giudizio, oppure, secondo l’elencazione dell’art. 420-bis c.p.p., comma 2, di situazioni definibili quali “indici di conoscenza”” (Sez. U, n. 15498 del 26/11/2020), ribadendosi al contempo la “centralità del diritto dell’imputato di partecipare al processo e di individuare le rigorose condizioni cui è subordinata la celebrazione del giudizio in assenza nella: a) certezza della conoscenza del processo, della data e del luogo fissati per il suo svolgimento; b) inequivocità della rinuncia a comparire nel giorno fissato”; e ciò perché “il procedimento in assenza, la cui disciplina costituisce il necessario punto di equilibrio tra pretesa della tutela punitiva statuale ed esigenza di garantire il diritto dell’imputato alla partecipazione al suo processo, è legittimo solo qualora vi sia certezza della conoscenza dell’accusa, della data e delle possibilità di accesso all’udienza da parte dell’imputato e vi sia stato a cura del giudice, inoltre, un rigoroso e non equivoco accertamento della volontà dell’interessato di sottrarsi al procedimento; in caso contrario il giudice deve disporre la sua traduzione al processo” (Sez. U, n. 7635 del 30/09/2021).
Orbene, per le Sezioni unite, la ricostruzione interpretativa da ultimo illustrata era senz’altro da preferire, prima ancora che per ragioni di coerenza sistematica di indubbia importanza, che sono state ben messe in chiaro dalle sentenze appena richiamate, per la sua piena rispondenza alle prescrizioni normative di riferimento.
In base all’art. 162 c.p.p., comma 4-bis l’elezione rimane priva di effetto in mancanza della ricezione, da parte dell’autorità giudiziaria procedente, unitamente alla dichiarazione di elezione, dell’assenso del difensore d’ufficio indicato come domiciliatario, non trattandosi, a ben leggere la disposizione, di una cessazione di effetti, quindi di una caducazione di efficacia prodottasi al momento della dichiarazione di elezione secondo il modulo del negozio giuridico processuale unilaterale non ricettizio.
Quanto ora regolato in riferimento alla specifica ipotesi della elezione presso il difensore di ufficio non può essere quindi assimilato alla generale categoria della elezione del domicilio che, secondo una risalente ricostruzione interpretativa, è un negozio giuridico processuale unilaterale, per la cui validità non è richiesta l’accettazione espressa da parte del domiciliatario, benché condizione necessaria, anche se implicita, della sua efficacia sia la sussistenza di un rapporto fiduciario fra questi ed il dichiarante.
Del resto, se si tenesse ferma questa premessa anche per il caso della elezione di domicilio presso il difensore di ufficio, si dovrebbe concludere che “in mancanza della tempestiva denunzia della insussistenza o della caducazione di tale rapporto, legittimamente le notifiche al dichiarante vanno eseguite nel domicilio eletto” e che “se il domiciliatario restituisce l’atto, dopo la sua regolare notificazione, questa si ha per avvenuta e produce i suoi effetti senza che possa attribuirsi valore a tale comportamento ai fini della dimostrazione della insussistenza originaria o sopravvenuta del rapporto fiduciario, anche perché la restituzione non equivale al rifiuto dell’atto e non può essere assunta come elemento indicativo della anteriorità della insussistenza o della caducazione del rapporto suddetto” (così Sez. 2, n. 2659 del 27/10/1969), ma ciò sarebbe in contrasto con la disposizione dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis, che, appunto, nega effetti alla dichiarazione di elezione se non accompagnata dall’assenso del difensore domiciliatario e dalla comunicazione di tale assenso all’autorità giudiziaria.
La produzione di effetti, per espressa previsione normativa, invero, è collegata non già alla sola dichiarazione di elezione, ma ad una fattispecie più ampia e complessa di cui anno parte anche l’atto di assenso del difensore indicato e il fatto della comunicazione dell’assenso all’autorità procedente.
Si è dunque, per la Corte di legittimità, di fronte ad una situazione processuale non assimilabile a quelle che l’art. 161 c.p.p. individua come presupposti per la notificazione mediante consegna di copia al difensore, ossia la insufficienza, la inidoneità o la mancanza della dichiarazione o della elezione di domicilio, o, ancora e in modo ancor più evidente, la mancanza della comunicazione del mutamento del domicilio dichiarato o eletto.
Insufficienza o inidoneità sono predicati del contenuto della dichiarazione o della elezione, atti di per sé produttivi di effetti mentre, per il caso in cui la incompletezza di una dichiarazione – che non necessita di altro per la sua conformità alla previsione di legge come atto produttivo di effetti – impedisca l’utile notificazione, il sistema stabilisce il rimedio della consegna di copia al difensore, sia di fiducia che di ufficio, fermo restando che, come specificato da Sez. U, n. 14573 del 25/11/2021, la dichiarazione o l’elezione di domicilio sono inidonee non solo quando è impossibile la notificazione nel luogo indicato, anche solo per mancato reperimento dell’imputato nel domicilio dichiarato o del domiciliatario nel domicilio eletto, ma anche quando, “per cause diverse dal caso fortuito e dalla forza maggiore, le stesse non sono “funzionali” ad assicurare il pronto ed efficace esito positivo dell’adempimento comunicativo” (in senso conforme si era già pronunciata Sez. U, n. 58120 del 22/06/2017).
