Leasing finanziario, risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore

Clarissa Gola 15/07/21
Con una lunga e articolata pronuncia le Sezioni Unite[1] della Corte di Cassazione hanno risolto un contrasto generatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità in tema di leasing finanziario. In particolare, la l. 124 del 2017 intervenuta a tipizzare il negozio in esame, offrendo una disciplina distante dal diritto vivente, ha generato una questione di diritto intertemporale risolta dalla recente sentenza degli Ermellini.

Tuttavia, prima di analizzare la soluzione accolta dal supremo Consesso è opportuno ripercorrere, seppur brevemente, le tormentate vicende che hanno interessato l’operazione in esame e la relativa disciplina.

La figura del leasing finanziario ha fatto ingresso nel mercato europeo già a partire dagli anni ’60 del secolo scorso e, tuttavia, ha trovato riconoscimento legale solo nel 2017, costringendo, in tal modo, la giurisprudenza a supplire alla carenza normativa. Gli interventi pretori che si sono susseguiti negli anni, d’altra parte, non sempre hanno incontrato il plauso della più attenta dottrina che ha stigmatizzato l’atteggiamento ostinato dei giudici di legittimità volto a ridurre la complessa operazione in esame a schemi negoziali tipici più vicini alla tradizione giuridica nazionale.

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Per effetto del negozio in esame, il concedente, verso la corresponsione di un canone periodico, mette a disposizione dell’utilizzatore un bene, scelto da quest’ultimo e acquistato presso terzi (fornitori), attribuendo la facoltà di acquistarne la proprietà al termine del rapporto attraverso il pagamento di un prezzo prestabilito. Le peculiari caratteristiche del contratto in questione hanno stimolato un ampio dibattito sulla natura giuridica, lasciando sullo sfondo la sua connotazione evidentemente finanziaria[2]. In particolare, la figura tipica maggiormente richiamata in tema di leasing finanziario è stata quella della vendita con riserva di proprietà di cui agli artt. 1523 e ss. c.c. La Corte di Cassazione, difatti, oltre ai già menzionati problemi qualificatori, aveva individuato proprio nella disciplina offerta dal Codice civile la soluzione più adatta nella ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore.

Spesso, infatti, nei contratti di leasing finanziario predisposti dalle società concedenti venivano inserite clausole generali che imponevano all’utilizzatore inadempiente, oltre alla restituzione del bene, la non ripetizione dei canoni già corrisposti, nonché il pagamento a titolo di penale di tutti i canoni scaduti e a scadere. Tali previsioni determinavano una indebita locupletazione della società di leasing a discapito dell’utilizzatore dal momento che le stesse riscuotevano il profitto previsto dal contratto e, in aggiunta, l’ulteriore utilità economica rappresentata dal valore del bene restituito prima della scadenza. A fronte di tale situazione, il mercato non ha saputo correggersi e, come spesso accade nelle ipotesi di suo fallimento strutturale, c’è bisogno di una revisione, della quale si è fatta carico, in prima battuta la giurisprudenza e, solo dopo molto tempo, il legislatore[3].

La prima, di conseguenza, animata dalla necessità di tutelare l’utilizzatore, quale parte debole del rapporto, ha caldeggiato, in determinati casi, l’estensione analogica alla fattispecie in oggetto della disciplina dettata dall’art. 1526 c.c. con evidenti risvolti anche sotto il profilo qualificatorio dell’intera operazione. D’altra parte, proprio per favorire tale soluzione, a partire dagli anni ’80, è emerso un orientamento[4], sconfessato solo con l’entrata in vigore della legge 124 del 2017, per effetto del quale si rinunciava all’unitarietà giuridica dell’operazione per accogliere, al contrario, la distinzione fra due distinte tipologie. In particolare, il supremo Collegio ha individuato due figure di leasing finanziario, il cui discrimen, a fronte di una tendenziale coincidenza strutturale, si registra sotto il profilo della funzione perseguita dalle parti attraverso di essi. Da un lato, il leasing finanziario tradizionale connotato dalla funzione di finanziamento a scopo di godimento del bene che, strumentale all’esercizio della attività di impresa dell’utilizzatore e dotato di una potenzialità economica corrispondente alla durata del contratto, conserva al termine del rapporto un esiguo valore economico coincidente con il prezzo d’opzione, il cui esercizio per tali motivi sarebbe marginale. In tale ipotesi, il canone periodico rappresenta il corrispettivo del godimento del bene, non rilevando quale anticipo del prezzo della futura cessione. Al contrario, il leasing traslativo ricorre nel caso in cui oggetto del contratto siano beni durevoli o comunque non rapidamente deteriorabili che al termine del rapporto conservano un valore apprezzabile molto superiore al prezzo disposto per l’esercizio della facoltà d’opzione sicché la stessa sarebbe l’unica scelta economicamente vantaggiosa per l’utilizzatore. È evidente, dunque, la centralità assunta dal trasferimento nella fattispecie in oggetto data anche dalla circostanza che il canone periodico viene calcolato considerando una quota prezzo della futura cessione del bene.

