Legge “Spazza corrotti”: prime riflessioni sui nuovi delitti contro la Pubblica amministrazione

Sommario:

1) Breve precisazione preliminare; 2) La riforma “Spazza corrotti”: una legge sulla prescrizione del reato… ed anche sui delitti contro la Pubblica amministrazione; 3) Delitti contro la P.A.: le modifiche apportate rispetto alle fattispecie astratte di reato; 4) Una nuova visione dei delitti dei pubblici agenti contro la Pubblica amministrazione. L’equiparazione con la criminalità di stampo mafioso o terroristico in fase investigativa; 5) La nuova visione dei delitti contro la P.A. permea anche la fase di applicazione della sanzione: dalla ineluttabilità delle sanzioni accessorie all’inserimento dei delitti in parola nel novero dei reati ostativi ex art. 4 bis della Legge n. 354/1975.

1.Breve precisazione preliminare

Si è iniziato a scrivere il presente articolo successivamente all’approvazione in via definitiva, da parte della Camera dei deputati, del Disegno di legge A.C. n. 1189-B (c.d. riforma “Spazza corrotti”), nel periodo che precede la promulgazione della legge da parte del Presidente della Repubblica. Alla data di pubblicazione del presente elaborato, pertanto, ogni riferimento alla testo del disegno di legge summenzionato dovrà essere inteso come fatto al corrispondente testo normativo che sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

 2.La riforma “Spazza corrotti”: una legge sulla prescrizione del reato ed anche sui delitti contro la Pubblica amministrazione

Lo scorso 18 dicembre la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la c.d. riforma “Spazza corrotti”. Si tratta – per la precisione – del testo del disegno di legge[1] di cui all’atto della Camera n. 1189-B, tornato per una seconda lettura a Palazzo Montecitorio dopo l’approvazione con modificazioni avvenuta da parte del Senato in data 13 dicembre 2018[2].

Come lo stesso titolo con cui è stata ribattezzata informalmente fa intendere (il DDL in commento è divenuto noto, infatti, come disegno di legge “Spazza corrotti”), la riforma voluta e presentata al Parlamento dal Ministro della Giustizia, on. Alfonso Bonfede, si prefigge uno scopo ben preciso ed ambizioso: contrastare in maniera efficace, anche in ossequio alle istanze di matrice sovranazionale, il fenomeno criminoso rappresentato dai delitti commessi (principalmente da pubblici funzionari) ai danni della Pubblica amministrazione dello Stato.

Se da un lato il progetto di riforma partiva con questi tanto alti quanto complessi propositi di abbattimento del fenomeno criminoso succitato, dall’altro il sopraddetto disegno di legge è assurto agli onori della cronaca – attirando su di sé le critiche della pressoché totalità dell’universo intellettuale giuridico italiano[3] – principalmente per l’intervento (di portata generale, non limitato quindi alle sole fattispecie di cui al Titolo II- Capi I e II del Libro II del Codice penale) sulla causa di estinzione del reato della prescrizione.

Ciò, in quanto, sin dalle prime fasi dell’iter parlamentare di approvazione del DDL in questione, la riforma anticorruzione Bonafede (A.C. n. 1189, rubricato ufficialmente “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) si è arricchita di un innesto molto importante ed estraneo all’oggetto proprio (ed originario) del disegno di legge. Si tratta delle disposizioni di cui ai “nuovi” commi 1, lett. d), e) ed f), e 2 dell’art. 1 della riforma Spazza corrotti, i quali così recitano: «d) all’articolo 158, il primo comma è sostituito dal seguente:/ “Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato, dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione”;/ e) all’articolo 159: 1) il secondo comma è sostituito dal seguente: “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”;/ f) ) all’articolo 160: 1) il primo comma è abrogato; 2) al secondo comma, la parola: “pure” è soppressa» (art. 1, comma 1, lettere da d) ad f) del DDL in parola); «Le disposizioni di cui al comma 1, lettere d), e) e f), entrano in vigore il 1° gennaio 2020» (art. 1 comma 2).

Per farla breve, oltre ad aver previsto che il termine di prescrizione del reato abbia decorrenza – con riferimento ai casi di c.d. continuazione (art. 81 cpv. c.p.) – dalla consumazione dell’ultimo dei reati posti in essere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso[4], dette disposizioni hanno introdotto un meccanismo in base al quale, per tutte le ipotesi di reato poste in essere a far data dal primo di gennaio 2020[5], la decorrenza del relativo termine di prescrizione rimarrà sospesa, una volta emessa la sentenza di primo grado, sino al raggiungimento dello stato di cosa giudicata con riferimento alla vicenda concreta. E ciò, peraltro, a prescindere dal fatto che detta sentenza di primo grado abbia previsto la condanna dell’imputato oppure il suo proscioglimento; con l’effetto di rendere qualsiasi persona che si trovi rinviata a giudizio – anche coloro che siano stati ritenuti non colpevoli dal Giudice di prima istanza – dei potenziali eterni imputati, con tutti i risvolti pregiudizievoli del caso (si pensi all’impossibilità di accedere a determinati concorsi pubblici, ovvero quella di poter ottenere un impiego presso datori di lavoro privati che richiedono la presentazione del c.d. certificato dei carichi pendenti insieme a quello del Casellario giudiziale, od ancora all’ostacolo che determinate pendenze possono comportare ai fini della richiesta di permesso di soggiorno per un soggetto straniero; le ipotesi di nocumento derivante dalla mera protrazione dello status di imputato oltre limiti ragionevoli potrebbero essere davvero molte).

Che l’interpolazione surriferita sortisse l’effetto di attribuire centralità alla questione sulla prevista sospensione generalizzata della prescrizione del reato, dunque, si presentava estremamente facile da prevedere.

E così, in effetti, è accaduto. Tuttavia, ciò ha comportato che restasse sullo sfondo il radicale mutamento di visione con cui l’odierno Legislatore ha inteso approcciare ai delitti dei pubblici ufficiali ed incaricati di pubblico servizio contro la P.A. La riforma “Spazza corrotti” opera infatti una scelta di politica criminale ben precisa, ossia quella di assimilare – di fatto – i reati contro la P.A. (in particolare, quelli commessi da pubblici agenti) ai delitti di criminalità mafiosa o terroristica. Ciò, se non dal punto di vista della sanzione principale applicata per detto tipo di reati, le quali rimangono nel complesso più miti rispetto a quelle previste per i promotori ed i sodali di un’associazione a delinquere di stampo mafioso, lo si rinviene principalmente analizzando le innovazioni apportate dal DDL A.C. n. 1189-B in materia di accertamento del reato (perpetrato contro la P.A.) e di trattamento sanzionatorio complessivo (pene accessorie, possibilità di accesso a benefici premiali od a misure alternative alla detenzione nella fase successiva alla condanna). Dalla complessiva lettura del testo della “Spazza corrotti”, infatti, si nota un irrigidimento da parte del Legislatore della riforma, il quale ha inteso ricalcare, proprio sotto il profilo dei mezzi investigativi impiegati nel contrasto ai reati di cui al Titolo II del Libro II del Codice penale e del trattamento sanzionatorio che gli è riservato dopo l’irrogazione della pena, quelle forme di contrasto e di prevenzione-rieducazione che sono state sin ora concepite e riservate quasi esclusivamente ai più gravi reati di criminalità organizzata.

Detto modo di approcciare al fenomeno criminoso dei delitti contro la P.A. ci sembra, invero, abbastanza miope, e – come tale – inidoneo a contrastare efficacemente il fenomeno della criminalità interna all’Amministrazione dello Stato, nonché sbilanciato rispetto a quella che dovrebbe essere la funzione eminentemente rieducativa della sanzione penale (latu sensu intesa)[6].

In ragione di questa discesa in secondo piano di quello che sarebbe l’oggetto proprio (ed originario) della riforma Bonafede, si è deciso di dedicare questa trattazione all’analisi delle novità in materia di contrasto ai delitti dei pubblici agenti contro la P.A., suddividendo la disamina in tre parti: 1) innovazioni apportate alle fattispecie astratte di reato rilevanti in materia; 2) modifiche rilevanti sotto il profilo accertativo riferito alla tipologia di illeciti de qua; 3) mutamenti nel trattamento sanzionatorio.

Ciò che, tuttavia, preme rilevare sulla questione della prevista sospensione post sentenza di primo grado del termine di prescrizione del reato, riguarda quella logica – a più riprese riproposta dai fautori e sostenitori del DDL in commento – in base alla quale un’eventuale ulteriore riforma del procedimento penale, che consentisse un’effettiva contrazione dei tempi generali di svolgimento del nostro procedimento penale, da approvarsi nel periodo intermedio tra la data di promulgazione della Spazza corrotti e la prevista entrata in vigore delle disposizioni indicate al summenzionato comma 2 dell’art. 1 del medesimo testo normativo (quindi, entro la fine dell’anno 2019), scongiurerebbe ogni effetto pregiudizievole legato alle modifiche apportate in tema di sospensione post sentenza di primo grado del termine di prescrizione del reato.