D’altronde, lo stesso rimedio è predisposto nel caso in cui una dichiarazione o elezione di domicilio manchino e la mancanza sia ricollegabile, però, ad un comportamento dell’interessato di rifiuto espresso o tacito di indicare un domicilio, come si deve ritenere ponendo la necessaria attenzione a quanto disposto dall’art. 161 c.p.p., comma 1, in tema di avvisi da dare al sottoposto ad indagine e all’imputato, ove l’avvertimento che la notifica avverrà con consegna di copia al difensore si collega non già alla mancanza tout court di una pregressa dichiarazione o elezione quanto invece al rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, oltre che all’omessa comunicazione di ogni mutamento del domicilio (e anche alla inidoneità, originaria o sopravvenuta, del domicilio, come esplicitato dalla novella introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2022 che si è limitata a rendere normativamente espresso quanto già la giurisprudenza aveva ricavato dalla più sintetica disposizione previgente).
Dunque, per questa ragione, ad avviso della Suprema Corte, non potevano ricondursi alla mancanza di elezione a cui fa riferimento l’art. 161 c.p.p., comma 4, nella formulazione previgente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 150 del 2022, l’ipotesi di una elezione di domicilio non seguita dall’assenso del difensore di ufficio domiciliatario e, in generale, le ipotesi in cui la mancanza non sia caratterizzata dall’esistenza di un pregresso invito o sia giustificata da una assoluta indisponibilità di un domicilio.
Se pure il mancato completamento della fattispecie normativa per la mancanza di assenso del difensore di ufficio si risolva in una sostanziale mancanza di domicilio, non può trascurarsi che in tal caso – come peraltro ove l’omessa dichiarazione non sia qualificata da un pregresso invito dell’autorità – non si ha alcun comportamento omissivo dell’interessato, interpretabile come rifiuto di assumere un comportamento collaborativo indicando il domicilio per le notificazioni, perché una dichiarazione di elezione vi è stata e la sua inefficacia non è collegabile a omissioni, negligenze o trascuratezze dell’interessato.
Tra l’altro, la tesi della necessità di provvedere alla notificazione a norma dell’art. 157 c.p.p., sempre che l’indagato non abbia provveduto a una nuova dichiarazione o elezione di domicilio, si inserisce, altresì, in maniera coerente nella nuova disciplina delle notificazioni introdotta dal più volte citato D.Lgs. n. 150 del 2022.
Lungo una direttrice che attraversa le riforme degli ultimi anni, dalla previsione di una restituzione in termini per l’impugnazione del condannato contumaciale sul presupposto della mancata conoscenza del procedimento o del provvedimento (v. D.L. 21 febbraio 2005, n. 17, art. 1 convertito con modificazioni nella L. 22 aprile 2005, n. 60) all’introduzione del processo in assenza, difatti, l’ultima novella, nel rafforzare ulteriormente la garanzia della partecipazione dell’imputato al processo, dà conto della continuità logica tra i vari provvedimenti normativi e dà indirettamente sostegno a quelle soluzioni interpretative dell’assetto regolativo precedente di piena fedeltà al principio della effettiva conoscenza del processo.
In particolare, il nuovo art. 157-ter c.p.p. prescrive che la notificazione all’imputato non detenuto della vocatio in ius sia effettuata al domicilio dichiarato o eletto e che, in mancanza di esso, sia eseguita non già con consegna di copia al difensore, sia esso di fiducia che di ufficio, ma nei luoghi e con le modalità di cui all’art. 157 c.p.p., appunto mediante consegna di copia dell’atto all’interessato e, in via subordinata, presso la casa di abitazione o il luogo di esercizio abituale dell’attività lavorativa con consegna di copia, nell’un caso, alla persona convivente ovvero addetta alla casa o al servizio del destinatario o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci, e, nell’altro caso, al datore di lavoro o alla persona addetta al servizio del destinatario o ad una persona preposta alla ricezione degli atti o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci mentre, soltanto nei casi in cui la persona sottoposta alle indagini o l’imputato, regolarmente invitati a dichiarare o eleggere domicilio per la notificazione della citazione a giudizio e avvertiti dell’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio, da un lato, si rifiutino di dare corso alla dichiarazione o all’elezione e, dall’altro, omettano di comunicare i mutamenti del domicilio, la notificazione della citazione a giudizio sarà effettuata con consegna di copia al difensore, anche se di ufficio.
Emerge così, per gli Ermellini, una netta distinzione tra la mancanza di un domicilio dichiarato o eletto, a cui segue la notificazione della citazione a giudizio nelle forme di cui all’art. 157 c.p.p., e il rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio, che invece è seguito dalla notifica con consegna di copia al difensore anche di ufficio.
Se, in effetti, la nuova formulazione codicistica, in effetti, mette in evidenza quello che già prima era rilevabile, ossia che la mancanza di domicilio va individuata fuori dai casi in cui l’interessato, ritualmente avvisato, o abbia espressamente rifiutato o sia rimasto inerte senza null’altro prospettare in termini di impossibilità di effettuare la dichiarazione o l’elezione – ipotesi corrispondente alla forza maggiore -, concretizzando un rifiuto tacito, va da sé che la mancanza di domicilio deve essere individuata giocoforza, oltre che in caso di mancato pregresso invito alla dichiarazione o all’elezione, nelle ipotesi di indisponibilità di un domicilio, eventualmente anche per mancato assenso del difensore di ufficio alla domiciliazione, secondo quanto previsto dalla disposizione, mantenuta nel sistema normativo da ultimo modificato, dell’art. 162 c.p.p., comma 4-bis.