La suesposta distinzione ha acquisito rilevanza al fine di individuare la disciplina applicabile nell’ipotesi di risoluzione del contratto in oggetto per inadempimento dell’utilizzatore. In particolare, la soluzione individuata dalla giurisprudenza di legittimità è stata differente a seconda della qualificazione dell’operazione come leasing di godimento o traslativo. Nel primo caso, trattandosi di contratto di durata, la regola di riferimento è quella di cui all’art. 1458 c.c. che impedisce l’estensione dell’effetto risolutorio alle prestazioni già eseguite, al contrario, quando lo scopo perseguito dalle parti è quello di trasferimento della proprietà, la necessaria assimilazione alla figura della vendita con riserva della proprietà ha indotto ad applicare la disciplina dell’art 1526 cc, con obbligo del concedente di restituire i canoni già percepiti (salvo il diritto ad un equo compenso)[5].

Come detto, la bipartizione operata dal supremo Consesso non ha incontrato l’approvazione della dottrina maggioritaria recalcitrante rispetto all’atteggiamento della giurisprudenza. In effetti, oltre alla scarsa affidabilità dei criteri cui i giudici di legittimità hanno fatto ricorso al fine di distinguere tra le due tipologie[6], non si può negare come la creata dicotomia finisca per ricondurre l’operazione a schemi negoziali caratterizzati da una connotazione causale locativa o traslativa, avvilendo la causa di finanziamento che contraddistingue, come figura unitaria, il leasing finanziario[7].

In aggiunta a tali considerazioni, la scissione operata all’interno della figura contrattuale in questione ha sollevato copiose critiche anche per la sua inidoneità a fornire una disciplina adeguata della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore. Si fa riferimento alla pretesa applicabilità dell’art. 1526 c.c., norma ritenuta in grado di evitare le indebite locupletazioni della impresa concedente in occasione della risoluzione dei contratti di leasing traslativo per inadempimento dell’utilizzatore, con conseguente nullità delle clausole difformi. In realtà, la disciplina in oggetto sembra non tenere in considerazione gli interessi dedotti dalle parti nel contratto in oggetto. Il concedente, difatti, versa in una situazione di indifferenza rispetto al bene oggetto dell’operazione, ne consegue la frustrazione del suo interesse se al rientro anticipato del bene non segua la riallocazione dello stesso. L’impresa di leasing, invero, vanta un interesse al rimborso dell’esborso finanziario sostenuto e al conseguimento della remunerazione per l’investimento, indipendentemente dall’eventuale rientro anticipato nella sua sfera di disponibilità del bene. Da ciò consegue che il rischio di un indebito profitto del lessor, derivante dalla somma del valore del bene anzitempo restituito e dai canoni scaduti e a scadere, si verifica solo nella ipotesi in cui lo stesso riesca a riallocare il bene, recuperando così l’esborso sostenuto per il suo acquisto[8].

Nella vendita con riserva di proprietà, il venditore soddisfa il proprio interesse, a fronte della risoluzione, con il rientro del bene nella propria sfera giuridica, il concedente (lessor), al contrario, vedrebbe mortificato il proprio interesse se per effetto della restituzione del bene fosse tenuto a restituire i canoni pagati, indipendentemente dalla futura riallocazione dello stesso sul mercato[9].

