1. Premessa: la rappresentanza diretta e la cd contemplatio domini.
Anzitutto, occorre partire dalla fattispecie della rappresentanza diretta (volontaria) alla quale è dedicata interamente il capo VI del titolo II sul contratto in generale (art. 1387 ss cod. civ.), a sua volta collocato nel libro IV delle obbligazioni del codice civile.
In particolare, si ha rappresentanza diretta nell’ipotesi in cui il rappresentante proceda alla “spendita del nome” (anche detta “contemplatio domini”), ovvero dichiari di operare nell’interesse di un diverso soggetto, chiamato “dominus” o, semplicemente, rappresentato.
In tale ipotesi, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 1388 cod. civ., gli effetti di un contratto concluso dal rappresentante, nei limiti delle facoltà ad egli conferite, si determinano direttamente nella sfera giuridica del dominus, senza che sia necessario il compimento di altri atti.
Per effetto della rappresentanza diretta (sia essa negoziale o processuale) viene, quindi, conferita al rappresentante non una legittimazione escludente quella originaria del rappresentato, ma una legittimazione di secondo grado, contingente, la quale, per essere propria del rappresentante, non può assorbire né rendere superflua l’originaria posizione di competenza del soggetto titolare degli interessi dedotti, posizione che giustifica la legittimazione sia di primo che di secondo grado [così, Cass. 30 maggio 1975, n. 2193; conf. Cass., 12 febbraio 1977, n. 615].
In tema di mandato con rappresentanza, preme altresì sottolineare che la “contemplatio domini”, la quale assolve alla duplice funzione di esteriorizzare il rapporto di gestione rappresentativa esistente tra il rappresentante ed il rappresentato e di rendere conseguentemente possibile l’imputazione al secondo degli effetti del contratto concluso in suo nome dal primo, deve risultare da una dichiarazione espressa ed univoca, non esigendo l’impiego di formule solenni o l’osservanza di un preciso rituale e potendo, invero, manifestarsi attraverso un comportamento del rappresentante che, per univocità e concludenza, sia idoneo a portare a conoscenza del terzo contraente che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti del contratto concluso sono destinati a prodursi direttamente [così Cass. 17 settembre 2005, n. 18441; conf. Cass., 20 ottobre 2003, n. 15691; Cass., 30 giugno 2005, n. 13978].
Solo per completezza espositiva, si consideri che anche nei contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam la contemplatio domini non richiede l’uso di formule sacramentali, essendo sufficiente che essa risulti dallo stesso documento contrattuale, restando irrilevante la conoscenza o l’affidamento, da parte del terzo contraente, in ordine all’esistenza del rapporto rappresentativo [Cass., 30 gennaio 2007, n. 1959].
2. La figura del falsus procurator e l’istituto della ratifica.
Come già innanzi evidenziato, ai sensi della disposizione normativa in commento, il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato produce direttamente i suoi effetti nei confronti di questi solo se concluso nei limiti delle facoltà conferite al primo: la legge condiziona dunque la verificazione dell’effetto negoziale diretto nei confronti del dominus alla sussistenza della legittimazione rappresentativa in capo al rappresentante.
A questo punto, allora, sorge spontanea una domanda: cosa accade se il rappresentante – mandatario agisca al di fuori ed oltre i limiti delle facoltà conferitegli dal rappresentato – mandante, concludendo un negozio giuridico con terzi? E quali sono le tutele che l’ordinamento giuridico mette a disposizione del terzo incolpevole venuto in contatto col falsus procurator?
Ebbene, nell’ipotesi in cui il rappresentante – mandatario agisca senza avere ricevuto alcun incarico o ecceda i limiti delle facoltà conferitegli, l’ordinamento prevede come conseguenza l’inefficacia del contratto concluso dal cd “falsus procurator” (vizio che può anche essere rilevato d’ufficio dal Giudice), salvo che non intervenga una ratifica ai sensi dell’art. 1399 cod. civ. da parte dell’interessato (cioè dal dominus) in modo da renderlo efficace (anche) nei suoi confronti.
Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato, “il negozio concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie soggettivamente complessa a formazione successiva, la quale si perfeziona con la ratifica del dominus e, come negozio in itinere o in stato di pendenza, non è nullo e neppure annullabile, bensì inefficace nei confronti del dominus sino alla ratifica di questi” [così, Cass., 17 giugno 2010, n. 14618].
Pertanto, la ratifica è un atto unilaterale qualificato che equivale ad una sorta di procura successiva, sanando così l’accordo negoziale concluso dal falsus procurator con effetto retroattivo e facendo salvi i diritti acquistati da terzi.
Per quanto concerne la forma della ratifica, sebbene la dottrina maggioritaria ritenga che essa debba avere la medesima forma prescritta per il negozio cui si riferisce (come accade per la procura), con una importantissima pronuncia la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che “ la ratifica del negozio concluso dal falsus procurator, che lo rende efficace nei confronti del dominus, può essere fatta implicitamente, ad esempio mediante l’accettazione della somma riscossa dal falsus procurator, mentre non occorre la forma scritta, neppure ove tale sia la forma dell’atto seguita di fatto dal falsus procurator” [Cass, Civ, n. 11509 del 9 maggio 2008]. In altri termini, è sufficiente che il terzo che intenda estendere gli effetti del negozio concluso col falsus procurator in capo al rappresentato – mandante dimostri che quest’ultimo, pur non avendo espressamente conferito tale potere nella forma prevista per il negozio cui si riferisce, abbia ad esempio ricevuto ed accettato dal rappresentante apparente una somma di danaro o altra utilità derivante dalla conclusione del negozio in questione.
3. Omessa ratifica ed azione ex art. 1398 cod. civ. a tutela del terzo contraente incolpevole.
Tuttavia, qualora il terzo (in buona fede) non fornisca prova dell’intervenuta ratifica (seppur implicita) o semplicemente perché essa non è mai intervenuta, lo stesso potrà agire direttamente nei confronti del falsus procurator. Infatti, il legislatore, all’art. 1398 cod. civ., si è preoccupato di tutelare la posizione del terzo che ha contrattato con il procuratore fittizio, prevedendo a carico di quest’ultimo l’obbligo di risarcire gli eventuali danni subiti dalla controparte negoziale.
Il citato articolo recita espressamente che: “Colui che ha contrattato come rappresentante senza avere i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto”. La ratio della responsabilità che sorge a carico del falsus procurator nei confronti del terzo incolpevole va ricercata nell’esigenza di uno svolgimento pacifico e lineare delle contrattazioni, improntate ai principi di correttezza e diligenza di ambo le parti nello svolgimento delle trattative negoziali.
In ultimo, con riguardo al quantum risarcitorio, il falsus procurator, avendo posto in essere un comportamento tale da ingenerare nella controparte contrattuale un errore scusabile, violando il dovere di correttezza, è tenuto a risarcire il terzo delle spese da questo sostenute, nonché dell’eventuale pregiudizio sofferto per il tempo perduto a concludere le trattative, sottratto ad altre più profittevoli occupazioni, o alle occasioni che gli siano nel frattempo capitate per concludere altro analogo contratto e che lui abbia sciupato fidandosi di quanto affermato, falsamente, dal rappresentante apparente. Infatti, per costante e consolidato orientamento giurisprudenziale, il danno risarcibile ex art. 1398 cod. civ. subito dal contraente che abbia confidato senza sua colpa nella esistenza della procura invocata dal falsus procurator, si limita al cosiddetto interesse negativo e, risiede, oltre che nelle spese e nelle perdite strettamente dipendenti dalle trattative, nel vantaggio conseguibile dal contraente in buona fede per il tramite di altre contrattazioni, non estendendosi al lucro cessante ricavabile dall’adempimento del contratto [così, anche, Cass., 29 settembre 2000, n. 12969].
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