Indice
1. La questione
La Corte di Appello di Ancona confermava una sentenza con cui l’imputato era stato condannato per i reati previsti dagli artt. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, 337 e 582 cod. pen..
Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che, tra i motivi addotti, prospettava violazione di legge processuale prevista a pena di nullità, sostenendosi che: a) l’imputato, all’esito della convalida dell’arresto, era stato sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di dimora in un comune con prescrizione di non allontanarsi da questo senza autorizzazione del giudice; b) il processo era stato rinviato e l’imputato era stato autorizzato a raggiungere il Tribunale per l’udienza oggetto del rinvio senza scorta e con mezzi propri; c) nell’udienza seguente a quella del rinvio, assente l’imputato, assistito da un sostituto d’ufficio il processo fu rinviato ad altra data e, in quella occasione, ancora assente l’imputato, il processo fu istruito, discusso, deciso.
Orbene, sulla base di tale quadro di riferimento, il ricorrente sosteneva come l’ultima udienza e la conseguente sentenza sarebbero stati nulli per la mancata partecipazione dell’imputato il quale, non essendo stato autorizzato a raggiungere il Tribunale liberamente, avrebbe dovuto considerarsi legittimamente impedito; in particolare, per la difesa, sarebbe stato errato l’assunto della Corte di Appello secondo cui, invece, l’imputato avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione a partecipare all’udienza sicché, non avendolo fatto, non poteva considerarsi impedito.
Ciò posto, sosteneva altresì il ricorrente che, quando il giudice abbia conoscenza del fatto che l’imputato è sottoposto a misura restrittiva della libertà personale che non gli consente di presenziare liberamente all’udienza, non può dichiararne l’assenza ma deve mettere l’imputato in condizioni di partecipare.
2. La soluzione adottata dalla Cassazione
La Suprema Corte riteneva il motivo summenzionato fondato per le seguenti ragioni.
Si osservava prima di tutto come il tema da doversi affrontare nel caso di specie concernesse la seguente problematica: se possa considerarsi legittimamente impedito l’imputato che, sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di dimora in un comune diverso da quello in cui si celebra il processo, non partecipi al suo processo per non avere richiesto al giudice di essere autorizzato a recarsi libero in udienza.
Premesso ciò, si notava che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, non sussiste il legittimo impedimento a comparire nel caso in cui l’imputato, sottoposto alla misura dell’obbligo di soggiorno in un Comune diverso da quello in cui si celebra il processo, non abbia chiesto l’autorizzazione al giudice competente per partecipare all’udienza, ritenendosi invece necessario che l’imputato manifesti la sua volontà di essere presente in udienza, attraverso specifica richiesta di autorizzazione.
In assenza di una specifica richiesta, invero, secondo tale approdo ermeneutico, l’Autorità Giudiziaria non può sostituirsi alla volontà dell’imputato con l’adozione di provvedimenti autorizzativi non espressamente richiesti da questi, non potendo essere interpretato il silenzio dell’interessato come una richiesta implicita a partecipare, assumendosi a tal proposito che “proprio l’ampiezza del diritto di difesa… contiene in sé, fisiologicamente, anche la facoltà dell’imputato di decidere di non essere presente ad una o più udienze, ben potendo egli rinunziare alla traduzione, nel caso in cui sia detenuto, pur avendo in precedenza dichiarato di volere essere presente, essendo detta decisione – che potrebbe essere dettata anche da specifiche strategie difensive, oltre che da personali motivazioni – del tutto insindacabile da parte dell’Autorità Giudiziaria ” (cosi testualmente, Sez. 5, n. 42749 del 04/07/2019; nello stesso senso, tra le altre, Sez. 5, n. 20726 del 25/03/2014).
Secondo, dunque, l’indirizzo in esame, il diritto dell’imputato, sottoposto alla misura dell’obbligo di dimora in un comune diverso da quello in cui si celebra il processo, di partecipare all’udienza del “suo” processo presupporrebbe una manifestazione di volontà espressa dell’interessato in assenza della quale il Giudice, pur a conoscenza della esistenza di una situazione di obiettivo impedimento a partecipare al processo, non dovrebbe fare alcunché.