Infine, la Cassazione reputava meritevole segnalare che, secondo quanto previsto dall’ultima riforma, la notificazione di ogni altro atto che non sia la citazione a giudizio è fatta ordinariamente con consegna di copia dell’atto al difensore di fiducia o a quello nominato di ufficio, previo avviso che la polizia giudiziaria deve dare alla persona sottoposta alle indagini sin dal primo atto compiuto con il suo intervento.
Ove, però, detto avviso manchi e la prima notificazione sia avvenuta non a mani proprie o della persona convivente o del portiere o di chi ne fa le veci, le notificazioni successive non possono essere fatte al difensore se questi è stato nominato di ufficio, a dimostrazione, in questa ipotesi, del minor grado di affidamento in ordine alla sussistenza di effettivi rapporti con l’assistito, che possano far fondatamente ritenere la piena idoneità di tale forma di notificazione al fine della conoscenza effettiva dell’atto in capo al destinatario.
Le Sezioni unite, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, il seguente principio di diritto: “qualora l’imputato, nella vigenza della normativa antecedente il D.Lgs. n. 150 del 2022, elegga domicilio presso il difensore d’ufficio e quest’ultimo non accetti la elezione, la notificazione dell’atto di citazione va effettuata nelle forme previste dall’art. 157 ed eventualmente dall’art. 159 c.p.p., e non mediante consegna di copia al medesimo difensore a norma dell’art. 161 c.p.p., comma 4”.
Da quanto sin qui esposto emergeva quindi, per le Sezioni unite, l’infondatezza della impostazione di ricorso, secondo cui l’abnormità dell’ordinanza sarebbe conseguente all’impossibilità per il pubblico ministero di provvedere alla notificazione della citazione a giudizio in modo diverso dalla consegna di copia dell’atto al difensore, e di potersi astenere dall’adozione delle forme di notificazione che il giudice ha ritenuto esser causa di nullità.
Ciò nonostante, sempre ad avviso di tali Sezioni, occorreva però approfondire l’esame del tema, di centrale importanza ai fini della decisione, visto che l’ordinanza dibattimentale non e’ di per sé soggetta ad impugnazione, dato che la legge non prevede che lo sia; siccome, però, l’abnormità opera in deroga al principio di tassatività oggettiva delle impugnazioni, l’eventuale suo riscontro, al di là di quanto argomentato dal ricorrente, consentirebbe al ricorso di superare il vaglio di ammissibilità.
Premesso ciò, si notava prima di tutto che, con sentenza ormai risalente, le Sezioni Unite avevano già affrontato la questione ed hanno stabilito che “nel caso di nullità della notificazione del decreto di citazione o di inosservanza del termine stabilito dall’art. 552 c.p.p., comma 3, il giudice del dibattimento deve provvedere egli stesso a rinnovare la notifica, e non può disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero con un provvedimento che, determinando una indebita regressione del processo, si configurerebbe come abnorme” (Sez. U, n. 28807 del 29/05/2002)
Il vigente codice di rito, invero, ha fatto carico al giudice del dibattimento, onde evitare irragionevoli complicazioni e dispendiose regressioni, di rinnovare la notificazione del decreto di citazione, secondo quanto disposto dall’art. 143 disp. att. c.p.p. che già per la fase degli atti preliminari al dibattimento prescrive che il presidente ordini la rinnovazione della citazione o della notificazione, fermo rimanendo il dovere di disporla nel dibattimento, fermo restando che tale assetto regolativo vale, come chiarito dalle stesse Sezioni Unite, sia per il procedimento con udienza preliminare che per il procedimento a citazione diretta e dà attuazione al principio della ragionevole durata del processo, evitando l’ingiustificato prolungamento che si determinerebbe se i(giudice dovesse dichiarare la nullità del decreto di citazione e restituire gli atti al pubblico ministero, invece di impartire egli stesso gli opportuni provvedimenti, mediante la fissazione della nuova udienza, gli avvisi alle persone presenti e la rinnovazione delle notificazioni nulle.
Ebbene, su questa premessa, le Sezioni Unite avevano rilevato il carattere abnorme del provvedimento con cui il giudice del dibattimento, invece di provvedere direttamente, restituisca gli atti al pubblico ministero imponendogli di rinnovare la notificazione, precisando a tal fine che, se non può dar luogo ad abnormità, pur quando determinato da un errore del giudice, il provvedimento che determina la regressione dl procedimento in ragione della rilevazione di una nullità del decreto di citazione, in quanto è espressione dei poteri del giudice, altrettanto non può dirsi per quello che individui una nullità della notificazione del decreto (o la nullità per inosservanza del termine per comparire), dal momento che il codice di rito, diversamente da quello precedente, non annovera le nullità della notificazione tra quelle del decreto di citazione.
Il giudice del dibattimento non ha, dunque, per i giudici di piazza Cavour, il potere di restituzione degli atti al pubblico ministero in presenza di una nullità della notificazione, che lo obbliga a porre direttamente rimedio rinnovando, appunto, la notificazione, fatta eccezione del caso in cui, nei procedimenti a citazione diretta, il pubblico ministero abbia del tutto omesso la notificazione, dato che, ove ciò sia, la trasmissione degli atti al giudice del dibattimento avverrebbe in violazione dell’art. 553 c.p.p..