L’argomentazione, ad esser sinceri, non ci convince affatto per due ordini di ragioni: primum, perché l’approvazione nei tempi prefissi di un’ulteriore riforma del procedimento penale, con tutte le complessità e difficoltà che uno sforzo riformatore di tal portata comporta, si presenta come tutt’altro che scontata (anzi, è forte la probabilità che ridisegnare l’intero procedimento penale, così da poter concretamente raggiungere un livello di efficienza tale per cui divenga la regola il rispetto del principio di ragionevole durata costituzionalmente sancito, richieda tempi ben più lunghi dei trecentosessantacinque giorni previsti); secundum, poiché – così come le due vicende Taricco[7] e Melloni[8] insegnano – sussiste una non trascurabile differenza tra diritti di natura sostanziale (quale la prescrizione del reato, che per l’appunto sortisce l’effetto di estinguere il reato una volta spirato il relativo termine) e diritti di natura processuale. Questi ultimi, infatti, presentano una capacità di resistenza minore rispetto ai mutamenti normativi o ad esigenze di conformazione ed ottemperanza rispetto ad impegni assunti sul piano internazionale. Congelare totalmente il termine di prescrizione del reato, una volta emessa la sentenza di primo grado, ed affidare il rispetto del principio di ragionevole durata del procedimento ad altre disposizioni che saranno inserite nel codice di rito, significa, nei fatti, far mutare natura al diritto dell’indagato/imputato a non restare sottoposto a procedimento penale a tempo indeterminato. Da diritto sostanziale, qual è oggi quello presidiato dall’istituto della prescrizione del reato (artt. 157-161 c.p.; art. 25 comma 2 Cost.), diverrebbe una guarentigia squisitamente processuale, che – proprio perché affidata a norme processuali, e non più a norme di diritto penale sostanziale – non potrebbe che essere sottoposta alla regola del tempus regit actum[9] (più debole rispetto al principio generale di irretroattività della legge penale sfavorevole, di cui al succitato art. 25 Cost.) ed esposta agli imprevedibili mutamenti interpretativi della giurisprudenza nazionale e – soprattutto – di quella sovranazionale (con tutti i connessi effetti in punto di diretta applicabilità delle regole di diritto individuate da detto tipo di Alti consessi).

A fronte di detto sottaciuto mutamento di natura di un istituto che costituisce un’importante garanzia per l’imputato, la giustificazione che è stata fornita all’indomani della presentazione del testo emendato del DDL in parola (con l’inserimento della previsione di un’entrata in vigore differita per le disposizioni sulla sospensione della prescrizione dopo il primo grado), ossia che con la ulteriore riforma del procedimento penale non vi saranno rischi di un allungamento dei tempi di celebrazione dei processi, non può che sembrare – a parere di chi scrive – poca cosa e, per di più, profondamente illogica.

Non si comprende, infatti, come mai, se l’obiettivo della maxi-riforma che il Governo ha in cantiere per il prossimo futuro è quello di portare ad una sensibile contrazione dei tempi del procedimento penale, si sia sentito il bisogno di eliminare (di fatto, in via generalizzata) la garanzia del termine di prescrizione del reato, il quale – se si considerano gli interventi operati con la c.d. Riforma penale Orlando, entrata in vigore il 3 agosto 2017, attraverso i quali si è introdotto un meccanismo di sospensione della decorrenza dei termini di prescrizione, anche qui dopo la sentenza di primo grado, complessivamente pari a tre anni[10] – già si attestava, per le ipotesi meno gravi di delitto, intorno ai dieci anni e sei mesi (se il procedimento si fosse spinto fin nelle aule della Suprema corte di Cassazione).

Con l’intento (dichiarato a più riprese) di accorciare i procedimenti penali, si prevede – intanto – di dilatarli potenzialmente per tutta la vita dell’imputato; una conclusione che, ci sembra, finisce per contraddire – e non di poco – le proprie premesse.

3.Delitti contro la P.A.: le modifiche apportate rispetto alle fattispecie astratte di reato

Come affermato poco sopra, la prima parte di questo elaborato ha lo scopo di fornire alcune riflessioni – per quanto risulta possibile in questa sede – sul DDL “Spazza corrotti” approvato dalla Camera in via definitiva lo scorso 18 dicembre, con specifico riferimento a quello che avrebbe dovuto essere il suo oggetto proprio, ossia ai delitti contro la P.A.

In una ipotetica tripartizione dei settori di intervento della novella, si potrebbe anzitutto guardare a quelle che sono state le modifiche operate da un punto di vista – per così dire – edittale[11]. Tra queste, prima a risaltare agli occhi è la previsione, all’art. 1 comma 1 lett. l) del DDL in parola, dell’introduzione di un ulteriore periodo all’art. 316 ter comma 1 c.p., in base al quale «la pena è della reclusione da uno a quattro anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri».

Il mutamento riguarderà, dunque, la fattispecie di indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato, che – nella sua ipotesi base – punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni «chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee».

Orbene, di fronte al testo della novella Bonafede, il primo pensiero che sovviene alla mente è un interrogativo circa la natura giuridica del nuovo innesto: si tratta di una fattispecie autonoma di reato (proprio) o di una circostanza aggravante speciale?

Il quesito non è di poco momento, considerato che l’eventuale riconduzione della nuova figura nell’alveo delle circostanze aggravanti del reato comporterebbe la possibilità di un bilanciamento ex art. 69 c.p. con eventuali circostanze attenuanti ritenute sussistenti nel caso concreto; viceversa, in caso di riconosciuta autonomia dell’ipotesi di cui al 316 ter- ultimo periodo c.p., si dovrebbe comunque considerare come pena edittale base la reclusione da uno a quattro anni, anche laddove nel caso concreto vi fossero solo circostanze attenuanti o – comunque – queste ultime fossero da considerare prevalenti rispetto ad ogni altra aggravante contestata.

Nonostante una non perfetta sovrapponibilità col testo della circostanza aggravante già prevista al n. 9 dell’art. 61 c.p., la forte somiglianza di formulazione che sussiste tra le due disposizioni appena menzionate[12], unitamente al criterio sistematico, fanno propendere per la riconducibilità dell’ipotesi de qua nel novero delle circostanze aggravanti speciali, di tipo indipendente, contemplate dal Codice penale.

Il fatto che il Legislatore della riforma “Spazza corrotti” abbia scelto di inserire un ulteriore periodo all’interno del comma primo dell’art. 316 ter c.p., mostrerebbe – così si reputa – l’intenzione di continuare a concepire il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche, sopra la soglia di € 3.999,96, come un unicum dal punto di vista della fattispecie astratta, aggravato nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere dal pubblico agente attraverso il proprio comportamento antidoveroso, e non come una duplice ipotesi di delitto (delitto comune, da una parte, posto in essere da un quivis de populo e precipuamente lesivo del “solo” bene dell’imparzialità della P.A.[13]; delitto proprio dei pubblici agenti, lesivo – non soltanto del bene dell’imparzialità della P.A. – ma anche del prestigio della stessa, dall’altra).

Va da sé che, una volta inquadrata l’innovazione in parola nel novero delle circostanze aggravanti speciali, essa dovrà trovare applicazione – per detta ipotesi di reato – in via esclusiva rispetto all’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 9 c.p., così come prevede espressamente la clausola di riserva contenuta nel comma primo di quest’ultima disposizione («aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali…»).

Altra modifica apportata sotto il profilo della conformazione astratta dei delitti contro la P.A. è quella contenuta nelle lettere s) e t) dell’art. 1 comma 1 del DDL Bonafede, le quali – rispettivamente – abrogano il delitto di c.d. millantato credito e riformulano la disposizione di cui all’art. 346 bis c.p. (Traffico di influenze illecite).

Con riferimento a queste due figure di illecito, si registra un triplice cambiamento.

Anzitutto, si osserva che il reato di millantato credito viene dal legislatore della riforma in commento fatto letteralmente trasmigrare all’interno della fattispecie di traffico di influenze illecite, prevedendo difatti, al nuovo comma primo dell’art. 346 bis c.p., che il reato de quo possa dirsi ora integrato, non soltanto dal materiale sfruttamento di una relazione concretamente esistente tra il soggetto che si propone come intermediario ed il pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio, ma anche dalla mera vanteria di una qualche influenza su taluno dei soggetti qualificati ex artt. 357 e 358 c.p. E – quale effetto di questa trasmigrazione di fattispecie – viene così prevista anche la punibilità del privato che si fa convincere dal millantatore a dare o promettere l’utilità indebita; cosa che, con riferimento all’originaria ipotesi del millantato credito, non era affatto prevista. Il privato “compratore di fumo”, nell’ipotesi di cui all’art. 346 c.p., era infatti considerato – tale l’orientamento prevalente in giurisprudenza – alla stregua di un soggetto danneggiato da reato, al pari – seppur per ragioni differenti – del pubblico funzionario leso nell’onore dalla vanteria del soggetto agente.