Le criticità suesposte hanno indotto la migliore dottrina a individuare soluzioni maggiormente rispondenti agli interessi delle parti, senza lasciare sullo sfondo la causa di finanziamento che consente di tracciare la linea di confine tra l’operazione in esame e i contratti con funzione traslativa.

D’altronde, ancor prima della scelta compiuta con la legge 124/2017 che ha il pregio di ricondurre a unità la figura del leasing finanziario, il legislatore sembra aver raccolto le censure sollevate adottando una disciplina, seppur in settori specifici, più coerente con lo scopo perseguito dalle parti.

Sotto il primo profilo, data la mancanza di una disciplina ad hoc del leasing finanziario, la dottrina ha suggerito il riferimento alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 e ss. c.c. e, in particolare, all’art. 1458 c.c. che sancisce l’inoperatività degli effetti restitutori per le prestazioni già eseguite, in aggiunta a una corretta quantificazione del danno subito dal concedente per effetto dell’inadempimento dell’utilizzatore. In tal senso, appare opportuno tenere in considerazione l’interesse dedotto nel contratto da parte della società di leasing e disporre, solo in caso di successiva riallocazione del bene sul mercato, la restituzione all’utilizzatore di quanto eventualmente ricavato.

D’altra parte, il legislatore, già dal d. lgs. n. 5/2006 con cui ha introdotto l’art. 72quater legge fall., sembra aver aderito a quella giurisprudenza di merito che ha rifiutato fin dall’inizio la bipartizione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dettando una disciplina unitaria per il caso di scioglimento del contratto in caso di fallimento dell’utilizzatore, diversa da quella prevista per la vendita con riserva di proprietà (art 73 legge fall.). Impostazione confermata dall’art. 1, co.78, l. 208/2015 che regola la risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore del contratto di locazione finanziaria dell’immobile da adibire ad abitazione principale.

In entrambe le occasioni il legislatore ha ricostruito la figura del leasing senza fare alcun riferimento alla bipartizione invalsa nella giurisprudenza di legittimità e, in linea con la giurisprudenza di merito richiamata, ha introdotto una disciplina che valorizzi la causa di finanziamento. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha ritenuto che non potesse ritenersi superata la dicotomia e le conseguenze in tema di disciplina applicabile alla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, limitando, pertanto, l’applicabilità dell’art. 72quater alla sola materia fallimentare.

Tuttavia, a fugare ogni dubbio circa le intenzioni del legislatore è intervenuta la legge per il mercato e la concorrenza n. 124/2017 che all’art. 1, dopo aver offerto una definizione del contratto di leasing, ha dettato un’articolata e organica disciplina delle conseguenze della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore. Si è optato per una ricostruzione unitaria della figura in questione, superando definitivamente la bipartizione tra leasing di godimento e finanziario con le conseguenti assimilazioni agli schemi negoziali noti alla tradizione giuridica interna. In effetti, l’intervento normativo, oltre a porsi in linea di continuità con le previsioni legislative, seppur settoriali, già intervenute negli anni precedenti, valorizza la causa di finanziamento che connota il contratto in esame, dettando una disciplina coerente con essa. In definitiva, si dispone al comma 138 dell’art. 1 che il concedente corrisponda all’utilizzatore inadempiente quanto ricavato dalla successiva riallocazione o vendita del bene restituito dedotto l’ammontare dei canoni scaduti e non pagati, dei canoni a scadere, del prezzo pattuito per l’esercizio del diritto di opzione nonché le spese per il recupero, la stima e la conservazione del bene.

La novella valorizza, pertanto, l’essenza finanziaria dell’operazione, consentendo all’ente concedente sia di recuperare il capitale che di remunerare l’investimento. Senza dubbio il concedente dispone della garanzia di fatto rappresentata dalla proprietà del bene, ma, essendo un ente finanziario, è estraneo al mercato ed esposto al rischio di non poterne sfruttare adeguatamente il valore residuo. D’altro canto, il rischio di abusi a danno dell’utilizzatore viene arginato dalla disciplina dettata per la vendita e il reimpiego del bene, che deve essere alienato a prezzi di mercato o, in difetto, tenendo conto della valutazione condotta da periti indipendenti. In tal modo si evita di avallare l’indebita penalizzazione dell’organismo finanziario che aveva indotto la giurisprudenza a ricorrere all’argine dell’art. 1526,  co. 2, c.c.[10].

