Secondo Gardner questa sindrome sarebbe provocata dalla coercizione della volontà dei figli da parte di uno dei due genitori (“genitore alienante”), che causerebbe astio e rifiuto verso l’altro genitore (“genitore alienato”). Questi sentimenti di astio e di rifiuto, tuttavia, non devono essere originati da dati reali e oggettivi che riguardano il genitore alienato, ma, appunto, artatamente provocati dal genitore alienante.
Questa teoria, esterna al nostro Ordinamento, ha, tuttavia, trovato sempre più spazio negli ambienti giudiziari, ovviamente nelle infinite cause che riguardano l’affidamento dei minori, nelle quali questa è stata usata come argomento di difesa contro uno dei due genitori.
Ciò ha creato numerosi conflitti con il concetto di bigenitorialità, cioè il “diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo” con ciascuno dei genitori, introdotto con la riforma del 2006.
Sovente, infatti, i Giudici aditi sacrificano gli interessi dei figli sull’altare del principio della bigenitorialità, consentendo, appunto, ai minori, di continuare a frequentare un genitore violento.
Molto spesso, invero, si decide presumendo semplicemente che un genitore “manipoli” il figlio, a danno dell’altro genitore, omettendo anche di ascoltare il minore, che ben potrebbe essere vittima di violenza e non essere “manipolato”.
La teoria della alienazione parentale non di rado confonde la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando, facendo presumere (contrariamente ai massimi principi del diritto) che uno dei due genitori è responsabile della qualità della relazione tra i figli e il genitore che ha agito con violenza.
Questo concetto astratto ha, quindi, creato più dubbi che benefici e non ha mai trovato una propria collocazione logico – giuridica accanto ai principi del diritto.
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L’ordinanza n. 9691/2022 della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9691 del 2022, ha posto un punto fermo sull’argomento e ha dato ragione ad una madre, relegando la teoria della alienazione parentale in un campo “esterno” rispetto ai principi del nostro ordinamento.
Anzi, la Suprema Corte ha pesantemente definito il concetto di sindrome da alienazione genitoriale come un “fondamento pseudoscientifico” di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori.
La storia della signora L. M., la madre in questione, ha avuto inizio nel 2014, quando il Tribunale di Roma ha affidato suo figlio ai servizi sociali, accogliendo le argomentazioni della controparte, che la accusava di “alienazione parentale” a proprio danno, asserendo che l’astio del figlio minore nei confronti del padre era stato “costruito” dalla abile manipolazione da parte della madre.
La signor M., dopo una difficile separazione dal marito con una denuncia per maltrattamenti, si è vista togliere la potestà genitoriale nel 2018 a seguito di una consulenza tecnica d’ufficio. Suo figlio aveva manifestato paura nei confronti del padre e si rifiutava anche di incontrarlo, cosa che, secondo l’avvocato della donna, avrebbe scatenato in lui un “contenzioso vendicativo”, che l’ha portato a querelare la signora M. ben 27 volte. Il giudice che seguiva il caso aveva disposto una Ctu per indagare il motivo per cui il figlio non volesse più vedere il padre. La psicologa nominata aveva concluso che il bambino soffriva di Pas, sindrome di alienazione parentale.
La sentenza della Corte d’Appello di Roma veniva impugnata dalla signora M. con ricorso per cassazione.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9691/2022, ha accolto integralmente il ricorso contro la sentenza della Corte d’Appello di Roma, che aveva fatto decadere dalla responsabilità genitoriale la madre del minore, accusata di aver causato nel proprio figlio la sindrome da alienazione parentale. La Corte di Appello aveva anche disposto l’allontanamento del bambino e l’interruzione dei rapporti tra madre e figlio.
L’ordinanza de qua ha stabilito che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale […] non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori”.
La Suprema Corte ha deciso, ribaltando quanto statuito in II grado, sulla base di tre principi cardine: l’illegittimità dell’alienazione parentale, la superiorità dell’interesse del minore rispetto al diritto alla bigenitorialità e la condanna dell’uso della forza nei confronti dei minori.
La Corte ha dichiarato che «il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre».
Nel caso in questione, inoltre, la Cassazione ha sostenuto che l’interesse del minore prevale sul principio della bigenitorialità, che, quindi, non deve costituire una “forzatura” del nostro Ordinamento, ma deve essere valutata sulla singola fattispecie.
I Giudici di legittimità, ancora, hanno criticato lo spostamento forzoso del figlio, il quale era stato prelevato dal luogo nel quale risiedeva con la madre, per essere trasferito in una casa famiglia.
La Corte Suprema ha rilevato che l’autorità giudiziaria ha omesso di considerare quali potrebbero essere le ripercussioni sulla vita e sulla salute del minore di una brusca e definitiva sottrazione dello stesso dalla relazione familiare con la madre, con la lacerazione di ogni consuetudine di vita, ignorando che la bigenitorialità è, anzitutto, un diritto del minore.
Gli “Ermellini” hanno, oltretutto, evidenziato che il minore non era mai stato ascoltato, il che ha reso ancor più illegittima la decisione, annullata dalla Suprema Corte, proprio perché disancorata da qualsiasi riscontro fattuale ed affidata a principi astratti, ben distanti dalla realtà della vicenda attenzionata.
Il mancato ascolto del minore ha provocato un grave vulnus ai suoi diritti, che sono stati evidentemente calpestati sulla base di mere presunzioni, che nulla hanno a che fare con il principio di certezza del diritto, che va attentamente declinato quando il soggetto interessato è un minore, che andrebbe tutelato al massimo, come d’altronde nelle intenzioni del Legislatore.
Con questa fondamentale pronuncia si pongono dei limiti all’utilizzo della “PAS” come argomento di difesa e si dà maggiore importanza alle esigenze del minore, anche a scapito del principio della bigenitorialità.
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Giuseppe Cassano, Ida Grimaldi, Paolo Corder | 2018 Maggioli Editore
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