Un diritto di partecipare al processo esistente ma “assicurabile“, “tutelabile” solo in presenza di una espressa richiesta di partecipazione da parte dell’interessato il cui silenzio, invece, sarebbe sostanzialmente espressione della volontà di non partecipare all’udienza; in altri termini, occorre una richiesta di partecipazione in assenza della quale, deve inferirsi una sostanziale rinuncia a comparire o, comunque, una implicita manifestazione di disinteresse ad essere presente.
Orbene, per il Supremo Consesso, nella pronuncia qui in commento, tale orientamento interpretativo non può essere condiviso.
Ciò posto, prima di entrare nel merito delle argomentazioni atte a determinare “un cambiamento di rotta” rispetto all’indirizzo maggioritario appena enunciato, gli Ermellini osservavano come, nell’ottica di un processo a carattere accusatorio, la partecipazione dell’imputato al “suo” processo è condizione indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione; essa afferisce al diritto di difesa e, perciò, non è “confiscabile“, potendo al più essere oggetto di rinuncia da parte del titolare dello stesso, in presenza di una non equivoca manifestazione di volontà.
Al diritto dell’imputato di partecipare al processo è riconosciuto rango costituzionale (art. 111 Cost.): un giudizio senza imputato può essere celebrato solo a seguito di una sua chiara opzione, anche solo ragionevolmente presunta, cosciente e volontaria, cioè responsabile.
Non diversamente, è noto come sia sul versante delle norme pattizie internazionali che il principio in esame trova indefettibile affermazione (art. 6, comma 3, lett. c), d), e), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; art. 14, comma 3, del Patto internazionale sui diritti civili e politici – adottato a New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo con L. 25 ottobre 1977, n. 881, ed entrato in vigore per l’Italia il 15 dicembre 1978).
Il diritto dell’imputato di partecipare fisicamente all’udienza rappresenta un requisito fondamentale dell’equo processo, ovvero una garanzia del principio della “parità delle armi“; si tratta di un diritto non assoluto posto che se ne ammettono tanto limitazioni dettate dall’esigenza di salvaguardare la corretta amministrazione della giustizia – qualora essa sia minacciata dall’abuso dei diritti della difesa – quanto limitazioni dipendenti da una legittima e volontaria rinuncia a comparire dinanzi al tribunale giudicante.
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Ebbene, a fronte di tale quadro normativo, i giudici di piazza Cavour evidenziavano come le Sezioni unite abbiano da tempo affermato il diritto fondamentale dell’imputato di essere presente nel giudizio in cui si decide sulla sua responsabilità, chiarendo come l’impedimento dell’imputato si atteggi in modo diverso nel giudizio ordinario e nel giudizio camerale di appello.
Nel giudizio ordinario, si è spiegato testualmente “deve sempre essere assicurata, in mancanza di un inequivoco rifiuto, la presenza dell’imputato e quindi, in virtù della norma generale fissata dall’art. 420 ter cod. proc. pen., qualora l’imputato non si presenti e in qualunque modo risulti (o appaia probabile) che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, spetta al giudice disporre, anche d’ufficio, il rinvio ad una nuova udienza, senza che sia necessaria una qualche richiesta dell’imputato in tal senso”
Si è aggiunto che “qualora l’imputato sia detenuto o agli arresti domiciliari o comunque sottoposto a limitazione della libertà personale che non gli consente la presenza in udienza, poiché in tali casi è in re ipsa la presenza di un legittimo impedimento, il giudice, in qualunque modo e in qualunque tempo venga a conoscenza dello stato di restrizione della libertà, anche senza una richiesta dell’imputato deve d’ufficio rinviare il processo ad una nuova udienza e disporre la traduzione dell’imputato, a meno che, ovviamente, non vi sia stato un rifiuto dell’imputato stesso di assistere all’udienza (art. 420 quinquies)” (Così Sez. U., n. 35399 del 24/06/2010), rilevandosi al contempo come trattasi di affermazioni riprese ed ulteriormente sviluppate dalle Sezioni unite che, seppur pronunciandosi in relazione ad altra questione, hanno tuttavia ribadito in modo chiaro che:
– “né il testo, né lo spirito dell’articolo 6 della Convenzione impediscono ad una persona di rinunciare spontaneamente alle garanzie di un processo equo in maniera espressa o tacita (Seliwiak c. Polonia 21/07/2009; Kwiatkowska c. Italia, 30/11/2000), ma, per essere considerata efficace, la rinuncia al diritto di partecipare all’udienza deve essere stabilita in modo non equivoco (Draca c. Croazia, 20/01/2022; Huzuneanu c. Italia, 01/09/2016; Battisti c. Francia, 12/12/2006; Poitrimol cit.) e deve essere frutto di una scelta consapevole sulle conseguenze processuali di tale decisione (Murtazaliyeva c. Russia, 18/12/2018; G.C. Dvroski c. Croazia, 20/10/2015; Pishchalnikov c. Russia, 24/12/2009; G.C. Salduz c. Turchia, 27/11/2008; G.C. Seydovic c. Italia, cit.)”;
– ha natura ineludibile l’accertamento “della mancanza di qualsiasi impedimento alla partecipazione su cui il giudicante possa intervenire, attesa la natura subvalente dell’efficienza del processo rispetto alla necessità di tutela del diritto alla partecipazione”;
– in tal senso si giustifica l’espressa previsione “di un obbligo per il giudice di valutare, anche in chiave probabilistica, la sussistenza di un impedimento alla partecipazione, riconducibile al caso fortuito o alla forza maggiore, imposto dall’art. 420-ter, comma 2, cod. proc. pen. ove si equipara l’accertamento dell’impedimento al dubbio sulla sua sussistenza, al fine di imporre il rinvio del procedimento”.
Di conseguenza, sulla base di tali presupposti, le Sezioni unite hanno spiegato “che la conoscenza da parte del giudicante della presenza di una limitazione alla libertà, su cui sia possibile intervenire, non può essere pretermessa, se non ignorando allo stesso tempo l’evidente discrasia logica che si verrebbe a creare tra la pretesa libertà di determinazione dell’interessato, presupposto di legittimità del giudizio in assenza, e la condizione di restrizione”.
In particolare, le Sezioni unite rilevavano al riguardo quanto segue: “l’assenza può costituire, quindi, chiara espressione della abdicazione del diritto a partecipare solo ove non risulti in alcun modo la presenza di un impedimento e possa essere ricondotta univocamente ad una libera rinuncia dell’imputato ad esercitare il suo diritto. Tale condizione non sussiste in tutte le ipotesi nelle quali il giudice che procede ha conoscenza dell’esistenza di un impedimento dell’imputato a partecipare al processo a causa della limitazione della libertà personale e non sia stata manifestata da parte dell’interessato, in maniera inequivoca, la volontà di rinunciare a presenziare. In tal caso incombe al giudice procedente l’obbligo di esercitare, di ufficio e senza ulteriori sollecitazioni da parte dell’imputato, tutti i poteri che l’ordinamento gli conferisce al fine di assicurare la partecipazione dell’imputato non rinunciante. La difforme interpretazione si fonda sul disconoscimento della natura assoluta dell’impedimento, in quanto superabile da una manifestazione di interesse da parte dell’imputato, ma omette di considerare che tale attività, sicuramente possibile, non è però imposta dalla legge, che non pone a carico dell’imputato, citato in condizioni di libertà, e ristretto per altra causa, di attivarsi presso il giudice della cautela, o il magistrato di sorveglianza competente sulla restrizione in atto. Il dato normativo impone di escludere la legittimità di una interpretazione che appare fondata sulla configurazione della partecipazione dell’imputato come un interesse perseguibile su sua iniziativa, e non un diritto, e su esigenze di funzionalità e celerità del processo, più che sul rispetto della sua ritualità, secondo le precise scansioni dettate dalle disposizioni sul punto”. (Sez. U., n. 7635 del 30/09/2021).