Con specifico riferimento alla nuova figura di traffico di influenze illecite, poi, due ulteriori modifiche si reputano assolutamente rilevanti:

  1. il tornaconto che caratterizza l’agire del soggetto che si propone di fare da tramite tra il privato ed il pubblico ufficiale perde l’originaria connotazione di tipo strettamente economico (l’art. 346 bis comma 1 ante-riforma fa riferimento all’ottenimento od alla promessa di denaro o di altro «vantaggio patrimoniale»). Ad integrare la nuova ipotesi “allargata” di delitto sarà l’ottenimento (o la promessa) di una qualsiasi «utilità» per il soggetto intermediario; quindi, teoricamente, anche il mero appagamento psicologico potrebbe essere ritenuto utilità ai sensi dell’art. 346 bis c.p.;
  2. la condotta rilevante per la disposizione in parola non avrà più ad oggetto solamente quei fatti che potrebbero essere ricondotti al paradigma della c.d. corruzione propria (ossia, atti contrari ai doveri derivanti dalla pubblica funzione o dal pubblico servizio esercitati; ritardo/omissione di atti che sarebbero dovuti da parte del pubblico agente)[14], ovvero al modello della c.d. corruzione in atti giudiziari[15], bensì tutti quei comportamenti che – astrattamente – potrebbero rientrare nell’ipotesi generale di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.)[16].

La combinazione dei due interventi or ora citati, invero, suscita alcune perplessità. Il fatto di aver allargato le maglie del traffico di influenze illecite potenzialmente a tutte le ipotesi prodromiche rispetto anche alla corruzione di tipo improprio, unitamente al fatto che il vantaggio perseguito dal soggetto intermediario non necessariamente dovrà avere natura patrimoniale (ben potendo concretarsi in un’utilità di tipo squisitamente morale o psicologico), potrebbe invero dare adito ad interpretazioni protese a ricomprendere nell’alveo applicativo della fattispecie de qua condotte che, di per sé, non sembrano poter sortire effetti distorsivi rispetto all’azione od alla formazione (e manifestazione) della volontà della P.A. Il pensiero va, ad esempio, al fenomeno delle c.d. raccomandazioni “innocue”, ossia a quel tipo di esortazioni effettuate senza una contropartita venale e che non posseggono alcuna capacità condizionante rispetto al processo decisionale del pubblico agente[17].

Invero, ad evitare sviamenti che conducano ad una criminalizzazione cieca di ogni tipo di condotta che abbia lo scopo di agevolare il contatto tra Pubblica amministrazione e privati (si pensi, per fare un altro esempio, ad una consulenza) soccorre proprio l’ermeneutica del testo normativo; in primis, nella misura in cui risulta possibile attribuire all’aggettivo «illecita», accostato all’azione di mediazione posta in essere da uno dei soggetti agenti, una funzione selettiva atta a delimitare l’area di applicabilità dell’art. 346 bis c.p. (quantomeno, rispetto alle condotte di c.d. mediazione onerosa).

Va precisato, infatti, che la fattispecie de qua può ritenersi integrata attraverso una duplice modalità di realizzazione: a) condotte di c.d. mediazione onerosa, in cui l’intermediario chiede al privato una somma od un altro tipo utilità quale prezzo per la propria azione di condizionamento verso il pubblico funzionario; b) condotte di mediazione gratuita, in cui il denaro od il vantaggio richiesti al privato non appaiono formalmente destinati a remunerare l’intermediario, bensì direttamente il pubblico agente, per la “prestazione” posta in essere in qualità funzionario della P.A.

Tuttavia, mentre rispetto alle ipotesi di mediazione gratuita l’allargamento della tipologia di comportamenti punibili a quelle condotte che potrebbero potenzialmente sfociare in una corruzione “impropria” suscita meno problemi (per la funzione discriminatoria implicita integrata dal fatto che l’utilità – in questo caso specifico – debba essere poi, in un secondo momento, trasmessa dall’intermediario al pubblico agente, dovendosi dunque necessariamente estrinsecare in qualcosa di tangibile, sì da rendere palese l’intento di mercificare la funzione pubblica od il pubblico servizio), rispetto alle ipotesi di c.d. mediazione onerosa si incontrano – per l’appunto – tutte le difficoltà surriferite.

Posto che l’azione dello sfruttare un qualunque tipo di relazione venutasi a creare tra il soggetto che assume il ruolo di intermediario ed uno o più pubblici agenti si presta ad essere estesa sino a ricomprendere qualunque tipo di legame sussistente tra funzionario della P.A. e soggetto agente (ivi compresa la mera conoscenza e stima professionale), è dunque solo considerando adeguatamente il richiamo che viene fatto dalla disposizione in parola al carattere intrinsecamente illecito che deve possedere la condotta di mediazione che appare possibile operare una valida selezione tra situazioni in cui l’attività di intermediazione tra privato e Pubblica amministrazione non sembra idonea ad esporre a pericolo l’imparzialità e/o il buon andamento della P.A.[18] e situazioni in cui, invece, detto pericolo sussiste obiettivamente. Dette situazioni, invero, si ritiene che coincidano esclusivamente con quel tipo di intese tra privato e soggetto intermediario che appaiono finalizzate a fare in modo che il pubblico agente compia atti contrari ai propri doveri d’ufficio (ivi compresi i primari doveri di imparzialità, correttezza e trasparenza nell’azione amministrativa), ovvero ometta o ritardi l’adozione di atti dovuti.

Solo quest’ultimo tipo di condotte, infatti, appare – a parere di chi scrive – connotato da quell’intrinseca illiceità che è richiesta dalla disposizione dell’art. 346 bis c.p., essendo esse inequivocabilmente dirette a porre su un piano deteriore gli interessi pubblici rispetto a quelli del privato che offre il denaro o l’altro tipo di utilità a colui che si rende disponibile a svolgere il ruolo di mediatore. Ed è – peraltro – soltanto questa tipologia di condotte che può ritenersi idonea ad integrare quella particolare situazione di pericolo che giustifica l’arretramento della tutela penalistica ad una fase che appare come meramente prodromica rispetto ad un’eventuale ipotesi di corruzione.

Sempre in riferimento alle modifiche che interessano un punto di vista squisitamente edittale, si segnala, infine, sia un allargamento del novero dei reati che risulteranno procedibili d’ufficio ex art. 649 bis c.p. (e che riguarderanno tutte quelle ipotesi di truffa aggravata ex artt. 640 comma 2 o 61 n. 7 c.p., di fronde informatica aggravata, od ancora di appropriazione indebita aggravata ex artt. 646 co. 2 o 61 n. 11 c.p., che risulteranno commessi nei confronti di un soggetto incapace per età od infermità, ovvero che abbiano apportato alla vittima un danno di rilevante gravità; v. art. 1 comma 1 lett. v) DDL A.C. n. 1189-B), sia un mutamento nell’approccio ai fenomeni di corruzione anche qualora essi interessino esclusivamente i rapporti tra i soggetti privati.

In particolare, con riferimento a quest’ultima tipologia di intervento, si prevede – al comma 5 dell’art. 1 del DDL A.C. n. 1189-B – l’abrogazione tout court dei commi quinto dell’art. 2635 del Codice civile e terzo dell’art. 2635 bis c.c., intervenendo dunque sulle disposizioni che disciplinano le ipotesi di c.d. corruzione tra privati e di istigazione alla corruzione tra privati, e prevedendo altresì l’eliminazione di quelle parti del testo normativo che subordinavano la persecuzione degli illeciti in parola alla condizione di procedibilità della querela.

L’aver reso detti reati procedibili d’ufficio, anche qualora non assumano risvolti tali da interessare – in qualche maniera – la cosa pubblica, ci pare il frutto di una mentalità rigoristica poco attenta rispetto alle esigenze della Giustizia penale nel periodo storico attuale, che – e ne è prova il generale “intasamento” di procure della Repubblica, tribunali e corti dello Stato, che determina peraltro un consistente allungamento dei tempi di pendenza dei procedimenti penali – necessiterebbe, tra le altre cose, oltre ad un complessivo “alleggerimento” del sistema rispetto a quelle fattispecie di reato che non destano effettivo allarme sociale (o rispetto a fenomeni il cui contrasto si presenterebbe come più efficace se portato avanti con strumenti differenti dalla sanzione criminale), che l’attivazione spontanea ed irretrattabile della macchina giudiziaria fosse mantenuta solo per quei casi in cui sia ravvisabile un interesse pubblico rilevante alla persecuzione dell’illecito.

Questi gli interventi compiuti dal punto di vista edittale. Non resta, dunque, che addentarci nel cuore del cambiamento che il Legislatore della riforma anticorruzione giallo-verde ha previsto di introdurre nel sistema di accertamento e repressione dei reati contro la Pubblica amministrazione.

