Le strategie difensive del lavoratore, nel processo, a fronte dell’esercizio dei poteri datoriali: le eccezioni di discriminazione e/o di ritorsione

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E’ ricorrente e anche comprensibile, che in questo periodo di crisi le imprese cerchino di risparmiare sui costi, anche del personale. Le imprese possono procedere o a una riduzione tout court del personale o a una riorganizzazione che consenta, con miglioramenti nei processi produttivi o l’introduzione di nuovi macchinari più avanzati ,di meglio utilizzare il personale ,anche in questo caso con riduzione della forza lavoro. Nel corso di queste operazioni di riorganizzazione si possono seguire varie metodologie: eliminare quei compiti che risultino superflui, distribuire fra più lavoratori le mansioni già assegnate a un dipendente, accorpare mansioni similari affidandole ad un solo lavoratore, esternalizzare il lavoro(1) .Ciò comporta ovviamente l’individuazione del personale in esubero e soppressione di posti di lavoro. Non di rado in tali circostanze il lavoratore interessato invoca la discriminazione o la ritorsione al fine di ottenere l’annullamento del licenziamento o ,nel caso di accoglimento nel merito del licenziamento, quanto meno la ricollocazione in altra posizione.
Ma non solo, anche in presenza di altre situazioni (licenziamenti disciplinari ,trasferimenti di sede di lavoro, demansionamenti etc.) l’atto datoriale viene contestato, oltre che nel merito, anche allegando di essere stati vittime di discriminazione o di un atto ritorsivo.
Anche nel processo all’esame dal lavoratore si adduce di essere stato oggetto di ritorsione/discriminazione. Il Giudicante constata la discrepanza (vedi infra) e , dopo avere valutato i comportamenti aziendali nei confronti del lavoratore,ritenuti inidonei a supportare l’assunto dello stesso, conclude nel senso che <la domanda volta alla declaratoria di ritorsività del licenziamento deve quindi essere respinta>.Viene richiamato nel testo della sentenza un filone giurisprudenziale che ritiene l’assimibilità del licenziamento per ritorsione a quello discriminatorio o che il licenziamento per ritorsione possa rientrare in forza di interpretazione estensiva nel licenziamento discriminatorio ( vedi infra tale giurisprudenza).Comunque ,confermando l’ordinanza emessa ex legge n.92/2012,il giudice ha ritenuto non proporzionato il licenziamento alle mancanze contestate applicando il comma 5 dell’art.18 ( come modificato dalla predetta legge n.92/2012).
Cercheremo a questo punto di fare chiarezza sui due istituti in gioco.
Tocca quindi al giudicante preliminarmente esaminare queste eccezioni in sede di processo.
Si deve in primis ,dall’esegeta, procedere ad una operazione di identificazione delle nozioni di discriminazione e di ritorsione, definendone gli esatti confini. Si sente espressa questa esigenza di meglio delineare i due istituti nel testo della sentenza in oggetto là dove negando spazio ad una ulteriore istruttoria in aggiunta ai dati già acquisiti al processo il giudice aggiunge “(e ciò anche a voler prescindere dalla non sovrapponibilità dei concetti di discriminatorietà e ritorsività che in ricorso sono richiamati come se fossero un unicum)”.
Mentre la discriminazione ha una sua definizione legislativa la ritorsione è istituto di costruzione giurisprudenziale.
Sul divieto di discriminazione.
Orbene il divieto di discriminazione ha avuto una importante evoluzione legislativa.
Tale divieto affonda le sue radici nella costituzione. Infatti nel nostro ordinamento giuridico il principio di parità è stato introdotto dall’art.3 della Costituzione promulgata il 27 dicembre 1947,norma generale, che affermava la parità formale e sostanziale:<tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso di razza, di lingua,di religione, di opinioni politiche,di condizioni personali e sociali>.In particolare, nella materia che ci interessa, l’art.37 Cost. prevedeva che <la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore>.Nel periodo intercorrente tra fine anni ‘40 e il decennio del ’70 la copertura antidiscriminatoria era affidata alla norma costituzionale in considerazione della sua natura precettiva o programmatica ,comunque di immediata applicabilità, secondo il principio affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 1 del 5-14 giugno 1956 .
Successivamente, nel campo del lavoro, la legge 9 dicembre 1977 n.903 sanciva (come dal titolo) la “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro “ e nell’art.13 modificava l’art.15 della l.20 maggio 1970,n.300 sostituendone l’ultimo comma con un testo che suonava<le disposizioni di cui al comma precedente [ che stabiliva la nullità della discriminazione sindacale] si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica,religiosa[ queste due presenti nel testo originale] ,razziale, di lingua o di sesso> e quindi la legge 10 aprile 1991 n.125 intitolata “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”. Entrambi tali testi sono stati praticamente trasfusi nel D.Lgs.n.151,Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità e nel D.lgs.n198 /2006 Codice delle pari opportunità tra uomo e donna. Di particolare importanza è l ‘ art.3 l.108 del 1990 [“Licenziamento discriminatorio 1. Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, e’ nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300……..]
Negli anni successivi venivano emanate le norme comunitarie antidiscriminatorie: per quanto concerne il sesso la direttiva 2006/54/CE ( che sostituiva le precedenti direttive) recepita con D.lgs.5 /2010,per la razza e la origine etnica direttiva 2000/43/CE recepita con D.lgs. 215/2003, per la religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale direttiva 2000/78/CE recepita con D.lgs. 216 /2003, tali ultimi due decreti modificati da l. n.101/2008.
Dal quadro esposto deriverebbe una “ tipizzazione” delle discriminazioni.
Ma. ,come sù accennato e rilevato dal giudice di Genova, la Cassazione ha sancito che” Il divieto di licenziamento discriminatorio – sancito dall’art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall’art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall’art. 3 della legge n. 108 del 1990 – è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia” (Cass. sez. L, 18 marzo 2011, n. 6282) e ritiene anche che :” Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta [sia] assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 …” (Cass. sez. L, 8 agosto 2011, n. 17087).
Bisogna aggiungere che la discriminazione prescinde dall’intento soggettivo( v. Cass. 5 aprile 2016 n.6575 Pres Roselli Rel. Spena ,che parla apertamente “ [di[ equivoco che nasce dalla assimilazione del licenziamento discriminatorio al licenziamento ritorsivo” e più avanti precisa che “la nullità derivante dal divieto di discriminazione discende .. direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, senza passare attraverso la mediazione dell’art.1345 cc”..).
Al riguardo ricordiamo che il divieto di discriminazione beneficia di regime probatorio agevolato che è in oggi previsto dall’art. 28 del decreto legislativo n.150 del 1 settembre 2011; per le pari opportunità vige,- v . art. 40 D.lgs 198/2006- una parziale inversione dell’onere della prova.
Ora, se certamente le discriminazioni tipizzate possono avvalersi di tale regime, ci domandiamo se in forza di tale estensione, operata dal sù richiamato orientamento della Suprema Corte , possano beneficiarne anche la ritorsione e le altre possibili discriminazioni non tipizzate o dovranno sottostare al regime probatorio generale
Da ultimo conviene accennare che le molestie sessuali seguono la disciplina legale della discriminazione ( v. art 26 D.lgs. n.198/2006, v. pure Cassazione 15 novembre 2016 n. 23286 Pres.Venuti, Rel.Manna, che tra l’altro utilizza la prova statistica).