La normativa sebbene particolarmente chiara e pregevole non ha chiarito il proprio ambito applicativo, in particolare si è immediatamente registrato il difetto di una disciplina intertemporale applicabile a quei contratti risolti prima dell’entrata in vigore ma i cui giudizi siano ancora pendenti[11]. In proposito, si è generato un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità che ha stimolato l’anzidetta pronuncia a Sezioni Unite.

La ritenuta inapplicabilità retroattiva della normativa in esame ha indotto parte dei giudici di legittimità a mantenere ferma la distinzione tra le due tipologie di leasing, con conseguente applicazione, per il caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, della disciplina dettata dagli artt. 1526 e 1458 c.c.[12]

Al contrario, con una sentenza rivoluzionaria[13] la Cassazione più recentemente ha sancito il definitivo superamento del ricorso in via analogica all’art. 1526 c.c. al fine di disciplinare la risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore. In particolare, nella pronuncia viene chiarito come l’approdo del legislatore nel 2017 e, dunque, il travolgimento della dicotomia di origine pretoria, altro non è che il compimento di un’opera iniziata anni addietro. La disciplina di cui all’art 72quater l. fall., seppur successiva alla creata bipartizione, ha recepito quella giurisprudenza volta a ricostruire unitariamente il fenomeno del leasing finanziario, distinguendolo dal contratto di vendita con riserva di proprietà. Nella motivazione la Corte evidenzia come la scelta operata dal legislatore, dunque, non può riferirsi solamente alle fattispecie regolate dalla stessa ma deve necessariamente riflettersi anche sulla valutazione e interpretazione delle vicende pregresse ma ancora pendenti[14]. Di conseguenza, per quanto concerne i contratti di leasing risolti anteriormente alla entrata in vigore della l. 24/2017 ma i cui giudizi sono ancora prendenti deve ritenersi applicabile in via analogica dell’art 72quater l. fall. che esibisce la medesima disciplina di quella poi fatta propria dal legislatore.

In sostanza, la Corte finiva per aderire ad un indirizzo interpretativo che, seppur disatteso dalla stessa in precedenza, era stato affermato da larga parte della giurisprudenza di merito[15], ma che adesso, alla luce dell’intervento del legislatore sembrava essere il più coerente con il sistema vigente.

La già menzionata pronuncia, di certo, ha il pregio di confermare il definitivo superamento della dicotomia fra le due tipologie di leasing e di riconoscere alla l. 124, nella inammissibilità di una sua applicabilità diretta, una generale portata ai fini dell’interpretazione sistematica, posto che una certa fattispecie non può che essere valutata alla luce dell’ordinamento vigente, dispiegandosi l’attività ermeneutica nella attualità. Tuttavia, la stessa non ha incontrato il consenso unanime della giurisprudenza di legittimità che ha conservato l’ormai tramontata bipartizione con tutte le conseguenze in punto di disciplina applicabile, sulla considerazione che sia inammissibile l’applicazione analogica di una norma sopravvenuta rispetto alla fattispecie da regolare (c.d. analogia “diacronica”), stimolando così un intervento a Sezione Unite.

Queste ultime hanno ritenuto che non potesse darsi seguito all’innovativo orientamento inaugurato dalla Cass. 8980 del 2019, confermando il diritto vivente formatosi prima della novella che rinveniva nell’art. 1526 c.c. la disciplina applicabile alla risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore.

