Legittimo affidamento: situazione giuridica o interesse strumentale al perseguimento del bene della vita?

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Il presente contributo analizza la natura giuridica del legittimo affidamento, tema ad oggi ancora dibattuto. In particolare, attraverso la relazione tra l’esercizio del potere e il comportamento, si cercherà di presentare il legittimo affidamento come una situazione giuridica autonoma di diritto soggettivo o interesse legittimo. Ciò che rileva, infatti, non è la dicotomia interesse autonomo-strumentale al bene della vita ma, l’illogicità di definire rigidamente il legittimo affidamento in termini esclusivi o di diritto soggettivo o di interesse legittimo. Se è vero che il legittimo affidamento sia estrinsecazione del principio di buona fede oggettiva, elevato a sua volta a rango di principio generale nell’ultima riforma dei contratti pubblici che, ne ha recepito il concetto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e se è vero che entrambi i principi assumono il ruolo di regolatore del complesso dei rapporti che vedano coinvolta la PA, sia nell’ambito dell’azione che nell’ambito delle relazioni, allora ne consegue che il legittimo affidamento e con esso la buona fede, non patiscono limiti applicativi.

Indice

1. Responsabilità da comportamento e buona fede

La responsabilità della PA, secondo il disposto dell’art. 7 c.p.a. può derivare da provvedimenti, accordi, atti e comportamenti. Rispetto alla responsabilità da comportamento bisogna distinguere tra i c.d. comportamenti meramente materiali, che incardinano la giurisdizione del giudice ordinario e i comportamenti c.d. amministrativi che incardinano, invece, la giurisdizione del giudice amministrativo. L’elemento di discrimine è rappresentato dalla connessione, anche se mediata, tra il comportamento e l’esercizio del potere. In sostanza, ogni volta che il comportamento tenuto dalla PA sia in qualche modo connesso all’esercizio del potere, si è al cospetto di un comportamento dipendente funzionalmente dall’emanazione di un provvedimento, anche sotto la specie dell’accordo o di un atto amministrativo che abbia rilevanza esterna, cui segue l’incardinarsi della giurisdizione del giudice amministrativo. Di converso, quando la P.A. adotta comportamenti meramente materiali, non agendo in via autoritativa, segue l’incardinarsi della giurisdizione del giudice ordinario.
La responsabilità della Pubblica Amministrazione, fatta eccezione per le procedure di evidenza pubblica ove si è al cospetto di una forma di responsabilità oggettiva della P.A., si può configurare, anche secondo l’insegnamento espresso dalla Cassazione con la nota sentenza n. 500 del 1999, quando la P.A. abbia agito almeno con colpa. In coerenza con il principio della vicinanza alla prova, la colpa della P.A. si ritiene presunta nella stessa illegittimità del provvedimento ma, è da intendersi come un requisito diverso e ulteriore rispetto alla stessa, tanto è dimostrato dalla possibilità per la PA di provare che sia incorsa in un errore scusabile (inversione dell’onere probatorio). In particolare, la colpa, può essere definita come la violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi. Orbene, secondo tale impostazione, le regole di correttezza e di buona amministrazione sono inquadrate come parametri esterni di imputabilità della responsabilità. Invero, la progressiva mitigazione dell’autoritarismo pubblicistico e il conseguente avvicinamento tra la P.A. e cittadini, sempre più partecipi nell’azione amministrativa, hanno contribuito all’evoluzione non solo delle modalità in cui poter realizzare i fini pubblici ma, anche degli stessi principi e delle stesse regole cui la P.A. è soggetta, sia che agisca attraverso l’esercizio del potere, sia che agisca iure privatorum. Ci si riferisce, in particolare, alla buona fede oggettiva e al dovere di correttezza, afferenti tipicamente al settore privato, che, ad oggi sono riconosciuti come principi regolatori dei rapporti tra la P.A. e il cittadino (co. 2bis ex art. 1 legge 241\90). Invero, storicamente, si riteneva che la P.A. in ragione del perseguimento dell’interesse pubblico, non potesse mai violare la buona fede. In altri termini, il fine del perseguimento dell’interesse pubblico era esso stesso espressione del rispetto della buona fede da parte della P.A. Tale conclusione, si fondava sulla concezione di non riconoscere al principio della buona fede un ruolo autonomo come fonte di obblighi di comportamento vincolanti. Come già anticipato, l’espandersi dei rapporti e l’evoluzione del principio solidaristico (art. 2 Cost.) hanno contribuito al superamento della dicotomia legalità-regole di validità. Ad esse, infatti, si aggiungono le c.d. norme di relazione che regolano il comportamento adottato dalla P.A. Pertanto, ad oggi, si può configurare il caso in cui, sebbene la PA agisca per il perseguimento del pubblico interesse e rispettando il principio di legalità, si possa attribuire alla stessa una responsabilità per aver tenuto un comportamento contrario al principio di buona fede. La buona fede, quindi, da mero parametro di valutazione della colpa è divenuta essa stessa fonte di obblighi, la cui violazione determina la responsabilità della P.A. La connessione tra buona fede e rapporti tra PA e cittadino, ci consente di poter affermare che il legislatore non abbia ancorato il rispetto della buona fede e il dovere di correttezza ai soli rapporti contrattuali e quindi all’area in cui la PA agisca iure privatorum ma, li abbia riferiti a tutti i tipi di rapporti che si possono instaurare tra la P.A. e il cittadino. Ne consegue che, il principio della buona fede e il dovere di correttezza regolano l’azione della P.A. senza che rilevino le modalità in cui essa agisca.