Dunque, siccome si è di fronte ad un difetto di potere, il provvedimento di restituzione degli atti si pone fuori del sistema determinando una indebita regressione, fermo restando che il difetto di potere che connota l’abnormità non equivale all’assenza radicale del potere decisorio a cui segue uno stato patologico dell’atto ben più grave come l’inesistenza; il difetto di potere che dà luogo ad abnormità si ha, piuttosto, quando la mancata previsione normativa riguarda una modalità espressiva del potere di decidere, inteso come attribuzione generale di potestà che non viene meno se una determinata modalità di esercizio non è normativamente contemplata e, comunque, consentita.
Ciò posto, gli Ermellini evidenziavano altresì come lungo questa direttrice si fosse sviluppata la successiva giurisprudenza di legittimità, essendovi state molte le pronunce, che hanno aderito alla posizione espressa dalle Sezioni Unite, affermandosi l’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero in conseguenza della rilevazione di una nullità afferente non alla citazione a giudizio, ma alla notificazione della stessa: Sez. 3, n. 28779 del 16/05/2018; Sez. 1, n. 43563 del 10/10/2013; Sez. 1, n. 5477 del 13/01/2010; Sez. 3, n. 35189 del 25/06/2009; Sez. 5, n. 12595 del 10/02/2006; Sez. 4, n. 4624 del 30/11/2004; Sez. 1, n. 41733 del 06/10/2004; Sez. 1, n. 29191 del 19/06/2003; Sez. 5, n. 22950 del 07/04/2003.
Pur tuttavia, nel tempo ha preso corpo, però, un altro indirizzo interpretativo, che ha trovato fondamento in una successiva pronuncia delle Sezioni Unite, la sentenza n. 25957 del 2009, in tema di dichiarazione di una nullità, se pure inesistente, del decreto di citazione a giudizio.
In effetti, secondo tale decisione, “non è abnorme il provvedimento con cui il giudice del dibattimento – rilevata l’invalidità della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini di cui all’art. 415-bis c.p.p., in realtà ritualmente eseguita – dichiari erroneamente la nullità del decreto di citazione a giudizio, disponendo la trasmissione degli atti al P.M., trattandosi di provvedimento che, lungi dall’essere avulso dal sistema, costituisce espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall’ordinamento e che non determina la stasi del procedimento, potendo il P.M. disporre la rinnovazione della notificazione del predetto avviso” (Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009).
Oltre a ciò, dopo aver ricordato che la categoria dell’abnormità presenta caratteri di eccezionalità nella misura in cui concretizza una deroga “al principio di tassatività delle nullità e dei mezzi di impugnazione”, le Sezioni Unite hanno altresì evidenziato che non è conforme al sistema dilatarne l’ambito applicativo per fronteggiare situazioni di illegittimità che si ritiene non altrimenti rimediabili, richiamandosi, come limite logico ad una espansione della categoria, i cd. vizi innocui, che si connotano per la sopravvenuta irrilevanza della anomalia in forza di un successivo provvedimento o di una situazione processuale che facciano venir meno la rilevanza del vizio originario.
Di vizi innocui, si evidenziava sempre in questa pronuncia, può parlarsi nei casi in cui il giudice abbia esercitato un potere che non gli spettava senza che si verifichi alcuna stasi processuale, se pure vi sia stata indebita regressione, perché le conseguenze del provvedimento anomalo sono rimediabili per mezzo di “attività propulsive legittime”.
L’applicazione di questi principi ai rapporti tra giudice e pubblico ministero, hanno quindi osservato codeste Sezioni, limita l’ipotesi di abnormità strutturale al caso di esercizio di un potere non attribuito dall’ordinamento o di deviazione del provvedimento “dallo scopo di modello legale, nel senso di esercizio di un potere previsto (…) ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge e cioè completamente al di fuori dei casi consentiti…”.
All’opposto, in funzione di limite all’abnormità funzionale, rinvenibile nel caso di stasi del processo o di impossibilità di prosecuzione, opera invece il criterio per il quale essa ricorre solamente quando il provvedimento del giudice imporrebbe al pubblico ministero un adempimento che si risolva in un atto nullo, rilevabile nel futuro corso del procedimento ma, fuori da questa ipotesi, il pubblico ministero deve osservare il provvedimento del giudice, se pure esso sia illegittimo, senza poter invocare il sindacato di abnormità.
Ebbene, data questa ridefinizione in senso restrittivo dei confini dell’abnormità, varie pronunce hanno preso le distanze dal principio di diritto fissato dalla sentenza n. 28807 del 2002 delle Sezioni Unite e hanno così stabilito che “non è affetto da abnormità il provvedimento con cui il tribunale, accertata la nullità della notifica all’imputato del decreto di citazione per pregressa nullità della dichiarazione di irreperibilità, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero, in quanto lo stesso non si pone al di fuori del sistema processuale, costituendo esercizio di un potere riconosciuto al giudice dall’ordinamento, e non determina un’indebita regressione o un’irrimediabile stasi del procedimento” (Sez. 6, n. 9571 del 16/10/2019).
