Il principio è stato riaffermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con l’ordinanza del 22 marzo 2018, n. 7120, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato quanto già deciso, nel caso de quo, dalla Corte d’appello di Brescia.
La vicenda
La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che la Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 5XX/2012, ha confermato la pronuncia del 2011 del Tribunale di Bergamo con la quale, in accoglimento della domanda proposta da GAIA, Poste Italiane spa era stata condannata a trasferire la ricorrente nella sede di Fantasia o in altro Ufficio della zona, limitrofo al Comune di residenza del padre, inabile e bisognoso di assistenza continuativa, essendo stati ritenuti sussistenti i presupposti di cui all’art. 33 legge n. 104/1992.
Avverso tale decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione Poste Italiane spa affidato a tre motivi.
I motivi di ricorso
La ricorrente con il primo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 33 comma 5 legge 104/1992 (art. 360 n. 3 cpc) per errato riconoscimento, da parte della Corte territoriale, dell’invocato diritto alla ricorrente sebbene l’assistenza continuativa all’handicappato, nel caso in esame, fosse stata interrotta e sebbene si vertesse in una fattispecie di trasferimento di sede di lavoro in corso di rapporto, in relazione al quale non era ravvisabile alcun diritto soggettivo, e non di prima assegnazione di lavoro.
La ricorrente, inoltre, deduce, che l’inciso “ove possibile” contenuto nel disposto normativo avrebbe richiesto un contemperamento di interessi tra parte datoriale e lavoratori.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 33 comma 5 legge n. 104/92; la violazione dell’art. 41 Cost. e la violazione dell’art. 30 comma 1 legge n. 183/2010 (art. 360 n. 3 cpc) per avere erroneamente i giudici di merito riconosciuto, sulla base della disposizione di cui all’art. 33 coma 5 citato, un diritto soggettivo perfetto in capo al lavoratore a scegliere e/o a mutare la propria sede di lavoro, salvo facoltà del datore di provarne l’impossibilità, quando, invece, si trattava di un semplice interesse legittimo a scegliere propria sede di servizio ove possibile.
La decisione
La Corte di Cassazione, mediante la menzionata ordinanza n. 7120/2018 ha ritenuto i motivi non fondati ed ha rigettato il ricorso.
Sui punti controversi la Suprema Corte precisa che la disposizione dell’art. 33 comma 5 della legge n. 104/1992 deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati, alla luce dell’art. 3 comma 2° Costituzione, dell’art. 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni del 13.12.2006 sui diritti dei disabili, ratificata con legge n. 18 del 2009, in funzione della tutela della persona disabile (cfr. Corte di Cassazione, 7.6.2012 n. 9201).
Le misure previste dall’art. 33 comma 5° devono intendersi come razionalmente inserite in un ampio complesso normativo – riconducibile al principio sancito dall’art. 3 comma 2 Cost. – che deve trovare attuazione mediante meccanismi di solidarietà che, da un lato, non si identificano esclusivamente con l’assistenza familiare e, dall’altro, devono coesistere con altri valori costituzionali (cfr. da ultimo Corte di Cassazione, n. 24015/2017).
Ne consegue che le posizioni giuridiche soggettive in capo agli interessati, proprio per il loro fondamento costituzionale e di diritto sovranazionale, vanno individuate quali diritti soggettivi (e non interessi legittimi) ma richiedenti, di volta in volta, un bilanciamento necessario di interessi, con il relativo onere probatorio in capo al datore di lavoro (cfr. sull’onere probatorio Corte di Cassazione, 18.2.2009 n. 3896).
Di recente una compiuta ricostruzione interpretativa dell’istituto è stata compiuta dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile, con la sentenza del 12 ottobre 2017, n. 24015, la quale ha, in primis, affermato che la L. 5 febbraio 1992, n. 104 (legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) ha introdotto, all’art. 33, agevolazioni per i lavoratori che assistono soggetti portatori di handicap e che dalla lettura di tutte le agevolazioni disciplinate dal dettato originario dell’art. 33, si evince che il legislatore del 1992 ha espressamente connotato della “gravità” la situazione del familiare del lavoratore, minorenne o maggiorenne, necessitato dell’accudimento sotteso alle agevolazioni introdotte in tutti i commi del menzionato articolo 33, fatta eccezione proprio del comma 5 ove il legislatore ha piuttosto fatto riferimento alla correlazione, tra lavoratore e familiare, fondata sull’assistenza con continuità e sulla
convivenza.
I requisiti indicati dal comma 3, pur contestualmente novellato dalla L. n. 183, art. 24, comma 1, lett. a), che accomunano ora la disciplina dei permessi retribuiti a quella del trasferimento, risultano i seguenti: “A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o
affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa…”.
La fruizione di tali agevolazioni presuppone che la condizione di disabilità sia accertata mediante le Commissioni mediche previste dalla L. n. 104 del 1992, art. 4 (cfr., ex plurimis, Corte di Cassazione, n. 8436/2003).