Dopo una pregevole ricostruzione della funzione giudiziaria e dei limiti che la stessa incontra nel dato normativo, la Corte ha argomentato la soluzione accolta facendo perno primariamente sui cd “valori di civiltà giuridica”, tra cui “il rispetto del principio di ragionevolezza, la tutela dell’affidamento (…), la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico”. In primo luogo, richiamando l’art. 11 delle Preleggi, ha rammentato che è nella facoltà del legislatore e solo di questo disporre l’efficacia retroattiva di una disposizione di legge, essendo la stessa indisponibile da parte del giudice. Ne deriva che quando entra in vigore una nuova legge si pone, primariamente, un problema relativo agli effetti intertemporali della stessa rispetto alla disciplina anteriore, che, se non regolati dalla novella stessa, devono essere risolti alla luce della teoria del cd “fatto compiuto”. In base a quest’ultima, la nuova norma non ha efficacia sui fatti compiuti sotto la vigenza di quella precedente anche se sono ancora pendenti gli effetti. Di conseguenza, nel caso di specie, posto che il leasing è stato un contratto innominato fino alla l.124/2017 e che a tale carenza normativa ha supplito la giurisprudenza, alle fattispecie anteriori non può che ritenersi applicabile il diritto vivente sviluppatosi fino all’intervento normativo. Quest’ultimo sarà invece applicabile ai contratti di leasing conclusi anteriormente e rispetto ai quali, ancora in corso di rapporto, non si siano ancora verificati i presupposti della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore.

D’altra parte, i giudici sconfessano l’applicazione analogica dell’art. 72quater l. fall. alla luce della novella del 2017 e in forza della comune disciplina dettata per il caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore.  È, infatti, acquisito in seno alla giurisprudenza, anche dopo l’avvento della disciplina di cui alla l. 124, che la disposizione in oggetto abbia natura eccezionale e valenza settoriale, “presupponendo lo scioglimento, per volontà del curatore e quale conseguenza del fallimento, del contratto ancora pendente a quel momento”. In definitiva, l’operazione “innovativa” inaugurata con la sent. n. 8980/2019 viene additata non quale esito di una interpretazione storico evolutiva delle norme implicate bensì quale dissimulata applicazione retroattiva della l. 124, esito di certo inammissibile. Ne deriva che per i contratti che non siano soggetti alla suddetta legge resta applicabile per analogia la disciplina di cui all’art. 1526 c.c., la quale, attraverso la previsione di un equo compenso a favore del cedente, consente di rispondere alle critiche sollevate dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito rivolte a valorizzare la causa di finanziamento che connota l’operazione in esame. Le Sezioni Unite, dunque, sembrano subire il fascino della configurazione del leasing tratteggiata dalla l. n. 124 e tuttavia, decidono di raggiungere i relativi risultati pratici attraverso l’applicazione della disciplina consacrata dall’art. 1526, commi 1 e 2, c.c.

La pronuncia dalle recenti Sezioni Unite non ha lasciato tutti d’accordo e, tuttavia, vi è chi ha rinvenuto l’occasione per esprimere il proprio disappunto rispetto alla soluzione accolta dal legislatore del 2017, ritenuta non appagante. In particolare, taluni hanno sostenuto che la scelta operata dalla giurisprudenza di legittimità sia la conferma che la disciplina dell’art. 1526 c.c., se oculatamente gestita, porti a risultati ben più apprezzabili rispetto a quelli derivanti dalla normativa ad hoc.

In primo luogo, la presupposta estraneità del concedente rispetto al mercato del bene oggetto del leasing non è ravvisabile quante volte (e sono le più) si ha a che fare con un oggetto standardizzato, di conseguenza, il caso del bene costruito appositamente per soddisfare l’idiosincratico bisogno dello specifico cliente non corrisponde all’ id quod plerumque accidit[16]. D’altro canto, al comma 136 della l. 124, si ricostruisce il trasferimento del bene come una facoltà concessa all’utilizzatore al termine del rapporto, può, dunque, accadere che questa non venga esercitata non corrispondendo più al suo interesse.  Nonostante ciò, al comma 138, si annovera il prezzo d’opzione tra le voci che il concedente deduce dalla somma ottenuta per effetto della vendita del bene anzitempo restituito, assumendo, in tal modo, che l’opzione sia esercitata dall’utilizzatore. In altri termini, si considera intervenuta l’acquisizione da parte dall’utilizzatore anche se è il concedente ad aver operato la stessa coattivamente, spostando il rischio sul primo. Il risultato è che se dalla vendita non si ricava quanto aspettato a subirne le conseguenze è sempre il cliente[17].