O, ancora, che “non è abnorme il provvedimento con il quale il giudice del dibattimento, rilevata l’omessa notifica al difensore del decreto di citazione a giudizio, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero perché vi adempia, poiché detto provvedimento, indipendentemente dalla corretta o meno applicazione dell’art. 143 disp. att. c.p.p., è comunque espressione dei poteri riconosciuti al giudice e non determina la stasi del procedimento, ben potendo il pubblico ministero rinnovare la notificazione dell’avviso. (In motivazione, la Suprema Corte ha sottolineato che l’illegittimità di un provvedimento non giustifica di per sé la sua impugnabilità in nome della categoria dell’abnormità, che altrimenti si risolverebbe in un agevole “escamotage” per “bypassare” il disposto dell’art. 568 c.p.p.)” (Sez. 2, n. 24633 del 17/07/2020).
E, in modo ancor più marcato, che “non è abnorme il provvedimento con cui il giudice del dibattimento, dopo aver rilevato la nullità della notificazione dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. e del decreto di citazione a giudizio limitatamente a uno degli imputati, dispone erroneamente la restituzione degli atti al pubblico ministero anche con riferimento alla posizione degli altri coimputati, in quanto l’abnormità deve essere limitata ai casi di provvedimenti che impongono al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo, rilevabile nel successivo corso del processo, mentre, al di fuori di tale ipotesi, la parte pubblica è tenuta ad osservare i provvedimenti emessi dal giudice, ancorché illegittimi” (Sez. 5, n. 15779 del 16/01/2023).
In tutti questi casi, come peraltro in quello a cui era riconducibile la vicenda oggetto di ricorso, rilevavano le Sezioni unite nella pronuncia qui in commento, le decisioni, che avevano corpo all’orientamento ispirato dalla sentenza n. 25957 del 2009, affermarono che il provvedimento di restituzione può pure essere adottato in difetto di potere ma denotarono, in replica, che quel che assume rilievo centrale è che il pubblico ministero ben può reiterare l’attività propulsiva senza incorrere nella nullità di alcun atto, sì da scongiurare la stasi o immediatamente rimediare alla indebita regressione.
Pur tuttavia, per le Sezioni unite, la soluzione fatta propria da tale ultimo, minoritario, orientamento non poteva essere accolta e va pertanto confermato il principio di diritto fissato dalla sentenza n. 28807 del 2002 in punto di abnormità del provvedimento con cui il giudice, a fronte di una nullità della notificazione della citazione, restituisca gli atti al pubblico ministero invece che provvedere egli stesso a far rinnovare la notificazione.
Per la Corte di legittimità, invero, occorreva mettere subito in chiaro che non è innanzitutto contestabile che il giudice, nel rilevare la nullità della notificazione, sia essa pure inesistente, non possa mai dare luogo ad un provvedimento abnorme, e ciò in applicazione de principio di diritto enunciato anche dalla sentenza n. 25957 del 2009, secondo cui non è abnorme l’atto che sia espressione di un potere riconosciuto al giudice dall’ordinamento.
Non è dunque in discussione, per gli Ermellini, il provvedimento che abbia dichiarato la nullità delle notificazioni, a nulla rilevando a tal fine che le nullità siano invero esistenti mentre, invece, sempre a loro avviso, l’attenzione va riposta sul conseguente provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero, che rinviene il presupposto nella dichiarazione di nullità.
Il dato dirimente, invece, per la Corte, che impedisce di ravvisare nella sentenza n. 25957 del 2009 un cambio di direzione rispetto alla sentenza n. 28807 del 2022, è che, quando la nullità rilevata attiene alla notificazione della citazione a giudizio, il provvedimento di restituzione degli atti è adottato in chiaro difetto di potere, per la semplice ragione che l’ordinamento processuale, siccome conferisce al giudice il potere di rinnovazione della notifica, al contempo e per necessità logica non può che privarlo del potere di restituzione degli atti all’organo di accusa.
Ed è proprio secondo le indicazioni offerte anche dalla sentenza n. 25957 che il provvedimento di restituzione degli atti, nell’ipotesi indicata, può dirsi abnorme, perché emesso in difetto di potere.
Quando è l’attribuzione a mancare, ha chiarito la sentenza appena citata, difetta “il legittimo esercizio della funzione giurisdizionale”, con la conseguenza obbligata dall’abnormità del provvedimento.
Il provvedimento di regressione in caso di nullità della notificazione della citazione a giudizio rientra, dunque, per la Corte di legittimità, nell’area della abnormità strutturale, perché il giudice esercita un potere che non gli è dato, o meglio esercita una attribuzione completamente al di fuori dei casi consentiti, perché il potere, espressamente concessogli, di rinnovare la notificazione implica che il generale potere di disporre la regressione in caso di nullità afferente ad un atto propulsivo non gli e’, in tale situazione, riconosciuto.
Del resto, quanto argomentato dalla sentenza n. 25957 del 2009, in tema di abnormità funzionale, e specificamente che non si ha atto abnorme se il pubblico ministero può adempiere gli incombenti imposti dal giudice e far progredire il processo senza incorrere in alcun atto nullo, non può valere al fine di negare l’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti per nullità della notificazione della citazione a giudizio.