2. Il legittimo affidamento

Avendo ammesso la possibilità che la PA possa essere ritenuta responsabile a causa della violazione del principio della buona fede, a questo punto occorre domandarsi quando concretamente ciò possa accadere. Sicuramente, il caso tipico lo si rinviene in tema di danno derivante dalla violazione del c.d. legittimo affidamento.
Quando si parla di legittimo affidamento, bisogna effettuare una primissima distinzione tra il legittimo affidamento inteso come parametro di validità e come fonte di responsabilità. In base alla prima valutazione, di matrice europeista (sentenza Topfer) il legittimo affidamento assurge a parametro di validità dell’esercizio, da parte della P.A., del potere di autotutela. Ai sensi dell’art. 21 nonies della legge 241\90, la PA può esercitare il potere di autotutela solo in ragione del perseguimento dell’interesse pubblico e comunque entro 12 mesi dall’emanazione del provvedimento illegittimo, tenendo, altresì, conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. In tale caso, il legittimo affidamento si traduce nella tutela della stabilità e della certezza dei rapporti giuridici venutesi a creare con un certo decorso del tempo, termine fissato convenzionalmente dal legislatore e consistente nel superamento di 12 mesi (c.d. termine ragionevole). Quando si affronta il tema del legittimo affidamento in termini di responsabilità, invece, ci si riferisce al comportamento della P.A. contrario a buona fede e correttezza che abbia, colposamente o dolosamente, indotto il privato a confidare (buona fede soggettiva) incolpevolmente in un certo risultato. In tale ultimo caso rilevano, in particolare, due tipologie di responsabilità: il danno da responsabilità precontrattuale e il c.d. danno da annullamento del provvedimento favorevole.