4.Una nuova visione dei delitti dei pubblici agenti contro la Pubblica amministrazione

È infatti con riferimento alla fase dell’accertamento del reato, con i relativi mezzi che l’ordinamento ha previsto di dispiegare nel contrasto del fenomeno criminoso dei reati contro la P.A., che si notano i segni di un’equiparazione, tanto marcata quanto – forse – inadeguata (per via delle innegabili differenze che sussistono tra i due termini di paragone), con i delitti di stampo mafioso.

Viene anzitutto prevista l’introduzione di una inedita causa di non punibilità per chi, avendo commesso uno dei fatti di cui agli artt. 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 bis[19], 353, 353 bis o 354 c.p., «prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili» (nuovo art. 323 ter c.p., di cui è prevista l’introduzione da parte dell’art. 1 comma 1 lett. r) DDL A.C. n. 1189-B).

Detta nuova causa di non punibilità, che – per certi versi – ricorda la figura del c.d. pentito nei reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, è infatti da considerare “strumento di accertamento” del reato, in quanto affida il disvelamento e la repressione del patto corruttivo alla delazione del correo, il quale, stimolato dall’allettante prospettiva di beneficiare di una totale esenzione da pena, entro i primi quattro mesi dal perfezionamento dell’illecito potrà decidere di autodenunciarsi, denunciando al contempo gli altri concorrenti nel reato (pubblici agenti o privati, a seconda della parte del pactum sceleris incarnata dal delatore) e – eventualmente – anche gli autori di altri reati collegati al proprio (ad esempio, i titolari di altre imprese che partecipavano alla medesima gara di appalto per cui correva l’impresa del delatore, e che avevano – a loro volta – promesso al pubblico ufficiale, responsabile del procedimento di aggiudicazione, denaro od altro tipo di utilità in cambio dell’assegnazione dell’appalto).

La disposizione non chiarisce, invero, se la notizia dell’esistenza di un’indagine a proprio carico, che è prevista quale condizione negativa per l’accesso al beneficio de quo, debba essere interpretata come conoscenza di tipo ufficiale[20], ovvero possa considerarsi sufficiente – sempre al fine di escludere l’applicazione della causa di non punibilità in parola – anche la mera conoscenza informale dell’avvenuta iscrizione del proprio nominativo nel registro delle notizie di reato.

L’incertezza in proposito assume un certo rilievo, in quanto l’una o l’altra opzione interpretativa condizionerà – non di poco – la concreta applicazione dell’istituto.

Se infatti si opta per la necessità di una conoscenza di tipo formale, circa l’esistenza di un procedimento penale a proprio carico, allora le maglie del beneficio de quo diverrebbero così ampie da poter, da una parte, spingere le stesse Autorità inquirenti a ritardare deliberatamente l’iscrizione del nominativo dell’indagato nel relativo registro ex art. 335 c.p.p., al fine di stimolare – con maggiore possibilità di riuscita – l’eventuale resipiscenza del possibile delatore di turno, una volta chiamato a rendere sommarie informazioni ex artt. 362 e 351 c.p.p. (prima che, ovviamente, in sede di escussione, emergano conclamati indizi di reità a suo carico); dall’altra, garantire all’indagato, laddove risultasse così fortunato da aver ricevuto notizia informale della pendenza di un procedimento penale iscritto nei propri riguardi (entro quattro mesi dalla commissione del fatto), la possibilità di ottenere una comoda scappatoia rispetto agli altri concorrenti nel reato (o ad eventuali scomodi avversari in contesti di competizione per delle gare di appalto indette dalla P.A.).

Nel caso in cui, invece, si ritesse sufficiente anche solo una conoscenza di tipo generico ed informale circa lo svolgimento di indagini a proprio carico, sempre al fine di escludere l’applicabilità della causa di non punibilità in parola, non si potrebbe lo stesso affermare che l’opzione ermeneutica conduca a più soddisfacenti esiti, producendo – di fatto – una potenziale situazione di seria incertezza applicativa e disparità di trattamento.

Interpretato in tale ultima maniera, infatti, l’art. 323 ter c.p. non distinguerebbe quelle situazioni in cui vi sarebbe una conoscenza diretta ed effettiva da parte dell’indagato-potenziale delatore dell’esistenza di un procedimento penale a proprio carico da quelle in cui detto tipo di conoscenza potrebbe essere soltanto di tipo indiretto ed eventuale, ossia ricavata da informazioni – anche sommarie ed incomplete – ricevute da soggetti terzi, quali i mass media. Se così fosse, allora, in considerazione di questa pressoché totale sovrapponibilità di situazioni, risulterebbe alquanto facile disconoscere a posteriori la spontaneità di “pentimenti” intervenuti con riferimento a vicende di interesse mediatico (oppure che avessero comunque avuto un qualunque tipo di diffusione esterna agli organi inquirenti), fondando detto successivo disconoscimento della causa di non punibilità de qua sull’esistenza di una conoscenza di tipo indiretto, da parte dell’indagato/imputato, circa la pendenza del relativo procedimento. E, in tale ottica, potrebbe – per assurdo – riproporsi, con preoccupante possibilità di diffusione, finanche la classica formula del “non poteva non sapere che…” (detto caso concreto fosse divenuto oggetto di indagine da parte di una determinata Procura della Repubblica).

Ma vi è di più. A farci dubitare di questo nuovo “mezzo di contrasto” alla corruzione è soprattutto l’alta possibilità che esso venga strumentalizzato da parte degli stessi corrotti o corruttori, al solo fine di far “inchiodare” l’altra parte dell’accordo corruttivo; oppure allo scopo di ottenere dei vantaggi indebiti rispetto ad altri eventuali competitors nella procedura di aggiudicazione di appalti od erogazioni pubbliche. Il rischio è che detto strumento di “riabilitazione” del proprio comportamento illecito sia sfruttato quale vera e propria opzione strategica (alla stregua di un preordinato “piano B”) finalizzata a minimizzare le perdite nel caso in cui, nell’ambito di un sistema di bustarelle corrisposte per ottenere un appalto od un altro beneficio di fonte pubblica, coloro che andranno poi ad offrendosi all’Autorità giudiziaria quali potenziali delatori siano rimasti insoddisfatti rispetto all’esito che ha avuto un determinato procedimento amministrativo.

Invero, la normativa introdotta dalla riforma Bonafede ha previsto siffatto tipo di distorsioni. Ed avrebbe allo scopo inserito, nel comma terzo della introducenda disposizione dell’art. 323 ter c.p., un’ipotesi di esclusione dell’applicabilità della causa di non punibilità in commento, legata al fatto che l’idea di divenire un delatore fosse stata preordinata rispetto alla commissione dell’illecito.

Se l’aver previsto un meccanismo di disinnesco rispetto ai possibili sviamenti che possono prodursi in sede di applicazione quotidiana dello “strumento” de quo è sicuramente un dato positivo, tuttavia non può sottacersi il fatto che – in concreto – la prova della preordinazione della delazione rispetto alla commissione dell’illecito sia estremamente difficile da reperire nella realtà.

Non potendo indagare il foro interno delle persone, non si potrà mai conoscere con certezza (al di la di ogni ragionevole dubbio) se il soggetto che ha operato la delazione, nelle ipotesi di cui agli esempi surriferiti, abbia avuto sin dall’inizio in mente una “exit strategy” per il caso in cui la propria azione corruttiva non avesse sortito gli effetti auspicati. Per di più, laddove il contributo si rilevi utile agli organi inquirenti, vi potrebbe essere anche poco interesse, da parte di questi ultimi, ad impiegare le proprie risorse ed il proprio personale nella ricerca di un pregresso ordito che sarebbe stato tramato dal “pentito” di turno; ciò, infatti, risulterebbe funzionale esclusivamente al fine di affossare la figura (e la credibilità, in sede di escussione dibattimentale) della propria fonte di prova testimoniale, finendo per essere controproducente rispetto ai propositi di ottenere rapidi risultati sotto il profilo della repressivo.

Passando agli altri “indizi” di un’equiparazione, almeno dal punto di vista investigativo, tra delitti contro la P.A. e delitti di criminalità organizzata o terroristica, non si può non citare quelle modifiche che la riforma “Spazza corrotti” ha previsto di apportare con riferimento al mezzo di ricerca della prova delle intercettazioni.

Il Legislatore della riforma pare infatti aver avuto alla mente l’idea che, per contrastare efficacemente la corruzione all’interno della Pubblica amministrazione, bisognasse operare un monitoraggio “H24” dei propri funzionari ed agenti, anche all’interno delle proprie abitazioni; ed anche a prescindere dal fatto che all’interno del proprio domicilio essi stiano svolgendo un’attività criminosa. Si potrà in tal maniera indagare il privato delle persone (pubblici agenti o potenziali corruttori), così come è previsto si possa fare al fine di ricostruire la complessa struttura e le dinamiche interne di un sodalizio criminale di stampo mafioso. Le modifiche operate, sia sul D.Lgs. n. 216/2017 (emanato in attuazione della delega contenuta nella legge n. 103/2017; c.d. riforma Orlando), che sulle disposizioni del codice di rito che disciplinano il mezzo di ricerca della prova de quo, sembrano infatti deporre tutte in tal senso.