Difatti, è pur vero che abnormità strutturale e abnormità funzionale si saldano (come statuito dalla sentenza da ultimo richiamata) all’interno di un fenomeno unitario incentrato sulla carenza di potere provvedimentale, e però la distinzione tra le due figure persiste e non giustifica la trasposizione nell’una sottocategoria di precisazioni e aggiustamenti calibrati sulla specificità dell’altra dato che va chiarito che l’abnormità funzionale apre ad una indagine sull’atto che si giustifica se non si sia già in grado di cogliere i caratteri dell’abnormità strutturale per carenza di potere in astratto o anche solo in concreto quando il potere è esercitato in assenza delle condizioni legislativamente poste.
Dunque, di fronte ad un provvedimento che causi la stasi processuale, se non si è in grado di individuare le specifiche ragioni normative di un difetto di potere, occorre interrogarsi, facendo leva proprio sul carattere eccezionale dell’istituto, per verificare, prima di fare ricorso all’impugnazione per abnormità, se il sistema accordi altri rimedi, fermo restando che, se altri rimedi sono possibili, ciò significa che l’ordinamento, pur non regolando la modalità espressiva del potere il cui esercizio ha dato luogo alla stasi, non la disconosce, tanto da aver in sé gli strumenti per fronteggiarla.
Viceversa, quando, di contro, non si rinvengono altre vie per porre rimedio all’esercizio di un potere non regolato, neanche implicitamente, dal sistema, perché se il pubblico ministero desse impulso al processo incorrerebbe in un atto nullo, non può che configurarsi l’abnormità di tipo funzionale che, in fondo, è essa stessa rivelatrice di un difetto di potere in capo al giudice che ha emesso l’atto, perché quell’atto, seppure riconducibile in astratto ad una previsione di legge, nella concretezza della singola vicenda si rivela radicalmente incompatibile con la progressione processuale e quindi con la destinazione funzionale che gli è propria.
In tal senso può convenirsi quindi, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, con l’affermazione dottrinale che nega all’abnormità funzionale autonomia rispetto a quella strutturale, spiegando che essa sta esclusivamente ad indicare le conseguenze, sul piano processuale, dell’emissione di un atto abnorme, così come allo stesso modo non può essere invocato, per escludere il carattere abnorme del provvedimento di restituzione degli atti, l’assunto della sentenza n. 25957 del 2009 per il quale la regressione del procedimento non dà luogo ad un atto abnorme, perché l’esercizio legittimo dei poteri del giudice, come quelli di rilevazione di una nullità pur quando inesistente, ben può comportare la regressione senza che il pubblico ministero possa fare ricorso in violazione del principio di tassatività delle impugnazioni.
Il principio, per il quale “se l’atto del giudice è espressione di un potere riconosciutogli dall’ordinamento, si è in presenza di un regresso consentito, anche se i presupposti che ne legittimano l’emanazione siano stati ritenuti sussistenti in modo errato”, è stato dettato con specifico riferimento alla regressione conseguente alla rilevazione di una nullità, perché il potere di rilevare le nullità spetta al giudice, a prescindere dal fatto che nel concreto la nullità dichiarata sia insussistente.
Tale principio, però, non confligge con quanto in precedente affermato da Sez. U n. 28807 del 2002.
Secondo le statuizioni della sentenza appena citata, infatti, occorre pur sempre tenere distinte le ipotesi di regresso tipico (previsto dalla legge), regresso illegittimo (per cattivo esercizio del potere) e regresso fonte di abnormità, in quanto atipico e conseguente ad un atto compiuto in carenza di potere.
Come correttamente osservato da Sez. U, n. 37502 del 28/04/2022, del resto, sempre questa sentenza n. 28807 ha inteso ridimensionare la perentoria conclusione a cui poco prima erano giunte in tema di indebita regressione Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007, che avevano incentrato l’abnormità sull’alterazione della ordinata sequenza procedimentale, muovendo dalla considerazione del caso in cui il giudice dell’udienza preliminare, a fronte di una imputazione generica, restituisca ex abrupto gli atti al pubblico ministero senza previa attivazione del rimedio correttivo costituito dall’invito a procedere alle necessarie integrazioni.
La sentenza n. 5307 del 2007, tra l’altro, aveva concluso che ogni indebita regressione determina una violazione dell’ordo processus, inteso come sequenza logico-cronologica ordinata di atti, in contrasto con i principi dell’efficienza e della ragionevole durata del processo.
A questa impostazione, che avrebbe potuto condurre ad una eccessiva dilatazione dell’area dell’abnormità, ha replicato la sentenza n. 25957 del 2009, escludendo la possibilità “di riconoscere automaticamente valore sintomatico alla regressione del procedimento” (così la sentenza n. 37502 del 2022).
Ebbene, sia pure alla luce di questo opportuno ridimensionamento dell’area dell’abnormità, per le Sezioni unite, non può negarsi che, nel caso della restituzione degli atti al pubblico ministero per nullità della notificazione della citazione a giudizio, il regresso è disposto in carenza di potere, perché al giudice spetta il potere di rinnovare la notificazione e gli è tacitamente preclusa la modalità di esercizio della potestà decisoria che alla dichiarazione di nullità fa seguire l’ordine di restituzione degli atti al pubblico ministero e quindi la regressione.