Allora se, senza dubbio, la disciplina pretoria applicata anteriormente si connotava per un eccessivo favor per l’utilizzatore, al contrario quella di fonte legislativa realizza un risultato opposto, altrettanto non apprezzabile. Anzi, come detto, l’esposta dottrina evidenzia che la scelta da ultimo operata dalle Sezioni Unite conferma che l’art. 1526 c.c. rappresenta lo strumento che, se adeguatamente modulato, meglio risponde a esigenze di equità e giustizia sostanziale.

Al contrario, la pronuncia del supremo Collegio appare deprecabile a quanti rivedono nella stessa la volontà di mantenere ferma la bipartizione tramontata per scelta legislativa. Invero, la questione di diritto intertemporale avrebbe potuto essere risolta, senza l’applicazione di discutibili meccanismi analogici, facendo riferimento alla disciplina generale degli artt. 1453 e ss. del Codice civile, a condizione che venga individuato l’interesse contrattuale della parte non inadempiente e, di conseguenza, venga quantificato esattamente il danno dallo stesso subito. La soluzione appena rappresentata consentirebbe infatti al sistema di recuperare coerenza e organicità con riferimento a quelle ipotesi che, ratione temporis, non possono essere disciplinate dalla l. 124/2017[18].

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Note

[1] Cass. Sez. Un., sentenza n. 2061, 28 gennaio 2021.

[2] v. viti, Le problematiche qualificatorie del leasing finanziario e l’irrisolta questione della disciplina applicabile alla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore”, Europa e Diritto Privato, Fasc. 3 – 2016, 806.

[3] l. la battaglia, r. pardolesi, “Sulla reductio ad unum del leasing finanziario: disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore e resilienza delle sezioni unite”, Foro italiano, 3, 2021, 853.

[4] Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 5569, 5570, 5571, 5572, 5573 e 5574/1989.

 

[5] v. viti, “La locazione finanziaria tra tipicità legale e sottotipi”, Roma Tre-Press, 2018, 83.

[6] r. clarizia, “I contratti per il finanziamento dell’impresa. Mutuo di scopo, leasing, factoring”, Giappichelli, 2002, 313.

[7] r. clarizia, “Nuova” figura di leasing e vecchi problemi: l’applicabilità dell’art. 1526 c.c.”, Giur. It., 1990, I, 741.

[8] v. viti, Le problematiche qualificatorie del leasing finanziario e l’irrisolta questione della disciplina applicabile alla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore”, Europa e Diritto Privato, Fasc. 3 – 2016, 829.

[9] r. clarizia, “Nuova” figura di leasing e vecchi problemi: l’applicabilità dell’art. 1526 c.c.”, Giur. It., 1990, I, 741.

[10] l. la battaglia, r. pardolesi, “Sulla reductio ad unum del leasing finanziario: disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore e resilienza delle sezioni unite”, Foro italiano, 3, 2021, 853.

[11] v. viti, “Il tramonto della bipartizione tra leasing di godimento e leasing traslativo”, Giur. It., novembre 2019, 2366.

[12] Cass. Civ. sez. I, sentenza n. 20890, 7 settembre 2017.

[13] Cass. Civ. sez. I, sentenza n. 8980, 29 marzo 2019.

[14] v. viti, “Il tramonto della bipartizione tra leasing di godimento e leasing traslativo”, Giur. It., novembre 2019, 2367.

[15] f. gabassi, Corte di Cassazione (8980/2019) – Fallimento: gli effetti alla luce della più recente normativa della risoluzione del contratto di leasing finanziario per inadempimento dell’utilizzatore”, unijuris, 17.04.2019, disponibile qui: https://www.unijuris.it/node/4615

[16] l. la battaglia, r. pardolesi, “Sulla reductio ad unum del leasing finanziario: disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore e resilienza delle sezioni unite”, Foro italiano, 3, 2021, 853.

[17] l. la battaglia, r. pardolesi, “Sulla reductio ad unum del leasing finanziario: disciplina della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore e resilienza delle sezioni unite”, Foro italiano, 3, 2021, 853.

[18] v. viti, “Il tramonto della bipartizione tra leasing di godimento e leasing traslativo”, Giur. It., novembre 2019, 2369.

Clarissa Gola

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