Viene anzitutto prevista[21] l’abrogazione del comma secondo dell’art. 6 D.Lgs. n. 216/2017 (articolo dedicato alle disposizioni di semplificazione per l’uso dello strumento delle intercettazioni in relazione ai più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la P.A.), a mente del quale: «L’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa».

Viene poi previsto, nell’intento di compiere un opportuno coordinamento con la modifica appena considerata e contenuta nella previsione del comma 3 dell’articolo unico del DDL A.C. n. 1189-B, che l’intercettazione di comunicazioni inter praesentes, compiute con captatore informatico, sia sempre consentita, non solo con riferimento alle ipotesi di cui ai succitati commi 3 bis e 3 quater dell’art. 51 c.p.p., ma anche per «i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata ai sensi dell’art. 4 [c.p.p.]» (v. art. 266 comma 2 bis c.p.p., così come modificato dall’art. 1 comma 4, lett. a) DDL A.C. n. 1189-B); e che il decreto che autorizza l’intercettazione ambientale mediante captatore informatico, con riferimento a siffatta tipologia di delitti contro la P.A., possa essere emesso (validamente) anche senza l’indicazione «dei luoghi e del tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono» (cfr. art. 267 comma 1 c.p.p., come riscritto dall’art. 1 comma 4 lett. b) DDL A.C. n. 1189-B).

Ora, in conseguenza del complessivo mutamento che viene apportato in materia di intercettazioni, in relazione a quei delitti di cui al Titolo II- Capo I del Libro II del Codice penale che risultano puniti con la pena edittale della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, le intercettazioni ambientali intradomiciliari, effettuate con l’uso dei programmi c.d. Trojan horse, non dovranno più essere sorrette dal requisito della c.d. suspicio perdurantis criminis, previsto in linea generale – salvo i casi di procedimenti per gravi delitti associativi o di matrice terroristica (cfr. art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p.)dall’art. 266 co. 2 c.p.p.; né si dovrà più, con riferimento alla fase autorizzativa che precede il decreto del P.M. che dispone materialmente il mezzo di ricerca della prova in questione, aver cura di delimitare, attraverso l’indicazione preventiva e specifica di luoghi in cui sarà consentito attivare la cimice informatica che verrà installata sui vari dispositivi portatili a disposizione del soggetto-bersaglio delle intercettazioni, l’area di intrusività che potrà assumere l’attività captativa rispetto alla vita privata dell’indagato.

Invero, anche sotto questo profilo, l’equiparazione tra delitti di cui ai commi 3 bis e 3 quater dell’art. 51 c.p.p. e delitti dei pubblici agenti contro la P.A. puniti con la reclusione non inferiore a cinque anni nel massimo (ossia, praticamente, con riferimento a tutte le ipotesi di concussione e corruzione contemplate dal Codice penale) non ci convince.

Si tratta, infatti, di due tipologie di fenomeno criminoso molto diverse tra loro (quantomeno, così si ritiene per nostra sommessa opinione), in quanto, da un parte, si hanno ipotesi di reato caratterizzate dall’esistenza di un consorzio criminoso votato alla commissione di una pluralità, varia ed indeterminata, di fattispecie illecite, in cui è punito e perseguito il fatto stesso di far parte dell’associazione illecita (si tratta di ipotesi di reato in cui la prova del predetto legame non potrà che ricercarsi nell’osservazione delle dinamiche relazionali dei componenti del gruppo); dall’altra parte, ossia con riferimento ai reati contro la P.A., si hanno invece delle ipotesi di reato che – per quanto possano essere commesse attraverso un concorso di persone, ovvero esplicitarsi per mezzo di una serialità di condotte simili tra loro – appaiono sempre e comunque connotate da un incontro specifico (e circoscritto) tra domanda ed offerta di prestazioni contrarie ai doveri derivanti dal pubblico incarico esercitato da uno dei due soggetti agenti.

È solo con riferimento ai due momenti dell’incontro di volontà e dell’eventuale esecuzione del pactum sceleris che ha senso la ricerca della prova, e non rispetto a dinamiche relazionali chissà come dissimulate tra una cerchia potenzialmente indefinita di soggetti.

Se così stanno effettivamente le cose, allora il fatto di poter esercitare un monitoraggio ventiquattr’ore su ventiquattro, con riferimento a qualsiasi spazio occupato da uno dei due concorrenti necessari nel reato (dall’ufficio alla camera da letto del pubblico ufficiale, ad esempio), non può che apparire uno strumento di eccessiva compressione della libertà personale di coloro che si troveranno sottoposti a procedimento penale per taluna delle ipotesi di reato di cui agli artt. 317 ss. c.p.

L’inserimento di un mezzo siffatto nel novero degli strumenti investigativi a disposizione per il contrasto ai reati contro la P.A., ricorda – per certi versi – l’aneddoto che ha come protagonista quel soggetto che, per disinfestare la propria casa da dei parassiti, decise di utilizzare un lanciafiamme; uno strumento sicuramente efficace (come, del resto, sarà sicuramente efficace la possibilità di effettuare un monitoraggio a trecentosessanta gradi del pubblico agente o dell’ipotetico corruttore, in quanto – nella continuità – si avrà sicuramente modo di registrare il momento in cui l’indagato si accorda con la controparte, ovvero adempie alla propria prestazione del contratto illecito), ma che comporta dei rischi decisamente troppo alti se confrontati ai benefici. E, per quanto riguarda l’oggetto di questo scritto, il rischio principale è quello di una compressione ingiustificata di uno dei beni primari dell’individuo: la propria privacy intradomiciliare (artt. 2 e 14 Cost.).

Venendo all’ultimo “strumento” che viene messo a disposizione delle Autorità inquirenti dalla riforma Bonafede, non si può non considerare quello che – per molto tempo, prima dell’emendamento sulla prescrizione del reato – ha polarizzato il dibattito sulla riforma, ossia la figura dell’agente infiltrato.

Si prevede, infatti, alla disposizione dell’articolo 1 comma 8 DDL A.C. n. 1189-B, che l’art. 9 della Legge n. 146/2006 (testo normativo complessivamente dedicato alla ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001) sia riscritto nel senso di prevedere che gli ufficiali od agenti di Polizia giudiziaria possano compiere operazioni sotto copertura – a breve sarà anche specificato cosa debba intendersi con detta espressione – anche con riferimento alle ipotesi di reato previste dagli artt. 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater– primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 346 bis, 353 e 353 bis c.p.; con riferimento, quindi, a molte delle ipotesi di delitto contro la Pubblica amministrazione.

Per operazioni sotto copertura deve intendersi quella serie di operazioni, espressamente indicate dalla disposizione dell’art. 9 della Legge n. 146/2006, che si inseriscono nella dinamica di sviluppo naturale del reato (o della pluralità di ipotesi di reato) oggetto d’indagine, e che vanno dal compimento di atti preliminari a condotte agevolatrici rispetto al perfezionamento della fattispecie illecita. In ogni caso, ed è per questo che deve – più propriamente – parlarsi di agente infiltrato, e non di agente provocatore, le condotte de qua non debbono mai esser tali da innescare la progressione che porta all’integrazione del reato, ma possono soltanto inserirsi in dinamiche già avviate da altri. Così era previsto nel dettato “originale” della disposizione dell’art. 9 succitato; così rimarrà dopo l’entrata in vigore della legge “Spazza corrotti”.

Recita, infatti, il dettato del riformato art. 9, comma 1- lett. a), Legge n. 146/2006: «Fermo quanto disposto dall’articolo 51 del codice penale, non sono punibili: a) gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis, 452-quaterdecies, 453, 454, 455, 460, 461, 473, 474, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter, nonché nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione I, del codice penale, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché ai delitti previsti dal testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e dall’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro o altra utilità, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto, prezzo o mezzo per commettere il reato o ne accettano l’offerta o la promessa o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego ovvero corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o per remunerarlo o compiono attività prodromiche e strumentali».

Come ben si può notare dalla lettura del testo normativo, costituisce un indice rilevante della volontà del Legislatore di escludere che l’agente infiltrato possa agire in maniera tale da indurre taluno al compimento del reato il fatto che le azioni esecutive di un ipotetico patto corruttivo, che l’operante di P.G. è autorizzato a compiere sotto l’egida della causa di non punibilità di cui alla disposizione in parola, debbano necessariamente essere afferenti ad un accordo illecito «già concluso da altri». L’agente infiltrato potrà dunque, anche in seguito alla riforma Bonafede, essere complice nel reato e concorrere con gli autori originari al suo compimento; non potrà mai, tuttavia, assumere l’iniziativa e farsi promotore di un comportamento delittuoso.

Non si ravvisa, pertanto, il pericolo che venga indagata penalmente la moralità dei pubblici agenti, cioè la loro capacità di resistere “alle tentazioni” di una condotta criminale. Si ritiene, tuttavia, che vi sia, anche qui, un problema di equiparazione tra fenomeni criminosi molto diversi tra loro, e che anche lo strumento de quo sia più una sorta di vessillo, da sventolare innanzi all’elettorato nazionale, che un’arma efficace da impiegare nell’accertamento e nella repressione dei reati commessi a danno della Pubblica amministrazione.