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Sulla ritorsione

La nozione di ritorsione è stata elaborata dalla giurisprudenza.
Il Tribunale richiama Cass. sez. L. 18 marzo 2011 n.6282: “il licenziamento per ritorsione o rappresaglia […] costituisce […] l’ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa.” e anche Cass. 8 agosto 2011 n.17087:” il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta …….. costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione”.
La giurisprudenza assimila il motivo ritorsivo al motivo illecito di cui all’art 1345 c.c. applicabile agli atti unilaterali in forza dell’art.1324 c.c. . richiedendo per l’annullamento dell’atto datoriale che sia l’unico determinante.(2)
La fattispecie ritorsiva e’ quindi composta di due elementi a) il comportamento (legittimo) del lavoratore oggetto di ritorsione e b) il comportamento ritorsivo del datore di lavoro ( illegittimo) .La causa della ritorsione, sarebbe consistita, nel caso che ci occupa, nel fatto che il ricorrente fruiva dei permessi ex legge/92 n,104 nonché nel suo ruolo all’interno del sindacato .Il comportamento ritorsivo, a parere del giudice ,non sarebbe esistito :” non si può, quindi. affermare che sia emerso alcun intento discriminatorio nel comportamento assunto da una società che, nel corso degli anni, si è limitata a sollevare contestazioni disciplinari per comportamenti che il lavoratore in alcuni casi non ha neppure negato e ha provveduto disciplinarmente nei suoi confronti solo in due circostanze”
La casistica processuale può quindi presentarsi in tal guisa: o il giudice preliminarmente esamina l’eccezione di ritorsione e la esclude ( come nella fattispecie in commento) e passa ad esaminare il merito e si pronuncia sul merito o la ravvisa e passa ad esaminare il merito.In questo caso se il merito è fondato si pronuncia in base al merito: se il merito non è fondato,poiché a questo punto la ritorsione è umico motivo determinante dell’atto datoriale lo annulla .

 

Il regime probatorio

Abbiamo su rilevato che i due istituti hanno un regime probatorio differente.
Circa la discriminazione l’art.28 del D.Lgs. 150 del 2011 stabilisce che:” quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’ onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata.”.
Circa la prova della ritorsione vige l’art.2697 c.c. secondo il quale “ Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o è estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”
Il Tribunale di Genova richiama l’orientamento della Suprema Corte che prevede” la nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni” (Cass. sez. L, 8 agosto 2011, n. 17087) .
Come si rileva i regimi probatori attinenti ai due istituti sono ben diversi di qui deriverebbe la necessità che si facesse maggior chiarezza sui confini dei due istituti.
Ciò è ancor più importante ove si consideri che il lavoratore discriminato oltre all’azione ordinaria può attivare procedimenti speciali quali quello previsto dall’art. 38 del decreto legislativo n 198/2006 o dall’art.702 bis c.p.c..