Sul piano sistematico, come già affermato dalla Corte (Corte di Cassazione, SS. UU. n. 16102/2009; Corte di Cassazione, n. 25379/2016; n. 22421/2015), la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla norma, e i limiti del relativo esercizio
all’interno del rapporto di lavoro, devono essere individuati alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale che – collocando le agevolazioni in esame all’interno di un’ampia sfera di applicazione della L. n. 104 del 1992, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacente, la tutela dei soggetti con disabilità – destinata a incidere sul settore sanitario e assistenziale, sulla formazione
professionale, sulle condizioni di lavoro, sull’integrazione scolastica – ha precisato la discrezionalità del legislatore nell’individuare le diverse misure operative finalizzate a garantire la condizione del portatore di handicap mediante l’interrelazione e l’integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale ( Corte Cost. n. 406 del 1992, 325 del 1996).
Essa ha più volte evidenziato la centralità del ruolo della famiglia nell’assistenza del disabile (da ultimo, Corte Cost. 329/2011 e, in precedenza, Corte Cost. 233/2005) e, in particolare, nel soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione quale fondamentale fattore di sviluppo della personalità e idoneo strumento di tutela della salute del disabile intesa nella sua accezione più ampia (si vedano, fra le
altre, sent. nn. 158 del 2007, n. 350 del 2003, e n. 19 del 2009).
L’efficacia della tutela della persona con disabilità si realizza anche mediante la regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, in quanto il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del congiunto con disabilità alle immutate condizioni di assistenza.
E’, nondimeno, innegabile che l’applicazione dell’art. 33, comma 5, cit., postula, di volta in volta, un bilanciamento di interessi, bilanciamento necessario, per vero , in via generale, per tutti i trasferimenti, atteso il disposto dell’art.2103 c.c., che, nel periodo finale del primo comma, statuisce che il lavoratore non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra “se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
L’onere probatorio rafforzato posto dall’art. 2103 c.c sul datore di lavoro con riferimento all’esigenza dell’impresa di variare la sede lavorativa (ex multis, Corte di Cassazione, n. 11984/2010) dimostra la preoccupazione del legislatore nei confronti dei provvedimenti destinati ad avere, nella generalità dei casi, ricadute sovente pregiudizievoli per il lavoratore sotto diversi versanti, incidenti non di rado oltre che sul piano economico anche su quello familiare per interrompere, per tempi non limitati, quei rapporti di affetti e di solidarietà quotidiana fondanti la comunità familiare.
A questi ultimi particolare attenzione è stata dedicata, come innanzi osservato, dal legislatore italiano che, con l’art. 33 c. 5 della legge n. 104 del 1992, nel contesto normativo sovranazionale sopra richiamato, ha inteso regolare più incisivamente i poteri del datore di lavoro nei casi nei quali il lavoratore sia parte di una comunità familiare nella quale vi siano persone con disabilità che richiedano un impegno più
pregnante e gravoso da parte del familiare lavoratore, impegno che anche l’inamovibilità di quest’ultimo può garantire.
La ricostruzione del quadro normativo nazionale e sovranazionale e dei principi giurisprudenziali sopra richiamati induce a ritenere che nel necessario bilanciamento di interessi e di diritti del lavoratore e del datore di lavoro, aventi ciascuno copertura costituzionale, dovranno essere valorizzate le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile del lavoratore, occorrendo salvaguardare condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui la persona con disabilità si trova inserita ed evitando riflessi pregiudizievoli dal trasferimento del congiunto ogni volta che le esigenze tecniche, organizzative e produttive non risultino effettive e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte (Corte di Cassazione, n. 25379/2016; Corte di Cassazione, n. 9201/2012).
In questa prospettiva applicativa, deve ritenersi che il trasferimento del lavoratore di cui al c. 5 dell’art. 33 L n. 104 del 1992 è configurabile anche nell’ipotesi in cui lo spostamento venga attuato nell’ambito della medesima unità produttiva, quando questa comprenda uffici dislocati in luoghi diversi. Il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente, infatti, di ritenere
che questa corrisponda alla unità produttiva alla quale fa, invece, riferimento l’art. 2103 c.c. (Corte di Cassazione, n. 24775/2013).
La pronuncia in esame è immune da censure, quindi, perché la Corte territoriale, con accertamento di fatto insindacabile in questa sede, ha operato tale verifica in quanto, sulla base della documentazione prodotta, ha rilevato la sussistenza di numerosi vuoti di organico, destinati alla copertura, per le stesse mansioni della lavoratrice nelle sedi dipendenti della filiale di Fantasia ed ha ravvisato anche un ulteriore profilo, non oggetto di specifiche censure, legittimante la pretesa di Gaia, costituita dal fatto che la madre di quest’ultima era divenuta ultrasessantacinquenne ed era portatrice a sua volta di gravi disabilità con la conseguenza che i presupposti di cui all’art. 33 per ottenere il mutamento di sede comunque si sarebbero realizzati nel giugno del 2010.
Pertanto, l’esigenza di consentire l’effettività del diritto al lavoro della persona in qualche modo svantaggiata a causa dalla situazione di handicap è stata comparata con gli altri interessi implicati senza ritenere, nel caso concreto, lese le esigenze economiche, produttive ed organizzative della società atteso che, se ci sono posti disponibili cui collocare la lavoratrice, non si viola l’iniziativa imprenditoriale ma si contemperano e si bilanciano appunto i due interessi contrapposti.
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