Posto che l’agente infiltrato non potrà mettere alla prova la capacità del pubblico agente di resistere innanzi ad un’offerta corruttiva, poiché – come abbiamo appena visto – egli può solo inserirsi in dinamiche illecite già instaurate da altri, e posto che il fenomeno criminoso della corruzione o della concussione non appare caratterizzato dalla creazione di un sistema sociale destinato a protrarsi nel tempo (quale, ad esempio, una consorteria malavitosa), ma – al più – come una pluralità di singoli episodi avvinti sotto il vincolo della c.d. continuazione criminosa, non si riesce a vedere come possa un elemento esterno alla diade criminale corruttore-corrotto, che con tutta probabilità non avrà né tempo né modo di conquistarsi la fiducia di almeno uno di questi soggetti (tanto da essere invitato a “far parte del gioco”, con annessa suddivisione dei profitti), agire efficacemente al fine di apportare alle investigazioni elementi rilevanti e con una maggiore efficacia rispetto ad altri mezzi di ricerca della prova, quali – ad esempio – le intercettazioni telefoniche ovvero le intercettazioni ambientali compiute nei locali appartenenti alla Pubblica amministrazione.

Anche per questo, quindi, l’equiparazione tra reati contro la P.A. e reati di criminalità organizzata suscita profonde perplessità.

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5.La nuova visione dei delitti contro la P.A. permea anche la fase di applicazione della sanzione

L’intento di porre sullo stesso piano i più gravi delitti di criminalità organizzata e gli illeciti perpetrati ai danni della P.A. emerge in modo ancor più palese dalla lettura delle disposizioni della riforma “Spazza corrotti” che riguardano il trattamento sanzionatorio che si è inteso riservare a quest’ultima tipologia di reati, una volta accertato – con sentenza – la commissione dell’illecito.

Senza spingersi sino a passare in rassegna, ad uno ad uno, tutti i commi dell’articolo unico della novella, ci basta soffermarsi, anzitutto, sull’irrigidimento che riguarda il regime delle pene accessorie di cui è prevista la comminazione in caso delitto contro la P.A.

Oltre a riformulare la disposizione dell’art. 317 bis c.p. (in riferimento alla quale, non solo viene estesa la platea dei soggetti che saranno chiamati a scontare – oltre alla pena principale – anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici[22], aggiungendovi peraltro il divieto perpetuo di contrattare con la P.A., ma viene espressamente previsto che, anche laddove detti reati si manifestino attenuati dalle circostanze della particolare tenuità o della collaborazione fattiva di cui ai commi primo e secondo dell’art. 323 bis c.p., siano irrogate le predette sanzioni accessorie, con carattere temporaneo, per un periodo compreso – rispettivamente – tra i cinque ed i sette anni, ovvero tra uno e cinque anni), viene introdotto una sorta di meccanismo sanzionatorio in base al quale, da una parte, rimane sempre e comunque consentito al giudice, in sentenza (anche nei casi di patteggiamento), applicare discrezionalmente le sanzioni accessorie previste dall’art. 317 bis c.p., anche a prescindere dall’applicazione al caso concreto del beneficio della sospensione condizionale della pena (artt. 163 ss. c.p.)[23] e dei benefici premiali connessi alla definizione del procedimento con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti infra-biennale[24]; dall’altra, viene previsto che rimanga inibito, sempre con riferimento alle predette sanzioni accessorie di cui all’art. 317 bis c.p., qualsiasi effetto estintivo collegato alla riabilitazione del condannato (artt. 178- 181 c.p.), istituto che viene dalla legge contemplato – lo si rammenti – esclusivamente appannaggio di coloro che abbiano scontato la propria pena principale, da almeno tre anni, ed abbiano fornito prove, effettive e costanti, di buona condotta. L’estinzione delle pene accessorie perpetue di cui all’art. 317 bis c.p. potrà avvenire, d’ora in avanti, soltanto decorsi ulteriori sette anni dalla riabilitazione, laddove il riabilitato fornisca (ulteriori) prove di effettiva e costante buona condotta (v. art. 1 comma 1- lett. i) DDL A.C. n. 1189-B: introduzione di un nuovo settimo comma nella disposizione dell’art. 179 c.p.).

Ci pare, invero, che siffatto tipo di rigore sanzionatorio – che addirittura supera l’eventuale prognosi di futura astensione da ogni comportamento penalmente rilevante; valutazione prognostica che comporta, con riferimento ad ogni altra ipotesi di reato, la sospensione della pena principale e di tutte le pene accessorie eventualmente previste per legge (ex art. 166 c.p.) – travalichi i limiti imposti dal principio di necessaria vocazione rieducativa della sanzione penale, contemplato dall’art. 27 comma 3 Cost., consentendo difatti l’applicazione di una pena (seppure di tipo accessorio) anche laddove non vi sia un’esigenza rieducativa del condannato[25].

L’istanza per una maggiore severità nei confronti delle ipotesi di reato commesse a danno della P.A., che anima nel complesso la riforma Bonafede, passa poi per la previsione di una piccola ma sostanziale modifica nel disposto degli artt. 165 (sempre in tema di sospensione condizionale della pena) e 322 quater c.p.

Sul punto, la legge “Spazza corrotti” prevede che:

  1. l’obbligo alla riparazione pecuniaria, di cui all’art. 322 quaterp., imposta sino ad oggi per le ipotesi di delitto commesse da un pubblico agente a danno della Pubblica amministrazione, venga estesa anche nei confronti del privato (il riferimento è alle ipotesi di cui all’art. 321 c.p.) e non sia più fondata su quanto illecitamente ottenuto dal pubblico agente grazie al reato, bensì che il prezzo od il profitto dell’illecito divenga oggi meramente il parametro quantitativo su cui calcolare la somma – a titolo sostanzialmente risarcitorio, se non addirittura ulteriormente sanzionatorio – che ciascuno dei partecipanti al fatto di corruzione (considerata sia dal lato attivo che passivo) deve in favore della Pubblica amministrazione[26];
  2. che l’obbligo di riparazione pecuniaria ex (nuova formula dello) art. 322 quaterp. divenga condizione per accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena anche per il privato che ha corrisposto il denaro o la diversa utilità al pubblico agente (il riferimento è sempre al previsto inserimento, nel quarto comma dell’art. 165 c.p., del richiamo alle ipotesi di cui all’art. 321 c.p.)[27].

Il fatto di aver svincolato l’obbligo di rifusione verso la P.A. da un effettivo (od anche solo potenziale) incameramento di somme da parte del soggetto che risulta essere obbligato coattivamente a tale elargizione, con l’effetto di duplicazione sostanziale che viene a crearsi in relazione alle ipotesi di corruzione (in detti casi, infatti, il pubblico agente dovrà alla P.A. un somma che è parametrata al prezzo od al profitto del reato, in virtù del combinato disposto degli artt. 322 quater e – ad esempio – 319 c.p., mentre il privato dovrà alla stessa Pubblica amministrazione esattamente la medesima somma, però in ragione delle diverse disposizioni di cui agli artt. 322 quater e 321 c.p.), spinge invero a domandarsi se l’istituto mantenga, anche dopo il rimaneggiamento operato con la più recente riforma, la medesima natura e funzione che gli era stata attribuita con la sua introduzione nel 2015.

Al riguardo, solo la giurisprudenza che verrà formandosi sotto la vigenza della nuova legge potrà darci una risposta compiuta; anche se, ad esser sinceri, la propensione ad intravederci una disposizione con vocazione eminentemente sanzionatoria si fatica a non ammetterla.

Ultimo – e forse più palese – “sintomo” di una volontà protesa ad assimilare i reati contro la P.A. ai più gravi delitti di criminalità organizzata lo si rinviene in quelle disposizioni della riforma in commento che intervengono sulla Legge 26 luglio 1975, n. 354 (c.d. Legge sull’Ordinamento penitenziario)[28]. In particolare, ci si riferisce a quanto previsto dalle lettere a) e b) del comma 6 dell’articolo unico che forma il corpo della riforma anticorruzione d’iniziativa del Ministro Guardasigilli, on. Alfonso Bonafede, e che prevedono, rispettivamente, da una parte, che il comma primo dell’art. 4 bis O.P. sia arricchito attraverso l’inserimento di un espresso riferimento ai delitti di cui agli artt. 314- primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater– primo comma, 320, 321, 322 e 322 bis c.p., quali ulteriori ipotesi ostative rispetto alla concessione, durante l’espiazione della pena, di benefici quali l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio o le misure alternative alla detenzione di cui al Capo VI della medesima legge sull’Ordinamento penitenziario; dall’altra, quale unica eccezione rispetto alla regola generale di preclusione che è prevista al comma primo dell’art. 4 bis O.P. ora citato, che i condannati per delitti contro la P.A. considerati “ostativi” dalla predetta norma dell’O.P. possano eccezionalmente beneficiare delle misure premiali predette solo e soltanto nell’ipotesi in cui abbiano avviato una collaborazione fattiva con l’Autorità giudiziaria, così come prevista dall’art. 323 bis, comma 2, c.p.