Il c.d. rèpèchage

Infine è strategia difensiva del lavoratore richiedere la ricollocazione ( così detto rèpèchage ) in altro posto nell’ambito dell’azienda o del gruppo. A prescindere dal problema se la ricollocazione sia parte integrante della fattispecie del licenziamento per gmo, non essendo richiamato e quindi imposto dalla normativa (3), essa risulta difficile per vari ordini di motivi: a) se la soppressione del posto di lavoro è mirata al contenimento dei costi, cosa oggi consentita col mutamento di orientamento della Suprema Corte , la ricollocazione non risolve il problema; b ) d’altro lato questa operazione, secondo un orientamento ormai consolidato, richiederebbe anche una forma di collaborazione da parte del lavoratore ( un vero e proprio onere giuridico) che dovrebbe indicare la nuova posizione in cui dovrebbe essere ricollocato, laddove spesso il lavoratore, non conoscendo appieno l’organigramma della impresa nella quale lavora. non è in grado di adempiere tale onere.(4).

 

NOTE
(1) V. Cass.n. 19185/2016 , Pres.Venuti,Rel. Manna;V.pure Cass n.24882/2017 Pres.Napoletano,Rel .Negri Della Torre.
(2) Per un caso di ritorsione/ motivo illecito unico e determinante v.Cass 1 marzo 2018 n.4883 Pres.Manna Rel Lorito, dove il motivo ritorsivo è determinato dal rifiuto del lavoratore di firmare le dimissioni,una volta dimostrata l’insussistenza di simulazione di malattia.
(3) Ma vedi Cass. n.10435 del 2 maggio 2018, Pres. Di Cerbo Rel.Boghetich che asserisce, con riferimento” alla manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”( di cui al comma 7 dell’art.18 L.300 come modificato dalla legge n.92 del 2012) , che “nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra…sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore” configurandosi per tal modo quasi “una fattispecie unitaria”, composta da tutti e due gli elementi.
(4) Invero sul punto si contendono il campo due orientamenti:
Vedi Cass 22/3/2016 n.5592 Pres. Venuti, Rel. Patti :”il collegio è ben consapevole di un consolidato indirizzo di questa Corte, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 dei 1966 (accanto ad uno di chiara affermazione dell’onere datoriale della prova dell’impossibilità di impiegare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell’attività cui il lavoratore stesso era precedentemente adibito: Cass. 12 luglio 2012, n. 11775; 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 14 giugno 2005, n. 12769; Cass. 9 giugno 2004, n. 10916; Cass. i ottobre 1998, n. 9768; Cass. 26 ottobre 1993, n. 9369), secondo cui, se indubbiamente un tale onere competa al datore di lavoro, tuttavia esso conseguirebbe da un (diverso e propedeutico) onere, a carico dello stesso lavoratore che impugni il licenziamento, di allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro per la sua utile ricollocazione, in virtù di un preteso obbligo di collaborazione nell’accertamento di un possibile rèpèchage (Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923; Cass. 3 marzo 2014, n. 4920; Cass. 8 novembre 2013 n. 25197; Cass. 19 ottobre 2012, n. 18025; Cass. 26 aprile 2012, n. 6501; Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010, n. 6559; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417; Cass. 19 febbraio 2008, n. 4068; Cass. 9 agosto 2003, n. 12037; Cass. 12 giugno 2002, n. 8396; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13134): in una sorta,per così dire, di cooperazione processuale.”….. “se è indubbio che nel giudizio di impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo la causa petendi sia data dall’inesistenza dei fatti giustificativi del potere spettante al datore di lavoro, gravando su quest’ultimo l’onere di provare la concreta sussistenza delle ragioni inerenti all’attività produttiva e l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, è pur vero che l’indicazione (pur “possibile” da parte dei “lavoratore-che si sia fatto “parte diligente”) di un posto di lavoro alternativo a lui assegnabile, o l’allegazione di circostanze idonee a comprovare l’insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, comporti l’inversione dell’onere della prova”.
Ma tale orientamento respinge la Corte concludendo che : “allora, la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell’art. 414 n. 3 e n. 4 c.p.c., da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione dell’art. 5 I. 604/1966, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l’impossibilità di rèpèchage”.V.pure Cass.22/10//09 Pres.Battiniello , in Lav. e prev. Oggi n. 5/10, con nota di M.Cerasi Allegazione dei posti disponibili e prova del repéchage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo: la problematica ripartizione degli oneri tra lavoratore e datore.

Sentenza collegata

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Avv. Viceconte Massimo

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