Ebbene, concluso anche questo excursus giurisprudenziale, i giudici di legittimità ordinaria ritenevano come codesti principi fossero scolpiti chiaramente in guisa tale da travalicare la specifica fattispecie su cui le Sezioni unite erano intervenute (ambito dell’impedimento dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa).
Tal che se ne faceva conseguire come non possa essere configurata una rinuncia nei casi in cui il giudice, come nel caso di specie, abbia conoscenza dell’esistenza di un impedimento dell’imputato a partecipare al processo a causa della limitazione della libertà personale e non sia stata manifestata da parte dell’interessato, in maniera inequivoca, la volontà di non presenziare.
L’impedimento dell’imputato, sottoposto ad una misura cautelare che di fatto gli impedisce di partecipare al processo, quindi, non cessa di essere assoluto in ragione della mancata espressa attivazione dell’interessato e, dunque, della mancata espressa manifestazione di interesse a partecipare dal momento che la situazione di diritto fondamentale dell’imputato di partecipare al “suo” processo” non degrada ad interesse perseguibile a sua iniziativa, non essendo detta iniziativa imposta dalla legge, né, sempre ad avviso della Suprema Corte, è obiettivamente chiaro perché i principi affermati dalle Sezioni unite non dovrebbero applicarsi anche all’imputato sottoposto alla misura dell’obbligo di dimora in un comune diverso da quello in cui si celebra il suo processo.
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, la Cassazione notava come il Tribunale e la Corte di appello non avessero fatto corretta applicazione di detti principi posto che, da un lato, l’imputato era in una situazione di impedimento legittimo a comparire e detta situazione era nota al Giudice, dall’altro, la circostanza, che l’imputato non avesse chiesto di essere autorizzato a recarsi in udienza, non poteva di per sé essere ritenuta come una indiretta manifestazione di disinteresse a presenziare ovvero come una rinuncia a partecipare, e, dunque, sempre ad avviso del Supremo Consesso, il Giudice, era tenuto ad assicurare la presenza dell’imputato.
All’udienza in cui il processo fu istruito e deciso, per gli Ermellini, l’imputato doveva considerarsi legittimamente impedito e da ciò se ne faceva derivare che le sentenze all’esito del giudizio di primo grado e di quello di appello, in quanto nulle, dovevano essere annullate con rinvio per nuovo giudizio e, pertanto, alla stregua di ciò, era disposta la trasmissione degli atti al Tribunale di Ancona per il giudizio.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse in quanto, attraverso una interpretazione “estensiva” di quanto affermato dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 7635 del 30/09/2021, è ivi stabilito che non è configurabile una rinuncia nei casi in cui il giudice abbia conoscenza dell’esistenza di un impedimento dell’imputato a partecipare al processo a causa della limitazione della libertà personale e non sia stata manifestata da parte dell’interessato, in maniera inequivoca, la volontà di non presenziare, e ciò in ragione del fatto che l’impedimento dell’imputato, sottoposto ad una misura cautelare che di fatto gli impedisce di partecipare al processo (quale può essere, come nel caso di specie, la misura dell’obbligo di dimora in un comune diverso da quello in cui si celebra il suo processo), non cessa di essere assoluto in ragione della mancata espressa attivazione dell’interessato e, dunque, della mancata espressa manifestazione di interesse a partecipare dal momento che la situazione di diritto fondamentale dell’imputato di partecipare al “suo” processo” non degrada ad interesse perseguibile a sua iniziativa, non essendo detta iniziativa imposta dalla legge.
Orbene, tale approdo ermeneutico è sicuramente condivisibile poiché volto a rafforzare il diritto dell’imputato di partecipare fisicamente all’udienza nel senso di garantirne l’effettività, nei termini appena esposti, anche qualora costui sia sottoposto all’obbligo di dimora in un comune diverso da quello in cui si celebra il processo a suo carico.
Pur tuttavia, a fronte della sussistenza di un diverso orientamento nomofilattico di segno contrario, ad oggi, ancora maggioritario, si auspica che su tale questione intervengano le Sezioni Unite.
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