Ad ogni modo, quanto affermato dalla sentenza n. 25957 del 2009, in punto di limiti alla rilevazione di abnormità correlati al potere del pubblico ministero di dare impulso al processo senza compiere un atto nullo vale, per la Corte di legittimità, con riguardo alle regressioni illegittime, frutto di un cattivo esercizio del potere: ad esempio, per restare ancorati al tema intorno al quale si è articolata la distinzione, quando il giudice erra nella rilevazione della nullità di un atto propulsivo e conseguentemente dispone la regressione che, invero, non avrebbe dovuto pronunciare mentre essa non può, invece, operare in funzione di una restrizione dell’area dell’abnormità strutturale, ossia quando la regressione è disposta in carenza di potere.
Ebbene, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, le Sezioni unite postulavano il seguente principio di diritto: “il provvedimento con cui il giudice del dibattimento dichiari la nullità dell’atto di citazione a giudizio per vizi relativi alla sua notificazione e disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero è abnorme, perché avulso dal sistema processuale”.
Ciò nonostante, per siffatte Sezioni, del principio appena affermato non poteva essere fatta applicazione nel caso oggetto del ricorso, che presentava specificità meritevoli di considerazione.
Il Giudice di pace di Livorno, difatti, aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero dopo aver rilevato una nullità della notificazione non già della citazione a giudizio di cui al D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 20 del tutto assimilabile agli atti di citazione del procedimento dinnanzi al tribunale, quanto della richiesta della polizia giudiziaria all’autorizzazione alla presentazione immediata a giudizio e del conseguente provvedimento del pubblico ministero di autorizzazione, secondo la previsione dell’art. 20-bis dello stesso D.Lgs., che regola un caso tutt’affatto particolare rispetto alla ordinaria citazione a giudizio, essendone conferma di ciò la disposizione del successivo art. 29, comma 3, ove si prescrive che “nei casi in cui occorre rinnovare la convocazione o la citazione a giudizio ovvero le relative notificazioni, vi provvede il giudice di pace, anche di ufficio”, non facendosi menzione della particolare forma di introduzione del giudizio costituita dall’autorizzazione alla presentazione immediata, fermo restando che detta disposizione fa riferimento soltanto a due modalità di citazione a giudizio.
In particolare, l’oggetto di richiamo sono l’atto di convocazione, con cui il giudice di pace provvede alla citazione delle parti a seguito del ricorso immediato proposto dalla persona offesa ai sensi degli artt. 21 e ss. e specificamente dell’art. 27; e l’atto di citazione, disciplinato all’art. 20, che rientra tra le attribuzioni del pubblico ministero, secondo il modulo procedimentale proprio della citazione diretta dinnanzi al tribunale.
Ciò posto, l’art. 29, comma 3, non fa, invece, menzione della autorizzazione alla presentazione immediata, ossia dell’atto con cui il pubblico ministero introduce un rito con spiccati caratteri di specialità, fermo restando che l’omesso riferimento, a questa forma di esercizio dell’azione penale dinnanzi al giudice di pace, è tutt’altro che una svista: sussistono, infatti, fondate ragioni per escludere che possa estendersi al rito introdotto dalla presentazione immediata dell’imputato la disposizione che riconosce al giudice di pace il potere di rinnovazione della citazione e della sua notificazione, rilevandosi al contempo come non vada trascurato che la disposizione dell’art. 29, comma 3, non è richiamata dall’art. 32-bis successivo, al cui comma 1 si stabilisce che “nel corso del giudizio a presentazione immediata di cui all’art. 20-bis (e 20-ter) si osservano le disposizioni dell’art. 32”.
L’art. 32, a sua volta, regola la fase del dibattimento e non contiene alcun cenno al potere del giudice di rinnovazione della citazione e della sua notificazione, con la conseguenza che il mancato riferimento all’art. 29, comma 3, offre un ulteriore argomento per escludere che nel giudizio a presentazione immediata il giudice possa provvedere in tal senso.
Orbene, per le Sezioni unite, l’abnormità dell’ordinanza con cui il giudice di pace, a fronte della irrituale notificazione della citazione a giudizio ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2002, art. 20-bis restituisca gli atti al pubblico ministero per la rinnovazione dell’incombente, è stata esclusa da Sez. 1, n. 30504 del 15/06/2010, con argomenti reputati condivisibili pure in questa occasione.
Infatti, se allora si era messo in evidenza che il modulo procedimentale, di cui al menzionato art. 20-bis (come del resto quello di cui al successivo art. 20-ter), riproduce il modello del giudizio direttissimo e, dunque, in luogo della citazione a giudizio ad opera del pubblico ministero, si ha, in ragione della flagranza di reato o della evidenza della prova, la richiesta di presentazione immediata proveniente dalla polizia giudiziaria e la conseguente autorizzazione del pubblico ministero alla presentazione nei successivi quindici giorni, che devono essere notificate senza ritardo all’imputato e al difensore nominato, nessun termine dilatorio è previsto a favore dell’imputato; i testimoni, la persona offesa e i consulenti possono essere citati oralmente in corso di giudizio e presentati direttamente in dibattimento; l’imputato può chiedere un termine a difesa non superiore a sette giorni (D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 32-bis), fermo restando che, da un lato, al pari di quanto avviene per il giudizio direttissimo, l’instaurazione del giudizio ex art. 20-bis, che rappresenta una modalità alternativa di esercizio dell’azione, si ha soltanto per mezzo della presentazione immediata, o meglio per mezzo della notificazione all’imputato della richiesta della polizia giudiziaria e della autorizzazione del pubblico ministero, dall’altro, la ragione di tale assetto della disciplina è che il procedimento ex art. 20-bis costituisce una modalità alternativa di esercizio dell’azione penale “connotata da drastica riduzione dei termini per la difesa e da profonda alterazione delle cadenze per l’articolazione e l’assunzione delle prove” (Sez. 1, n. 25815 del 12/05/2015).