In ciò si scorge, con mostruosa chiarezza, tutta la confusione di fondo (e la spinta squisitamente emozionale) che ha animato la riforma “Spazza corrotti” recentemente approvata in via definitiva dal Parlamento.

Proprio prendendo a riferimento la norma dell’art. 4 bis O.P., possiamo rilevare come, da una parte, abbiamo un novero di reati che comprende i più gravi delitti di natura associativa o che ledono i primari beni della sicurezza pubblica o della libertà personale, quali i «delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza», i «delitti di cui agli articoli 416-bis e 416-ter del codice penale, [i] delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste», i delitti di cui agli artt. 600, 600 bis– primo comma, 600 ter– primo e secondo comma, 601, 602, 609 octies e 630 c.p. (ossia, i delitti di riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pedo-pornografia, tratta di persone, violenza sessuale di gruppo o sequestro di persona a scopo di estorsione), i delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 D.Lgs. n. 286/1998), l’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291 quater D.P.R. n. 43/1973), il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 D.P.R. n. 309/1990); dall’altra, grazie alla riformulazione della disposizione operata dalla riforma “Spazza corrotti”, i delitti dei pubblici agenti contro la Pubblica amministrazione (peraltro, praticamente tutti i tipi di delitto che possono essere commessi da un pubblico agente contro la P.A., anche quelli per l’esercizio della funzione), che, per quanto detestabili e deleteri per il sistema nazionale (un alto proliferare di una tipologia di reati siffatta sicuramente non può che gettare discredito, agli occhi dei consociati e della Comunità internazionale, sullo Stato italiano), non possono certo considerarsi espressione del medesimo prototipo criminale di chi – ad esempio – organizza e gestisce una tratta di esseri umani, sfrutta la prostituzione minorile, ovvero progetta, coordina od esegue delle stragi terroristiche.

Il trattamento post condanna dovrebbe essere quanto più possibile individualizzato e funzionale ad una effettiva rieducazione del condannato (si v., anche qui, l’art. 27 comma 3 Cost.). Il prevedere, in via generale ed inderogabile, un trattamento deteriore per colui che abbia riportato una condanna per taluno dei delitti contro la P.A. succitati, rispetto a chi – ad esempio – è stato condannato per un’ipotesi di associazione per delinquere realizzata allo scopo di commettere taluno dei reati previsti dal Titolo XII-Capo III del Libro II del Codice penale (tra i quali vi può ben essere il caso dell’associazione per delinquere finalizzata a commettere delitti di prostituzione minorile), in quanto per i reati contro la P.A. non è stata prevista dalla riforma Bonafede alcuna possibilità di accesso al regime di deroga previsto dal comma 1 ter dell’art. 4 bis O.P., ci sembra esser stato frutto più di una scelta “di pancia” – fatta per mostrare al cittadino che questo Governo punisce severamente, in maniera addirittura esemplare, il servitore dello Stato infedele – che di una ragionata ponderazione sul percorso rieducativo più congruo ed efficace da attuare nei riguardi di coloro che si sono macchiati dei reati oggetto del presente commento.

Ma il problema più grave di una pena che si manifesta come esemplare è che essa non può necessariamente essere anche rieducativa; ed una pena che non è rieducativa non può – per forza di cose – dirsi costituzionalmente legittima.

Note

 

[1]     D’ora in avanti, atto indicato anche attraverso l’acronimo “DDL”.

[2]     Per una eventuale ricostruzione dell’iter di approvazione del disegno di legge in questione, si segnala che detto DDL, contrassegnato alla Camera col numero 1189, innanzi al Senato della Repubblica era stato iscritto come Atto del Senato n. 955 della XVIII Legislatura.

[3]     In proposito, si v. il parere rilasciato su richiesta dello stesso Ministro della Giustizia dal Consiglio Superiore della Magistratura, approvato in data 19 dicembre 2018 e disponibile sul sito istituzionale dell’organo in questione (www.csm.it), nonché il documento intitolato “Controriforma della prescrizione: l’appello dell’Accademia e dei Penalisti italiani al Presidente della Repubblica” pubblicato dall’Unione delle Camere Penali Italiane (U.C.P.I.) sul proprio sito web (www.camerepenali.it).

[4]     Ciò comporta, già di per sé, un notevole slittamento in avanti del termine di prescrizione con riferimento a tutti quei reati in riferimento ai quali possa individuarsi l’esistenza di un collegamento di natura subiettiva tale da rendere sostenibile l’idea che essi siano stati posti in essere in attuazione della medesima volontà di contrapposizione rispetto all’ordinamento giuridico maturata dal singolo. Se infatti si pensa che i due o più reati per quali può venire oggi riconosciuta la continuazione ex art. 81 comma 2 c.p. possono essere stati commessi anche ad una buona distanza temporale l’uno dall’altro, ben si può comprendere come, a fronte di un meccanismo come quello attualmente in vigore (che per ogni reato avvinto dal vincolo della continuazione individua un proprio termine di prescrizione, decorrente dalla consumazione del singolo reato), l’aver previsto per tutti i reati in continuazione un unico termine iniziale, per di più parametrato al perfezionarsi dell’ultima ipotesi di reato che risulta possibile riportare (anche a posteriori, e financo in sede di rivalutazione del fatto ex art. 521 c.p.p.) nell’alveo della continuazione criminosa, consenta di far retroagire la pretesa punitiva statuale – rendendo nuovamente esigibile l’applicazione della pena – anche con riferimento a condotte poste in essere a notevole distanza temporale rispetto al momento in cui interviene (e viene reso noto alle Autorità inquirenti) l’ultimo fatto illecito della serie.

[5]     Non si dimentiche che, nonostante la disposizione di cui all’art. 1 comma 2 del DDL “Spazza corrotti” non specifichi al riguardo, nell’ordinamento giuridico italiano la prescrizione del reato è istituto di diritto penale sostanziale (così, da ultimo, C. cost., sentenza 10 aprile 2018 – 31 maggio 2018, n. 115, disponibile in www.cortecostituzionale.it). Pertanto, l’entrata in vigore delle disposizioni citate nel testo non avrà effetto con riferimento ai procedimenti in corso alla data del 1 gennaio 2020, ai quali continueranno ad applicarsi le disposizioni degli articoli da 157 a 161 c.p. previgenti, né con riferimento a tutte quelle condotte criminose poste in essere entro il 31 dicembre 2018, ivi compresi quei singoli reati che sono parte di un unico disegno criminoso insieme ad altri reati posti in essere successivamente alla data succitata; in caso di continuazione nell’illecito ex art. 81 cpv. c.p., infatti, lo slittamento del dies a quo di decorrenza della prescrizione del reato si ritiene debba operare esclusivamente con riferimento a quei reati che sono stati commessi successivamente all’entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 1 comma 2 del disegno di legge in commento.

[6]     Si v. l’art. 27 comma 3 della Costituzione italiana: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

[7]     Per un maggior approfondimento sul c.d. caso Taricco, si v. Corte di Giustizia dell’Unione europea (C.G.U.E.), Grande sezione, sentenza 08 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco ed altri, in curia.europa.eu; Corte costituzionale italiana (C. cost.), 23 novembre 2016 – 26 gennaio 2017, ordinanza n. 24, reperibile in www.cortecostituzionale.it; C.G.U.E., sentenza 5 dicembre 2017, causa C-42/17, M.A.S. e M.B., in curia.europa.eu; C. cost., sentenza n. 115/2018 cit. Per conoscere il punto di vista sull’argomento dell’autore del presente intervento, si v. A. Paoletti, Riflessioni sulla Sentenza della Corte di giustizia UE, 8 settembre 2015, Taricco e altri, 19 ottobre 2015, in Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica pubblicata su Internet (www.diritto.it), URL: www.diritto.it/docs/37458-riflessioni-sulla-sentenza-della-corte-di-giustizia-ue-8-settembre-2015-taricco-e-altri; A. Paoletti, La Sentenza Taricco e l’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 2017: due Giudici che non parlano la stessa lingua, 20 marzo 2017, in Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica pubblicata su Internet (www.diritto.it), URL: www.diritto.it/docs/39185-la-sentenza-taricco-e-l-ordinanza-della-corte-costituzionale-n-24-del-2017-due-giudici-che-non-parlano-la-stessa-lingua.

[8]     Si v. C.G.U.E., Grande Sezione, 26 febbraio 2013, causa C-399/11, Melloni, in curia.europa.eu.

[9]     Brocardo che sta ad indicare quel principio, valevole sia con riferimento al diritto processuale penale che a quello processuale civile, in base al quale, fintantoché non sopraggiunga il giudicato sulla vicenda concreta, al procedimento vengano sempre applicate le nuove disposizioni di legge, seppur sopraggiunte in corso di causa e non vigenti al momento della commissione del fatto.

