Caso
Si segnala alla attenzione dei lettori una interessante pronuncia della Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 27323/19 depositata il 19 giugno 2019.
Con decreto di sequestro emesso dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Busto Arsizio, ai sensi dell’art. 355 c.p.p. Per i reati di cui agli artt. 648 (Ricettazione) e 474 c.p. (Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) venivano sequestrati all’imputato numerosi capi di abbigliamento ritenuti contraffatti.
Avverso tale provvedimento l’indagato propose istanza di riesame, ma il Tribunale di Varese, con ordinanza la respinse ritenendo ininfluente la mancata registrazione “Europea” del marchio, essendo applicabile la tutela comunque offerta in tali ipotesi dall’ordinamento italiano ed avendo la tutela Europea del marchio natura solo “aggiuntiva”. Ricorre per cassazione l’indagato.
In diritto
Preliminarmente è doveroso fare un breve excursus sulle norme penali procedurali e non, richiamate nel contesto dell’intero giudizio.
Art. 474. Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi.
Fuori dei casi di concorso nei reati previsti dall’art. 473, chiunque introduce nel territorio dello Stato, al fine di trarne profitto, prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati è punito con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 3.500 a euro 35.000.
Fuori dei cassi di concorso nella contraffazione, alterazione, introduzione nel territorio dello Stato, chiunque detiene per la vendita, pone in vendita o mette altrimenti in circolazione, al fine di trarne profitto, i prodotti di cui al primo comma è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fin a euro 20.000.
I delitti previsti dai commi primo e secondo sono punibili a condizione che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale.
Art. 648 – Ricettazione.
Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329. La pena è aumentata quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da delitti di rapina aggravata ai sensi dell’articolo 628, terzo comma, di estorsione aggravata ai sensi dell’articolo 629, secondo comma, ovvero di furto aggravato ai sensi dell’articolo 625, primo comma, n. 7-bis).
La pena è della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 516 se il fatto è di particolare tenuità.
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del delitto da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto.
Art. 355 c.p.p. – Convalida del sequestro e suo riesame
“Contro il decreto di convalida, la persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e il suo difensore, la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione possono proporre, entro dieci giorni dalla notifica del decreto ovvero dalla diversa data in cui l’interessato ha avuto conoscenza dell’avvenuto sequestro, richiesta di riesame, anche nel merito, a norma dell’articolo 324”. Tuttavia la “richiesta di riesame non sospende l’esecuzione del provvedimento”.
Ciò premesso, si deve osservare che le doglianze di legittimità proposte dalla difesa dell’imputato sono improntate a ritenere sussistente la violazione di legge e illogicità e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), per erronea valutazione sulla sussistenza del fumus commissi delicti del reato di introduzione nello Stato di prodotti con segni o marchi contraffatti. Inoltre deduce violazione della legge penale e illogicità e contraddittorietà della motivazione del provvedimento di sequestro, che mancherebbe delle necessarie indicazioni quanto alle finalità perseguite con il vincolo disposto e sarebbe solo motivato con frasi di stile. A dir della difesa non vi sarebbe, altresì, proporzione tra la quantità di beni sequestrati e la finalità probatoria perseguita, che poteva ben essere assicurata dalla apposizione del vincolo reale su un solo capo d’abbigliamento o accessorio per ciascun modello, per svolgere i dovuti accertamenti. Infine, viene evidenziata la circostanza secondo cui l’intera vicenda ha caratteri di rilievo meramente civilistico di cui all’art. 2598 c.c.
Secondo la pronuncia in esame della Corte di Cassazione la sussistenza del fumus commissi delicti del reato di introduzione e commercio di prodotti con segni falsi la Corte di Cassazione, dopo aver preliminarmente evidenziato l’orientamento della giurisprudenza sul caso in questione, volta alla tutela del marchio e dando preminenza alla tutela economica dello stesso, ha puntualizzato che l’interesse giuridico tutelato dagli artt. 473 e 474 c.p. È la pubblica fede in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l’affidamento del singolo. Sicchè, ai fini dell’integrazione dei reati, la Corte statuisce che non è necessaria la realizzazione di una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla genuinità del prodotto. Al contrario, in presenza di una contraffazione, i reati sono configurabili anche se il compratore sia stato messo a conoscenza dallo stesso venditore della non autenticità del marchio.
Secondo la Corte di Cassazione la doppia registrazione in Italia di marchi in parte sovrapponibili e la presenza di controversie civili in merito alla loro reciproca legittimità, aggiunta alla circostanza della mancata registrazione di marchio statunitense in Europa, sono elementi che in sede cautelare sono sufficienti da far ritenere integrati i gravi indizi di reità del reato di introduzione e commercio di prodotti con segni falsi.