Si ha allora, per la Corte di legittimità, che il giudizio speciale ex art. 20-bis non può dirsi validamente instaurato in assenza della presentazione immediata attraverso la notificazione, al pari di quanto avviene per il giudizio direttissimo, che non può dirsi validamente introdotto quando l’imputato in stato di libertà non sia stato citato, ad esempio per esser stata la citazione notificata presso il difensore invalidamente eletto domiciliatario (Sez. 1, n. 17706 del 20/04/2010), con l’ulteriore conseguenza di una siffatta condivisa impostazione è che, siccome difettano i presupposti di corretta instaurazione, il giudice non può dare comunque corso al giudizio esercitando il potere di rinnovare la notificazione della citazione secondo la previsione di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 29, comma 3, e il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero non può dirsi abnorme, considerato altresì che questa ricostruzione della disciplina del procedimento per presentazione immediata dinnanzi al giudice di pace è stata poi ribadita da Sez. 1, n. 180 del 01/12/2010, dep. 2011, secondo cui, appunto, “non è abnorme l’ordinanza dibattimentale con la quale il giudice cli pace, nel rito a presentazione immediata a norma dell’art. 20-bis, rilevando la mancanza dell’atto di citazione a giudizio immediato e della notifica all’imputato, disponga la restituzione degli atti al pubblico ministero”.
Il giudice di pace che, a fronte di un vizio della notificazione della richiesta e dell’autorizzazione alla presentazione immediata, restituisce gli atti al pubblico ministero, esercita, quindi, un potere che inequivocamente gli spetta, ossia quello di controllare che sussistano i presupposti per l’instaurazione del giudizio speciale, sicché l’atto di restituzione è emesso debitamente e il regresso causato è un regresso tipico.
Ebbene, per quanto sin qui esposto, era infine enunciato l’ulteriore principio di diritto: “non è abnorme il provvedimento con il quale il giudice di pace, ritenuta la nullità della notificazione della citazione a giudizio nelle forme della presentazione immediata a norma del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 20-bis disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero per la rinnovazione della notificazione stessa”.
Le ragioni espresse per escludere il carattere abnorme del provvedimento adottato dal Giudice di pace giustificavano quindi, per le Sezioni unite, la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, per l’ovvia ragione che, in assenza di abnormità, non poteva predicarsi l’impugnabilità dell’ordinanza oggetto di ricorso.

4. Conclusioni

Con la decisione in esame le Sezioni unite affrontano diverse tematiche giuridiche afferenti la notificazione dell’atto di citazione.
Difatti, a fronte delle questioni prospettate in sede di rimessione, ossia se, nella vigenza della normativa antecedente il D.Lgs. n. 150 del 2022, qualora l’imputato elegga domicilio presso il difensore di ufficio e quest’ultimo non accetti la elezione, possa ugualmente effettuarsi la notificazione dell’atto di citazione a giudizio al medesimo difensore a norma dell’art. 161 c.p.p., comma 4, ovvero la stessa sia nulla, dovendo procedersi alla notificazione con le modalità di cui all’art. 157 ed eventualmente art. 159 c.p.p., e se il provvedimento con cui il giudice del dibattimento dichiari la nullità dell’atto di citazione a giudizio per vizi relativi alla sua notificazione e disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero sia abnorme, perché avulso dal sistema processuale e, comunque, idoneo a determinare la stasi del procedimento ovvero costituisca invece espressione dei poteri riconosciuti al giudice dall’ordinamento processuale, queste Sezioni hanno formulato i seguenti principi di diritto: 1) qualora l’imputato, nella vigenza della normativa antecedente il D.Lgs. n. 150 del 2022, elegga domicilio presso il difensore d’ufficio e quest’ultimo non accetti la elezione, la notificazione dell’atto di citazione va effettuata nelle forme previste dall’art. 157 ed eventualmente dall’art. 159 c.p.p., e non mediante consegna di copia al medesimo difensore a norma dell’art. 161 c.p.p., comma 4; 2) il provvedimento con cui il giudice del dibattimento dichiari la nullità dell’atto di citazione a giudizio per vizi relativi alla sua notificazione e disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero è abnorme, perché avulso dal sistema processuale; 3) non è abnorme il provvedimento con il quale il giudice di pace, ritenuta la nullità della notificazione della citazione a giudizio nelle forme della presentazione immediata a norma del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 20-bis disponga la trasmissione degli atti al pubblico ministero per la rinnovazione della notificazione stessa.
Tali principi di diritto, pertanto, devono essere presi nella dovuta considerazione ogni volta occorra verificare, in siffatte situazioni, se la notificazione dell’atto di citazione sia stata correttamente eseguita (in relazione al criterio ermeneutico di cui al punto 1) o il provvedimento emesso dal giudice possa reputarsi abnorme (o meno) (a proposito dei criteri ermeneutici di cui ai punti 2 e 3).
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su siffatte tematiche procedurali sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere che positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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