[10]   Per un eventuale approfondimento sulla riforma Orlando, si v. R. Dainelli – A. Paoletti, Riforma del procedimento penale: spunti di riflessione sul DDL. A.S. 2067-A (A.C. 4368), 21 aprile 2017, in Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica pubblicata su Internet (www.diritto.it), URL: www.diritto.it/docs/39292-riforma-del-procedimento-penale-spunti-di-riflessione-sul-ddl-a-s-2067-a-a-c-4368; A. Paoletti, Riforma procedimento penale: la delega in materia di intercettazioni, 13 luglio 2017, in Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica pubblicata su Internet (www.diritto.it), URL: www.diritto.it/riforma-procedimento-penale-la-delega-materia-intercettazioni; R. Dainelli, Riforma penale: la motivazione della sentenza penale e il nuovo atto di appello, 31 luglio 2017, in Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica pubblicata su Internet (www.diritto.it), URL: https://www.diritto.it/riforma-penale-motivazione-della-sentenza; R. Dainelli, Spunti di riflessione sulla riforma della giustizia penale, 29 agosto 2017, in Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica pubblicata su Internet (www.diritto.it), URL: https://www.diritto.it/riforma-della-giustizia-penale-spunti-riflessione.

[11]   Il termine è utilizzato al fine di indicare quelle modifiche che si è previsto di apportare alle fattispecie astratte di reato (ovvero ad altri elementi propri degli illeciti penali di cui al Titolo II-Capo I del Libro II del Codice penale), per distinguere questo tipo di interventi sia da quelli che hanno ad oggetto i nuovi metodi di accertamento del reato commesso ai danni della P.A. (o che comunque producono, in relazione all’attività accertatrice delle Autorità inquirenti, direttamente od indirettamente, degli effetti in proposito), sia rispetto a quell’ulteriore tipo di mutamenti che riguarderanno il trattamento sanzionatorio riservato a detta tipologia di delitti.

[12]   Recita, infatti, il disposto dell’art. 61 n. 9 c.p.: «Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: (…) 9) l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto». Il pubblico agente (pubblico ufficiale od incaricato di un pubblico servizio) che, «con abuso della sua qualità o dei suoi poteri», commette in fatto di cui all’art. 316 ter comma 1 c.p., infatti, commette il reato abusando dei propri poteri o – comunque, il riferimento qui è all’abuso della qualità di pubblico agente contemplato dalla nuova disposizione dell’art. 316 ter c.p. – in dispregio dei doveri inerenti alla propria funzione od al proprio servizio. Se ne trae, dunque, che tra la disposizione di cui all’art. 61 n. 9) c.p. e quella di cui all’art. 316 bis co. 1- ultimo periodo c.p. vi sia una sorta di rapporto di genere a specie: la violazione di doveri derivanti dall’incarico pubblico comprende in sé l’abuso della qualità rivestita dal pubblico agente. Va poi considerato il fatto che lo stesso Titolo II del Libro II del Codice penale contempla un’ulteriore ipotesi in cui la qualifica pubblicistica posseduta dal soggetto agente (in questi casi, peraltro, bastevole ai fini dello scattare del trattamento sanzionatorio deteriore) è considerata elemento atto a configurare una circostanza aggravante speciale del relativo reato-base: l’art. 346 bis comma 3 c.p. Si ritiene, quindi, che, con la riforma in commento, il Legislatore non abbia inteso proporre un qualcosa di diverso (ed inedito) rispetto a questo tipo di “precedente” normativo.

[13]   Il riferimento al bene dell’imparzialità della P.A. (art. 97 Cost.) è qui da intendersi come presidio dell’interesse ad una eguale possibilità di accesso, da parte dei cittadini, rispetto alle risorse pubbliche, frustrata – per l’appunto – da coloro che riescano ad accedere a dette risorse, non perché effettivamente meritevoli dell’erogazione, bensì attraverso quel comportamento illecito che consiste nel “mascherare” agli occhi della Pubblica amministrazione la propria condizione reale. Per una più ampia ed approfondita disamina dei beni giuridici che risultano espressamente presidiati dalle disposizioni di cui al Titolo II- Capo I del Libro II del Codice penale, si v. il volume intitolato Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia (Ristampa aggiornata), a cura di M. Catenacci, G. Giappichelli Editore, Torino, 2015.

[14]   Il riferimento è, ovviamente, nell’ipotesi di cui all’art. 346 bis c.p., al caso dell’intermediazione finalizzata a… la corruzione del pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio. Laddove il soggetto che fa da tramite sia mero nuncius del pubblico agente si configurerebbe, direttamente, un concorso di persone nella corruzione “passiva”, e non il meno grave reato di traffico di influenze illecite.

[15]   L’originaria formulazione dell’art. 346 bis c.p. fa infatti espresso riferimento alla disposizione dell’art. 319 ter c.p., nella clausola di riserva con cui il dettato normativo esordisce.

[16]   Il caso della intermediazione finalizzata alla remunerazione del pubblico agente per un atto contrario ai doveri d’ufficio (ivi comprese le ipotesi di ritardo ed omissione nel compimento di atti dovuti, ovviamente) diverrà, nella ristrutturazione complessiva della fattispecie che è operata con la riforma “Spazza corrotti” approvata a Palazzo Montecitorio lo scorso 18 dicembre, circostanza aggravante speciale ad effetto comune dell’ipotesi base del “nuovo” reato di traffico di influenze illecite; riproponendo, così, per quanto concerne questa specifica modalità di estrinsecazione del reato, quel rapporto di genere a specie che è stato introdotto dalla riforma Severino del 2012 (Legge n, 190/2012) con riferimento ai reati di corruzione di cui agli artt. 318 ss. c.p. (si v. l’art. 1 comma 1 lett. t) n. 3 DDL A.C. n. 1189-B).

[17]   Fa riferimento a questo tipo di fenomeno, escludendone la rilevanza sotto il profilo dell’illecito di cui al vigente art. 346 bis c.p., M. Catenacci, Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, cit., p. 256.

[18]   Si pensi al caso in cui un privato conferisca incarico ad un noto e stimato professionista per assisterlo nell’ambito di un procedimento amministrativo avviato nel proprio interesse. Si converrà che un incarico di tale tipo sottende, inevitabilmente, la facoltà per il consulente di presentare al Responsabile del procedimento memorie, proposte o richieste che siano funzionali a raggiungere un esito favorevole al proprio assistito. Ecco, supponiamo che, in ragione della professione esercitata, il consulente dell’esempio si sia guadagnato un certo credito nei confronti del pubblico funzionario (e che il consulente sia conscio di ciò). Laddove l’azione di persuasione posta in essere dal professionista rimanga comunque finalizzata ad ottenere un risultato che rispetti anzitutto i canoni dell’imparzialità e del buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.), non si vede come possa ravvisarsi, in siffatto tipo di mediazione onerosa, un’ipotesi di traffico di influenze illecite ex art. 346 bis c.p.

[19]   «limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati», specifica il disposto dell’art. 323 ter che la riforma “Spazza corrotti” ha previsto di introdurre nel Codice penale (art. 1 comma 1 lett. r) DDL A.C. n. 1189-B).

[20]   Si dovrà fare dunque riferimento, in primo luogo, alla formale iscrizione del nominativo della persona sottoposta alle indagini nel relativo registro ex art. 335 c.p.p. Dovranno poi riscontrarsi, o l’emissione di un’informazione di garanzia, o l’emissione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.; od ancora, il compimento di un atto d’indagine formalmente ostensibile nei confronti dell’indagato e di cui questi sia venuto effettivamente a conoscenza, anche a mezzo del proprio difensore.

[21]   V. art. 1 comma 3 DDL A.C. n. 1189-B.

[22]   Si prevede, infatti, che la sanzione accessoria de qua ricada anche sul privato corruttore, intermediario ex art. 346 bis c.p. o puro millantatore di credito. Cfr. art. 1, comma 1- lett. m), DDL A.C. n. 1189-B.

[23]   Non si dimentichi, però, che, ai sensi del primo comma dell’art. 164 c.p., «la sospensione condizionale della  pena  è ammessa  soltanto  se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art.  133 [c.p.],  il  giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati».

[24]   Si v. i numeri 1) e 2) della lett. e) del comma 4 dell’art. 1 DDL A.C. n. 1189-B.

[25]   La prognosi positiva di astensione dal commettere futuri reati, che è presupposto della concessione della sospensione condizionale della pena (art. 164 comma 1 c.p.), porta infatti a ritenere che non vi sia una esigenza rieducativa – quantomeno, conclamata – del condannato.

[26]   V. art. 1, comma 1- lett. q), DDL A.C. n. 1189-B.

[27]   V. art. 1, comma 1- lett. g), DDL A.C. n. 1189-B.

[28]   D’ora in avanti, anche indicata come O.P.

Avv. Paoletti Alessandro

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