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Commento
La norma relativa all’ introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi è volta a tutelare, non la libera determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei consumatori nei marchi, quali segni distintivi della particolare qualità e originalità dei prodotti messi in circolazione; ne consegue che non può parlarsi di reato impossibile per il solo fatto che la grossolanità della contraffazione sia riconoscibile dall’acquirente in ragione delle modalità della vendita, in quanto l’attitudine della falsificazione ad ingenerare confusione deve essere valutata non con riferimento al momento dell’acquisto, ma in relazione alla visione degli oggetti nella loro successiva utilizzazione. (In materia di delitti contro la fede pubblica, si veda Cassazione penale 11556/2007)
In tale contesto, la legittimità del sequestro probatorio deve essere valutata non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa, ma in riferimento all’idoneità degli elementi su cui si fonda la notizia di reato a rendere utile l’espletamento di ulteriori indagini, per acquisire prove certe o prove ulteriori del fatto, non esperibili senza la sottrazione all’indagato della disponibilità della res o l’acquisizione della stessa nella disponibilità dell’agenzia delle Entrate (Corte di Cassazione penale, sentt. 25.01.2012, n. 3168 e 24.03.2011, n. 15177).
Pertanto, in sede di riesame del sequestro probatorio, il Tribunale è chiamato a verificare l’astratta sussistenza del reato ipotizzato, valutando il fumus commissi delicti sotto il duplice profilo della congruità degli elementi rappresentati e quindi, della sussistenza dei presupposti che giustificano il sequestro, ossia l’apposizione del vincolo sulla res, in favore dell’amministrazione della giustizia (Corte di Cassazione penale, sent. 18.04.2011, n. 24589). Nella valutazione del fumus commissi delicti quale presupposto del sequestro preventivo di cui all’art. 321 c.p.p., il giudice del riesame, pur dovendo avere riguardo all’astratta configurabilità del reato, deve comunque tenere conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali, nonché indicare le ragioni che, allo stato, rendono sostenibile l’impostazione accusatoria.
L’accertamento deve necessariamente ricomprendere non solo l’astratta sussunzione del fatto all’interno della fattispecie criminosa ascritta, ma anche la verifica che lo stesso fatto di reato sia al contempo attribuibile all’indagato. Il sequestro probatorio è notoriamente un mezzo di ricerca della prova che consiste nell’assicurare una cosa mobile o immobile al procedimento penale per finalità probatorie, mediante lo spossessamento coattivo della cosa e la creazione di un vincolo di indisponibilità sulla medesima. Tale vincolo di indisponibilità serve per conservare immutate le caratteristiche della res, al fine dell’accertamento dei fatti. Dunque, la ratio del sequestro in esame è quella di assicurare al processo il relativo mezzo di prova. Ai sensi dell’art. 253, c. 1 c.p.p. Sono oggetto di sequestro probatorio il corpo di reato e le cose pertinenti al reato, purché necessarie per l’accertamento dei fatti. La norma è di solare interpretazione, vietando indirettamente il sequestro allorché non sussista nessuna esigenza di accertamento dei fatti.
In sede di riesame avverso un decreto di sequestro probatorio deve essere vagliato il fumus dei reati in relazione ai quali il sequestro è stato disposto, dovendosi quindi verificare la pertinenza della misura ai fini dell’accertamento dei fatti, secondo quanto previsto dall’art. 253 c.p.p.
In ordine al fumus, in sede di riesame del sequestro probatorio, il Tribunale deve stabilire l’astratta configurabilità del reato ipotizzato. Tale astrattezza, però, non limita i poteri del giudice nel senso che questi deve esclusivamente “prendere atto” della tesi accusatoria senza svolgere alcun’altra attività, ma determina soltanto l’impossibilità di esercitare una verifica in concreto della sua fondatezza. Alla giurisdizione compete, perciò, il potere-dovere di espletare il controllo di legalità, sia pure nell’ambito delle indicazioni di fatto offerte dal pubblico ministero. L’accertamento della sussistenza del “fumus commissi delicti” cioè va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica. Pertanto, il Tribunale non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l’indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando l’integralità dei presupposti che legittimano il sequestro. (Cassazione penale, sez. VI, sentenza 23/03/2017 n° 14253)
È evidente che il Tribunale del Riesame ha rigettato l’istanza in quanto ha ritenuto che non è venuta meno la necessità del vincolo ai fini di prova nonché l’assenza di un nesso di pertinenzialità tra il bene sequestrato e il reato contestato. Tale principio è stato enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 50169 del 2015.
Diversamente la difesa ha ritenuto che il sequestro probatorio non sarebbe legittimo anche perché relativo a un numero eccessivo di capi. Ma la Corte chiarisce che la finalità del sequestro è quella di sottrarre i capi di abbigliamento al mercato illegale, atteso, peraltro, che si tratta di beni assoggettabili a confisca obbligatoria e che ne sarebbe in ogni caso impedita la restituzione. Invero i prodotti industriali oggetto di contraffazione devono essere confiscati perché rientrano nella previsione delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituiscono reato.