3. Danno da responsabilità precontrattuale e da annullamento del provvedimento favorevole

In relazione al danno da responsabilità precontrattuale, si imputa alla P.A. di avere indotto il privato, nella fase delle c.d. trattative, a confidare nel buon esito dell’affare adottando un comportamento contrario a buona fede e correttezza (artt. 1337 e 1338 c.c.). Il tipico esempio è rappresentato dalla revoca della gara per carenza di fondi. La carenza di fondi pubblici, rappresenta un motivo legittimo per procedere alla revoca di una gara, tanto è dimostrato dal fatto che, in presenza di pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, è previsto un obbligo di indennizzo. Ma, nell’esempio appena proposto, si verifica il caso in cui la P.A. fosse da tempo a conoscenza della carenza dei fondi e ciò nonostante abbia procrastinato nel ritardare la revoca della gara, allora si è in presenza di un comportamento della P.A. contrario a buona fede e correttezza tale da giustificare il risarcimento del danno del legittimo affidamento. Quest’ultimo, si traduce nel caso in cui sarebbe spettata l’aggiudicazione nel risarcimento per la perdita del bene della vita mentre, nel caso in cui non sarebbe spettata l’aggiudicazione nel risarcimento dei pregiudizi effettivamente subiti in ragione della lesione all’autodeterminazione negoziale (art. 5 D. lgs. 36\2023). In materia di evidenza pubblica, il nuovo art. 5 del D. lgs 36\2023, oltre a prevedere espressamente buona fede e legittimo affidamento come principi regolatori, ha anche sopito il lungo dibattito sorto intorno al momento in cui il legittimo affidamento poteva ritenersi configurato. La norma sancisce che “nell’ambito del procedimento di gara, anche prima dell’aggiudicazione, sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al principio di buona fede”. Pertanto, ai fini della configurabilità del legittimo affidamento nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica, non rileva il momento dell’aggiudicazione, come invece aveva affermato il Consiglio di Stato in adunanza plenaria nel 2021 ma, rileva da una parte il legittimo esercizio del potere e dall’altra il comportamento della P.A. contro buona fede. Ne consegue che, almeno nella materia dei contratti pubblici, il legislatore ha provveduto a sancire il valore autonomo del legittimo affidamento inteso come situazione giuridica soggettiva. La pronuncia del Consiglio di Stato appena richiamata, infatti, inquadrava l’aggiudicazione come momento dal quale poteva configurarsi il legittimo affidamento perché, solo con l’aggiudicazione si configurerebbe l’interesse legittimo pretensivo ad ottenere il bene della vita, stante la natura strumentale del legittimo affidamento. Sul punto, invece, rimane ancora dibattuta la natura giuridica del legittimo affidamento inteso come situazione giuridica autonoma. Ci si domanda, in altri termini, se il legittimo affidamento sia un diritto soggettivo o un interesse legittimo. La Corte di Cassazione e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2018, anche se in termini diversi in punto di giurisdizione, hanno entrambe affermato che per danno da violazione del legittimo affidamento, si intende la lesione del diritto soggettivo all’autodeterminazione negoziale.L’opposta conclusione in punto di giurisdizione è determinata dalla connessione o meno del comportamento scorretto (contrario a buona fede) con l’esercizio del potere. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, quando la PA leda il legittimo affidamento opererebbe sempre in maniera del tutto indipendente dall’esercizio del potere. Tale conclusione è frutto della trasmigrazione della dicotomia norme di azione e norme di relazione in un percorso binario e mai coincidente tale per cui in caso della violazione delle norme di relazione, si sarebbe sempre nell’area del diritto privato anche se uno dei soggetti coinvolti sia la PA. L’opposta conclusione elaborata dalla giurisprudenza amministrativa si fonda, invece, sulla considerazione che la lesione del legittimo affidamento avvenga concretamente nell’area dell’esercizio del potere, in quanto lo stesso sarebbe funzionalmente dipendente dall’emanazione di un provvedimento sia nella fase delle trattative (responsabilità precontrattuale), sia nella fase dell’esercizio dell’autotutela. Sul punto, bisognerebbe riflettere sulla ratio del requisito della connessione. Invero, il fatto che il comportamento tenuto dalla p.a. si inquadri nella stessa area in cui si deve esercitare o in cui si è già esercitato il potere non è sufficiente a ritenere come effettiva tale connessione. Il comportamento connesso al potere, anche in via mediata, richiede un quid pluris che sia, appunto, funzionale all’esercizio del potere. In altri termini, se il potere può essere esercitato anche tramite comportamenti, quest’ultimi devono svolgere un ruolo rilevante nell’azione amministrativa. Di converso, quando all’analisi della situazione concreta non si rinviene tale connessione, si è in presenza di un comportamento del tutto autonomo e quindi non funzionale all’esercizio del potere e per tale ragione, si presenta come materiale.
La stessa logica segue la responsabilità derivante dall’annullamento del provvedimento favorevole. Da una prima impostazione, condivisa anche dalla Cassazione, ove la lesione del legittimo affidamento era agganciata al diritto alla conservazione dell’integrità patrimoniale (situazione giuridica acquisita), non assumendo, in tal senso, alcuna valenza autonoma, si è giunti ad enucleare una concezione del legittimo affidamento autonoma e sufficiente, consistente nella lesione alla liberta autodeterminazione negoziale. Invero, nel classico esempio dell’annullamento del permesso di costruire, il privato non può vantare alcuna pretesa al bene della vita in ragione dell’illegittimità del provvedimento. L’illegittimità del provvedimento è la ratio che giustifica l’inefficacia ex tunc degli effetti prodotti dallo stesso, proprio in quanto sono privi di ragione giuridica. In tale caso, il privato, può chiedere il risarcimento del danno per la lesione del legittimo affidamento ma, solo se si verificano i suoi presupposti: comportamento scorretto della P.A. idoneo ad indurre il privato a confidare senza colpa nel buon operare della stessa e nella legittimità del provvedimento. Ne consegue che l’affidamento non possa ritenersi configurato quanto è lo stesso privato ad aver adottato un comportamento contrario a buona fede (aver dato causa all’illegittimità del provvedimento) o quando l’illegittimità sia evidente e manifesta (criterio della diligenza). Inoltre, nel caso dell’annullamento del provvedimento favorevole, la giurisprudenza amministrativa ha enucleato una differente impostazione tra l’annullamento in autotutela e l’annullamento dichiarato giudizialmente, avente come fattore determinante il decorso del tempo. Si ritiene, cioè, che in caso di annullamento giudiziale, il privato non possa vantare tale tipo di lesione, in quanto il breve termine della proposizione della domanda (60) giorni non è sufficiente per ingenerare alcun affidamento nella legittimità del provvedimento, dal momento che il privato, con la notifica del ricorso ne è reso edotto. Nel caso dell’annullamento in autotutela, invece, l’ampia estensione temporale consente il configurarsi di tale lesione.

3. Conclusione

In conclusione, si può affermare che secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) il legittimo affidamento rileva come fonte di obblighi, sia che lo si intenda come principio al pari della buona fede, sia che lo si intenda come situazione giuridica autonoma che, acquisirà valenza di diritto soggettivo o di interesse legittimo in base alla situazione concreta (esercizio del potere\connessione anche mediata del comportamento al potere). Il legittimo affidamento, infatti, è sia estrinsecazione del principio di buona fede oggettiva, dai quali derivano obblighi di comportamento, sia espressione della buona fede soggettiva del privato che partecipa all’azione amministrativa, confidando senza colpa, nel rispetto da parte della P.A. del corretto agire.

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Francesca Fuscaldo

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