La sentenza in commento è sicuramente condivisibile in quanto il decreto di sequestro contiene un chiaro aggancio alla condotta incriminata, in cui viene fornito una succinta spiegazione in ordine alla concreta finalità probatoria perseguita, sufficienti a garantire la sussistenza del fumus delicti di cui all’art. 648 c.p., nonchè il rapporto tra i capi di abbigliamento sequestrati e l’ipotesi di reato contestato. Di conseguenza, i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso attenendosi al principio di diritto: “In tema di sequestro probatorio, con l’opposizione avverso il decreto del P.M. di rigetto della richiesta di restituzione delle cose sequestrate, sono deducibili esclusivamente censure relative alla necessità di mantenere il vincolo a fini di prova, ex art. 262 c.p.p., e non anche alla opportunità o legittimità del sequestro, che possono essere fatte valere con la richiesta di riesame: di conseguenza, non può il giudice per le indagini preliminari ordinare il dissequestro per motivi che attengono alla legittimità del provvedimento genetico, in quanto la competenza a decidere la fondatezza del fumus del reato contestato è riservata in via esclusiva al Tribunale del riesame”.
Del resto, nella fase di opposizione al decreto del pubblico ministero in tema di beni sequestrati, il Tribunale del Riesame non poteva disporre il dissequestro per motivi del tutto eccentrici e diversi da quelli consentitigli ex combinato disposto degli articoli 262 e 263 del codice di rito, “ossia quelli limitati a valutare se sia o meno necessario mantenere il sequestro a fini di prova dei reati contestati, sui quali, in questa ristretta fase, non ha alcun potere di valutarne la fondatezza perché tale profilo può essere sottoposto dall’indagato solo al Tribunale del Riesame e solo da questo organo può essere vagliato”.
È evidente, quindi, che il Tribunale del riesame di Varese ha fatto buon governo degli indicati principi di diritto, idonei a verificare se il decreto sia stato legittimamente disposto e non anche verificare la persistenza delle esigenze probatorie, posto che, per quanto concerne il mantenimento o meno del sequestro legittimamente disposto, il sistema processuale ha previsto agli artt. 262 e 263 una specifica procedura, indicando tra l’altro gli organi deputati alla verifica della sussistenza delle esigenze probatorie (Cass. Sez. 2^, 17/12/1998, Bugio).
Altro aspetto da considerare è che il reato di contraffazione possa configurarsi anche quando il compratore sia messo a conoscenza, da parte dello stesso venditore, della non autenticità del marchio. Difatti anche un avviso che riporti la dicitura “falso d’autore” non esclude la configurabilità del reato. La legge, infatti, tutela il marchio registrato e tale tutela non può essere aggirata attraverso diciture attestanti l’indebito utilizzo del marchio. Deve dunque essere ribadito che la tutela penalistica è accordata alla fede pubblica intesa come affidamento nei marchi o nei segni distintivi e che il reato è “di pericolo”; dunque, per l’integrazione dello stesso è sufficiente l’attitudine della falsificazione a ingenerare confusione, non solo al momento dell’acquisto ma anche con riferimento all’utilizzazione.
La norma infatti vuole scongiurare la confusione tra marchi e non tra prodotti, cioè tra marchio registrato e quello commercializzato illecitamente; la legge, invero, punisce la riproduzione illecita del marchio registrato, mentre il prodotto è il “veicolo” attraverso cui si manifestano i marchi e la legge impone che non vengano riprodotti illecitamente.
Anche la riproduzione parziale del marchio configura il reato perché l’alterazione dei marchi ricomprende tale ipotesi: deve considerarsi l’impressione complessiva e la specifica categoria di utenti o consumatori cui il prodotto è destinato, soprattutto se si tratta di un marchio celebre.
Nel caso in questione, la Corte ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di configurabilità del reato ipotizzato: vi sono indizi pressanti sulla contraffazione del marchio “Supreme” per l’aggiunta del logo “Gold” di seguito e che, per come è stato collocato, lascia pensare a una serie limitata del marchio americano e non a un marchio diverso, perché la scritta “Supreme” è identica in tutto alla scritta del marchio originale.
Non ha ritenuto rilevante che il marchio americano non sia stato registrato in Europa e che invece il marchio sia stato registrato da altra società in Italia.
La Corte chiarisce che anche qualora dovesse ritenersi sussistente una controversia civile di difficile risoluzione tra le società titolari dei due marchi sovrapponibili, spetterebbe sempre al Giudice penale decidere – in via incidentale – sulla validità o meno di un marchio registrato quando la questione assuma rilevanza ai fini della qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’impugnazione.
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